John Locke - Non esistono principi innati


Immagine John Locke
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione

Introduzione


"An Essay Concerning Human Understanding" fu pubblicato per la prima volta a Londra nel dicembre 1689, anche se l'edizione era datata 1690. Successivamente, John Locke curò ulteriori tre edizioni dell'opera (1694, 1695, 1700) arricchendole con significative integrazioni. L'opera ricevette un'accoglienza favorevole sia in Inghilterra che in Europa, complice anche la traduzione in francese realizzata da Pierre Coste nel 1700, sotto la supervisione dello stesso Locke. Il libro è suddiviso in quattro parti: la prima parte contesta la presenza di principi innati nella psiche umana; la seconda esplora l'origine e la sistematizzazione delle idee; la terza tratta del linguaggio e delle relazioni tra le parole e le idee; infine, la quarta parte indaga la conoscenza e la nozione di probabilità. Nel primo volume, Locke critica coloro che invocano il "consenso universale" per difendere l'esistenza di idee o "nozioni comuni" innate in tutti gli esseri umani, sostenendo che gli uomini non possiedono principi speculativi originari (come il principio di non contraddizione) né principi morali innati (ad esempio, il concetto di giustizia).


Lettura


Non c'è ipotesi più comunemente accettata di quella secondo la quale esistono certi principi sia teoretici che pratici (poiché si fa riferimento a entrambi) universalmente accettati dal genere umano: si ritiene che tali principi debbano avere necessariamente origine da impressioni costanti che l'anima degli uomini riceve agli albori della sua esistenza, e che porta con sé nel mondo in modo così necessario e reale come vi porta ciascuna delle facoltà che le sono proprie.

Questo argomento, derivato dal consenso universale, ha il seguente inconveniente: se in realtà fosse vero che esistono alcune verità sulle quali concorda tutto il genere umano, comunque non si sarebbe dimostrato che tali verità siano anche innate, se può essere presentato un altro modo mediante il quale gli uomini sono in grado di giungere all'accordo universale su quelle cose intorno a cui essi esprimono il proprio assenso; la qual cosa credo possa essere dimostrata.

Ancora peggio, però, è che questo argomento del consenso universale, di cui s'è fatto uso per dimostrare l'esistenza di principi innati, mi sembra invece dimostrare che non ne esistono affatto, poiché non v'è alcun principio su cui il genere umano sia universalmente concorde.

Comincerò dai principi teoretici, in particolare dal caso dei famosi principi dimostrativi che più di tutti vantano i requisiti per essere considerati innati: tutto ciò che è, è; e è impossibile che la stessa cosa sia e non sia. Questi principi godono della fama così accreditata di massime universalmente riconosciute, e si troverà senz'altro strano che qualcuno osi metterli in discussione. Mi prendo tuttavia la libertà di dire che queste proposizioni sono assai lontane dal ricevere un consenso universale, poiché a una parte considerevole del genere umano esse non sono neppure note.

Innanzitutto è evidente che tutti i bambini e gli idioti non hanno la benché minima percezione o comprensione di tali principi, e questa mancanza è sufficiente a distruggere quel consenso universale che dovrebbe essere il dato concomitante e necessario di tutte le verità innate; mi sembra quasi contraddittorio affermare che ci sono verità impresse nell'anima che però questa non percepisce o non comprende affatto, poiché l'atto dell'imprimere, se mai significa qualcosa, non è altro che consentire a certe verità di essere percepite. Infatti l'imprimere qualcosa nella mente senza che la mente stessa lo percepisca mi sembra una cosa difficilmente intelligibile.

D'altra parte, se i fanciulli e gli idioti hanno un'anima, se hanno una mente con in se stessa tali impressioni, devono inevitabilmente percepire tali principi e necessariamente conoscere e dare il proprio assenso a quelle verità; ma poiché ciò non accade, è evidente che tali impressioni non esistono affatto. Infatti, se non sono concetti impressi naturalmente, come possono essere innati? E se sono concetti impressi, come possono rimanere sconosciuti? Dire che un concetto è impresso nella mente; e tuttavia allo stesso tempo dire che la mente l'ignora e che finora non ne ha mai avuto coscienza, significa rendere vana questa impressione. [...]

Se queste massime speculative, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, non sono accolte da tutto il genere umano con un effettivo assenso universale, così come abbiamo dimostrato, riguardo ai principi pratici è ancora più evidente che essi sono ben lontani dal ricevere un assenso universale; e credo sarebbe assai difficile citare una norma morale in grado di pretendere un assenso così immediato e generale come la seguente massima: ciò che è, è; o che possa essere a sua volta una verità manifesta quanto la massima: è impossibile che la stessa cosa sia e non sia. Da ciò risulta evidente che i principi morali hanno ancor meno titolo a qualificarsi come innati, e il dubbio che siano impressioni originarie della mente è in questo caso più forte che per gli altri principi.

Non che questo dubbio metta per nulla in questione la loro verità. I principi morali sono ugualmente veri, benché non ugualmente evidenti. I principi speculativi portano con loro stessi la propria evidenza, mentre i principi morali richiedono il ragionamento e l'argomentare, e una certa abilità della mente nello scoprire la certezza della loro verità. Essi non si presentano come caratteri incisi nella mente; se vi fossero impressi così, dovrebbero necessariamente rendersi visibili da soli e, mediante la loro propria luce, essere certi e conosciuti per ogni uomo. Ma questo non sminuisce in alcun modo la loro verità e la loro certezza, così come non diminuisce la verità e la certezza della proposizione: i tre angoli di un triangolo sono uguali, a due angoli retti, solo perché essa risulta meno evidente di questa: il tutto è più grande della parte, e non è altrettanto adeguata a ricevere l'assenso non appena formulato.

Basta che queste regole morali siano suscettibili di dimostrazione; e quindi sarà colpa nostra se non riusciremo a conseguirne una conoscenza certa. Ma l'ignoranza in cui molti uomini versano rispetto a tali regole, e la lentezza con cui altri uomini danno loro il proprio assenso, sono la prova manifesta che esse non sono innate né tali da offrirsi da sé, senza indagine, all'intelletto di costoro. [...]

La giustizia e l'osservanza dei contratti è ciò su cui la maggior parte degli uomini sembrano concordi: è un principio che si ritiene opportuno estendere anche ai covi di ladri e alla compagine dei peggiori scellerati; e coloro che più contribuiscono a distruggere l'umanità sono fedeli gli uni agli altri e osservano regole di giustizia. Riconosco che gli stessi banditi rispettano la legge l'uno con l'altro, ma senza avere ricevuto queste regole come leggi di natura innate. Le osservano come regole di convenienza all'interno della loro comunità; è infatti impossibile che consideri la giustizia come un principio pratico colui che agisce equamente con i suoi compagni di banda, ma allo stesso tempo deruba e uccide il primo uomo onesto che incontra. La giustizia e la verità sono i legami comuni della società, e così anche i fuorilegge e i ladri, che per il resto hanno rotto i rapporti con tutto il mondo, devono mantenere fra loro la fedeltà e le regole di equità, altrimenti non potrebbero vivere insieme. Ma qualcuno sosterrà mai che quanti vivono di frode e rapina hanno innati i principi di verità e giustizia, da loro peraltro ammessi e ai quali concedono il proprio assenso? [...]

Che gli uomini debbano mantenere i patti è certamente una delle regole maggiori e innegabili della morale: se si domandasse a un cristiano che crede all'esistenza della felicità e della sofferenza in un'altra vita perché un uomo deve mantenere la parola data, egli addurrebbe questa ragione: perché Dio, che ha il potere di elargire la beatitudine o la dannazione eterna, pretende questo da noi. Ma se rivolgete la stessa domanda a un discepolo di Hobbes, costui risponderebbe che è la comunità a esigere questo da noi, e il Leviatano vi punirà se non lo fate. E, infine, se domandate ciò a un filosofo pagano, egli risponderebbe che il fare altrimenti è disonesto, indegno della dignità di un uomo e contrario alla virtù, che è la perfezione più alta della natura umana. [...]

Ma non riesco a capire come alcune persone possano trasgredire queste regole morali con convinzione e serenità, se esse sono innate e impresse nelle loro menti. Considerate un esercito impegnato nel saccheggio di una città e osservate quale riguardo, quale sensibilità per i principi morali, o quale rimorso di coscienza dimostrano quegli uomini per le violenze da loro compiute.

Saccheggi, assassinii, stupri sono il divertimento di persone cui è stata garantita l'impunità da ogni castigo e biasimo. Non vi sono forse state intere nazioni, anche fra quelle più civili, per le quali abbandonare i propri bambini, lasciandoli nei campi a morire di inedia o come preda di bestie feroci, è stato un gesto così poco condannato o messo in discussione quanto il metterli al mondo? E in certi paesi non è pratica ancora in uso seppellire i bambini nella tomba con la madre quando questa muoia nel darli alla luce? O di ucciderli se un sedicente astrologo dichiara che essi sono nati sotto una cattiva stella? E non vi sono luoghi dove a una certa età i figli uccidono o abbandonano i propri genitori, senza alcun rimorso? In una certa parte dell'Asia, quando si dispera della guarigione di un malato, lo si conduce all'aperto e lo si depone a terra, prima che egli sia morto, e lo si lascia lì, esposto ai venti e alle intemperie, fino a che non muoia, senza conforto o pietà. È consuetudine presso i Mingreliani, popolo che si professa cristiano, seppellire vivi i propri bambini senza scrupolo alcuno. Vi sono luoghi dove i genitori mangiano i propri bambini. Gli abitanti dei Caraibi erano soliti castrare i loro bambini perché ingrassassero, per poi cibarsene. E Garcilasso de la Vega ci racconta di una popolazione in Perù che d'abitudine ingrassava e poi mangiava i bambini generati dalle loro prigioniere, che a questo scopo mantenevano in vita come concubine fino a che fossero fertili, ma quando superavano l'età della procreazione, esse a loro volta venivano uccise e mangiate. I Topinambur ritenevano il vendicarsi dei propri nemici e il nutrirsi in abbondanza delle loro carni azioni virtuose da perseguire al fine di meritare il paradiso. Essi non hanno neppure un nome per designare Dio, non hanno alcuna conoscenza di Dio, non hanno religione né culto. I santi che vengono canonizzati dai Turchi conducono una vita che non si può raccontare con pudicizia. [...] Dove sono allora quei principi innati di giustizia, di pietà, di riconoscenza, di equità e di castità? E dov'è quell'assenso universale che ci assicura dell'esistenza di principi innati? Da quando la moda ha concesso dignità ai duelli, si commettono omicidi senza alcun rimorso di coscienza, anzi in certi luoghi, in un simile frangente, l'innocenza si trasforma nella peggiore ignominia. E infine se andiamo a vedere fuori dai nostri confini e consideriamo gli uomini quali sono realmente, scopriremo che in un luogo gli uomini provano rimorso se compiono o trascurano d'eseguire ciò che, altrove, altri trovano meritorio perseguire o negligere.
Colui che scrupolosamente attenderà allo studio della storia del genere umano e osserverà le diverse tribù di uomini, e considererà senza pregiudizio le loro azioni, si persuaderà da sé che non c'è quasi principio della morale o regola della virtù, che si possa definire o considerare tale (fatta eccezione per i principi assolutamente necessari a fondare il vivere comune e civile, comunemente trascurati da società intere nei riguardi di altre società), che non sia però da qualche parte disprezzato e condannato dalla pratica generale di intere società, governate da opinioni e regole di vita pratica completamente opposte ad altre.


Guida alla lettura


1) Quale argomento viene utilizzato da coloro che sostengono l'esistenza di principi innati?
Nel testo, coloro che sostengono l'esistenza di principi innati utilizzano l'argomento del consenso universale. Secondo questo argomento, alcuni principi sia teoretici che pratici sono universalmente accettati dal genere umano e si ritiene che debbano avere necessariamente origine da impressioni costanti che l'anima degli uomini riceve agli albori della sua esistenza. In altre parole, questi principi sono considerati come qualcosa di così fondamentale e universalmente riconosciuto che devono essere presenti in ogni essere umano fin dalla nascita.

2) Quali sono i principali principi speculativi che vengono considerati innati?
Nel testo, i principali principi speculativi considerati innati da alcuni sono:

"Tutto ciò che è, è" - Un principio che afferma l'esistenza di ciò che esiste, evidenziando un riconoscimento basilare dell'esistenza.
"È impossibile che la stessa cosa sia e non sia" - Questo principio esprime la legge di non contraddizione, una delle leggi fondamentali del pensiero classico e della logica.

Questi principi sono citati nel testo come esempi di massime che tradizionalmente si ritenevano universalmente riconosciute e potenzialmente innati, proprio perché rappresentano nozioni molto basilari e fondamentali del ragionamento e della conoscenza umana. Tuttavia, Locke nel testo argomenta contro l'idea che questi principi siano veramente innati, osservando che non tutti gli esseri umani ne sono consapevoli e che non esiste un vero consenso universale su di essi.

3) Elenca, dapprima, i comportamenti che, secondo Locke, si possono ricavare dalla conoscenza dei costumi dei diversi popoli; spiega, poi, quale conclusione se ne può ricavare.
Comportamenti osservati nei diversi popoli secondo Locke:

Abbandono e omicidio di bambini: In alcune società, l'abbandono dei bambini nei campi o il seppellirli vivi insieme alle madri decedute non è visto con disapprovazione.
Pratiche cannibalistiche: Alcuni popoli hanno la pratica di ingrassare e mangiare i bambini, inclusi quelli dei nemici, o addirittura i propri figli, come parte delle loro usanze culturali.
Mancanza di pietà verso i malati: In alcune parti dell'Asia, i malati terminali vengono lasciati morire esposti alle intemperie.
Violenza e mancanza di giustizia: Anche fra i criminali e i banditi esistono delle regole di convenienza che governano le loro interazioni, pur mancando di una base morale di giustizia e verità universali.
Pratiche sociali e morali controverse: Alcuni popoli praticano usanze che includono uccidere o abbandonare i propri genitori, oppure vivere in maniere che sarebbero considerate immorali o disonorevoli in altre culture.
Diverse concezioni del dovere e della morale: Le nozioni di cosa sia corretto o sbagliato, cosa meriti rimorso e cosa sia virtuoso variano enormemente da una cultura all'altra.

Conclusione che Locke trae da questi comportamenti:

Locke utilizza questi esempi per mettere in discussione l'idea dell'esistenza di principi morali innati universalmente riconosciuti. Se tali principi fossero veramente innati e universali, non ci sarebbero queste divergenze così profonde e radicali nei comportamenti morali tra diverse società. Il fatto che esistano società con costumi e pratiche così drasticamente differenti dimostra, secondo Locke, che non esistono principi morali innati universalmente accettati. Piuttosto, questi principi sembrano essere il risultato di convenzioni sociali e ambientali che variano significativamente da un contesto culturale all'altro.

Locke conclude quindi che le idee morali non sono impresse nella mente umana dalla nascita ma sono acquisite tramite l'esperienza e l'educazione, variando notevolmente in base alle diverse culture e società. Questo mette in luce la natura non innata ma appresa e convenzionale delle norme morali, sottolineando l'importanza del contesto sociale e culturale nell'elaborazione dei principi etici.


Guida alla Comprensione


1) Spiega a quale argomentazione Locke ricorre per contestare l'esistenza di principi speculativi innati.
John Locke, nel suo "Saggio sull'intelletto umano", ricorre a diverse argomentazioni per contestare l'esistenza di principi speculativi innati. Ecco un riassunto delle sue argomentazioni basate sul testo che hai fornito:

Mancanza di consenso universale: Locke sottolinea che non esiste un vero e proprio consenso universale riguardo ai principi speculativi, come il principio di identità ("tutto ciò che è, è") e il principio di non contraddizione ("è impossibile che la stessa cosa sia e non sia"). Questi principi, sebbene spesso considerati universali e innati, non sono effettivamente riconosciuti o persino compresi da tutte le persone, incluse fasce significative della popolazione come bambini e individui con disabilità cognitive ("idioti").
Non percezione da parte di bambini e idioti: Locke argomenta che se questi principi fossero veramente innati, allora dovrebbero essere conosciuti e compresi da tutti, inclusi bambini e persone con disabilità cognitive. Tuttavia, osserva che né i bambini né gli idioti hanno alcuna percezione o comprensione di tali principi, il che contraddice l'idea che siano innati e universalmente riconosciuti.
Impressione vs percezione: Locke critica anche l'idea che i principi possano essere impressi nella mente umana senza che questa ne sia consapevole. Se i principi fossero veramente impressi, dovrebbero essere immediatamente percettibili dalla mente; tuttavia, il fatto che molte persone non ne siano consapevoli contraddice l'idea dell'impressione innata.

In sintesi, Locke utilizza il concetto di mancanza di un effettivo assenso universale e la non percezione da parte di gruppi significativi della popolazione per confutare l'argomento che i principi speculativi siano innati. Egli sostiene che questi principi non sono automaticamente parte della conoscenza umana dalla nascita ma acquisiti o appresi tramite l'esperienza e la riflessione.

2) Come si raggiunge realmente la conoscenza dei principi pratici?
Secondo il testo di John Locke estratto dal "Saggio sull'intelletto umano", la conoscenza dei principi pratici non è innata ma si sviluppa attraverso l'esperienza e il ragionamento. Locke sostiene che, anche se alcuni principi pratici come la giustizia e l'osservanza dei contratti sembrano essere universalmente riconosciuti, essi non sono automaticamente percepiti o conosciuti fin dalla nascita. Invece, questi principi vengono appresi e accettati attraverso la convenienza sociale e la necessità di coesione all'interno delle comunità, anche quelle marginali come le bande di ladri.

Locke fa notare che, se i principi fossero veramente innati e naturalmente impressi nella mente umana, tutti gli esseri umani, compresi i bambini e gli "idioti", dovrebbero essere consapevoli di essi. Tuttavia, egli osserva che ciò non accade, il che dimostra che tali principi non sono innati.

Inoltre, Locke evidenzia come differenti società possano avere norme morali radicalmente diverse, suggerendo che questi principi sono piuttosto determinati dalle circostanze culturali e sociali piuttosto che da un'impronta innata universale. Quindi, secondo Locke, la conoscenza dei principi pratici si raggiunge attraverso l'esperienza condivisa, l'educazione sociale, il ragionamento individuale, e l'interazione con la cultura e le leggi di una società.

In sostanza, per Locke, i principi pratici non sono pre-impressi nella mente ma emergono e sono accettati attraverso processi sociali e razionali che coinvolgono l'apprendimento e l'adattamento a specifici contesti storici e ambienti sociali.

3) Locke discute una questione oggetto di dibattito dai tempi di Platone: per quali ragioni possano esistere società di banditi in cui si rispettano regole di convivenza. Quale posizione Locke intende contestare e quale soluzione offre al problema?
Locke intende contestare la posizione che sostiene l'esistenza di principi morali e speculativi innati, ossia idee o nozioni comuni possedute in modo innato da tutti gli uomini fin dalla nascita. Questa teoria era supportata dall'argomento del "consenso universale", che afferma che certe verità vengono universalmente accettate da tutto il genere umano e quindi devono essere innate.

Nel testo, Locke usa l'esempio delle società di banditi per illustrare il suo punto di vista. Egli riconosce che anche tra i banditi esistono delle regole di convivenza, come il rispetto reciproco e l'osservanza dei contratti all'interno della loro comunità. Tuttavia, Locke sostiene che tali regole non sono seguite perché innate o percepite come leggi di natura ma come regole di convenienza che facilitano la convivenza all'interno del loro gruppo. Per Locke, quindi, le regole di giustizia osservate dai banditi non derivano da una qualche verità morale innata, sono piuttosto adottate pragmaticamente per permettere la sopravvivenza e la funzionalità del loro gruppo.

Locke offre una soluzione al problema delle origini delle regole morali e della loro osservanza, argomentando che l'accordo su tali regole non emerge da principi innati ma dalla capacità umana di raggiungere consensi basati su esperienze condivise e sul riconoscimento di utilità reciproca. In altre parole, le regole morali, comprese quelle rispettate dai banditi, emergono e vengono mantenute non perché inscritte nella mente umana dalla nascita, perché sono utili per facilitare le interazioni sociali e garantire la coesione all'interno di gruppi e società.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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