Parafrasi e Analisi: "Canto XIII" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XIII dell'Inferno si apre con un'atmosfera cupa e inquietante, immergendo il lettore in un paesaggio surreale e sinistro che introduce uno dei gironi più suggestivi della Commedia. In questo canto, Dante affronta il tema della violenza contro sé stessi e contro i propri beni, esplorando le implicazioni morali e spirituali di questi atti. La cornice del canto è profondamente allegorica, arricchita da immagini che evocano desolazione, dolore e trasformazione, riflettendo la condizione delle anime che vi sono dannate. Attraverso un linguaggio denso e altamente simbolico, Dante continua la sua indagine sulla giustizia divina e sulle conseguenze dei peccati, offrendo spunti di riflessione sulla relazione tra libero arbitrio, disperazione e redenzione.


Testo e Parafrasi


Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.

Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.

E 'l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre

che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».

Io sentia d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.

Cred' ïo ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.

Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi».

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb' esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de' capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond' io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.

«S'elli avesse potuto creder prima»,
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.

Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».

E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch' ïo un poco a ragionar m'inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.

La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.

L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede».

Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace»,
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

Ond' ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».

Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia

di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega».

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.

Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond' ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.

Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.

Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,

similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte

le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.

In quel che s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».

Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond' ei per questo

sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,

que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.

Io fei gibetto a me de le mie case».
Nesso non aveva ancora raggiunto la riva del Flegetonte,
quando Virgilio ed io entrammo
in un bosco che non aveva strade.

[le piante] non [avevano] fronde verdi, ma scure,
i rami non erano diritti, ma bitorzoluti e ritorti;
non c'erano frutti, ma spine avvelenate.

Non hanno [per loro dimora] rami secchi così ispidi,
tantomeno così fitti, quegli animali selvaggi
che tra Cecina e Corneto fuggono i luoghi coltivati.

Qui le luride Arpie, le quali furono cacciate dai compagni
di Enea dalle Strofadi dopo una cupa profezia
di sventure future, costruiscono i loro rifugi.

Hanno ali larghe, collo e volto umano,
artigli ai piedi e piume sul grande ventre;
modulano [i loro] versi dagli alberi insoliti.

E Virgilio «Prima di entrare, devi sapere
che ti trovi nel secondo girone»,
cominciò a dir[mi], «e ci rimarrai finché

arriverai ad una spaventosa distesa di sabbia.
Perciò osserva bene; così vedrai cose che a parlarne
soltanto non sarebbero credute».

Io sentivo gemere in ogni direzione
ma non vedevo [alcuna] persona che lo facesse;
per cui mi fermai [del] tutto confuso.

Credo che Virgilio abbia creduto che io credessi
che tutti quei gemiti uscissero, tra quegli sterpi,
da persone che si nascondevano da noi.

Perciò Virgilio disse: «Se tu spezzerai
qualche ramo di una di queste piante,
l'idea che [ora] ti sei fatto si troncherà completamente».

[E] allora allungai la [mia] mano
e raccolsi un ramoscello da un grande arbusto;
e il suo tronco gridò: «Perché mi spezzi?».

Dopo che si coprì di sangue scuro,
continuò a dire: «Perché mi spezzi?
Non hai nessuna pietà?

[Noi] siamo stati uomini, e adesso siamo arbusti:
la tua mano avrebbe dovuto essere più pietosa,
[anche] se [noi] fossimo stati spiriti di serpenti».

Come [accade per] un tronco acerbo
che viene bruciato su uno dei lati, mentre l'altro [lato]
gocciola e stride per il vapore che [vi] esce,

così dal ramo spezzato fuoriuscivano
allo stesso tempo parole e sangue;§
per cui feci cadere il ramo, e [ne] rimasi spaventato.

«Se tu avessi potuto credere prima»,
rispose Virgilio, «[o] anima offesa,
a ciò che hai [potuto] vedere anche nei miei versi,

[egli] non avrebbe disteso la mano su di te;
ma il prodigio fece sì che lo inducessi
ad un'azione che anche a me dispiace.

Ma racconta a Dante chi sei stato [in vita],
così che per scusarsi del danno procurato
rinnovi la tua fama nel mondo [dei vivi]».

E la pianta [rispose]: «mi alletti a tal punto
con parole gentili che io non posso restare in silenzio;
e a voi non dispiaccia se mi trattengo un po' a conversare.

Io sono colui che ebbe [in custodia] entrambe le chiavi
del cuore di Federico, e che le fece girare,
aprendo e chiudendo, così dolcemente,

che allontanai quasi tutti dalla confidenza privata con lui;
e tenni fede al [mio] compito onorevole,
a tal punto che perdetti [prima] la pace e [poi] la vita.

La prostituta che mai dalla corte imperiale
distolse i [suoi] disonesti occhi, [che è] rovina
di tutti [gli uomini] ed [è il] malcostume delle corti,

mise contro di me l'animo di tutti [i cortigiani];
e gli invidiosi influenzarono a tal punto l'imperatore,
che i [miei] felici onori si trasformarono in cupi dolori.

Il mio animo, essendo indignato, pensando che morendo
avrebbe cancellato il disprezzo, mi fece [agire] in modo ingiusto
contro me stesso, [mentre ero in realtà] una persona onesta.

Giuro, per le nuove radici di questa pianta [che ora mi ospita],
che mai infransi la fedeltà verso il mio signore,
che fu [sempre] degno d'onore.

E se uno di voi tornerà nel mondo [dei vivi],
rivendichi il mio onore, che ancora
subisce la fama che l'invidia gli procurò».

[Virgilio] restò pensoso, e poi «Poiché egli tace»,
mi disse il poeta, «non perdere tempo; ma parla,
e domandagli [qualcosa], se vuoi».

E allora gli dissi: «Sii tu a domandargli ancora
su ciò che pensi possa soddisfare [il mio desiderio di sapere];
perché io non posso, tanta è la mia commozione».

Per questo riprese [a dire]: «ti si faccia
prontamente ciò che chiedi,
anima rinchiusa, se vuoi,

spiega [noi ancora] come l'anima [una volta arrivata qui]
si unisce a questi tronchi; e spiegaci, se puoi,
se qualche [anima] si svincola mai da tale corpo».

Allora il tronco emise un duro soffio, e il sibilo
[che ne uscì] divenne questa voce:
«Vi risponderò in poche parole.

Quando l'anima violenta lascia il corpo
da cui essa [da sé] si è strappata via,
Minòs la destina al settimo cerchio.

Precipita nella selva, e non viene stabilito alcun luogo per lei;
ma lì dove il caso la scaglia, in quel luogo
comincia a germogliare come un seme di spelta.

Nasce un ramoscello che [diventa] una pianta selvatica:
le Arpie, nutrendosi poi delle sue foglie,
[le] fanno male e aprono al dolore il [suo] lamento.

Come [tutte] le altre anime ci uniremo ai nostri corpi,
ma non ci rivestiremo [nuovamente] con essi,
perché non è giusto [ri]avere ciò che l'uomo ha rifiutato.

Le trascineremo in questo luogo, e i nostri corpi
saranno appesi nella triste selva,
ognuno alla pianta [generata] dalla sua anima nemica».

Noi eravamo ancora rivolti verso la pianta,
pensando che volesse parlare d'altro,
quando fummo colpiti da un rumore [improvviso],

come quello che, nel luogo del suo appostamento,
sente arrivare il cinghiale, e [di seguito] i cacciatori,
[e] che avverte muoversi gli animali e le fronde.

Ed ecco [arrivare] due [anime] da sinistra,
nude e ferite, che fuggivano così velocemente,
che [nel correre] spezzavano ogni fascio di rami.

Il primo dei due [che arrivò, gridava]: «morte vieni adesso!».
E il secondo, al quale sembrava di non correre abbastanza,
urlava: «Lano, non furono così abili

le tue gambe negli scontri dalle parti di Toppo!».
E poiché forse gli mancava il fiato,
si gettò dietro un cespuglio [quasi] avvolgendosi ad esso.

Dietro di loro, la selva era piena di cagne nere,
affamate e che correvano
come levrieri appena slegati dalla catena.

[Le cagne] azzannarono il dannato che si nascose [dietro al cespuglio],
e lo straziarono pezzo per pezzo;
e poi portarono via quei brandelli doloranti.

Allora Virgilio mi prese per mano,
e mi portò [vicino] al cespuglio che si lamentava
inutilmente attraverso i [suoi] rami sanguinanti.

«O Iacopo», diceva [piangendo] «da Santo Andrea,
che vantaggio hai avuto nel nasconderti dietro me?
Che cosa ho a che fare io con la tua colpa?».

Quando Virgilio si fermò sopra di lui, domandò:
«chi fosti [tu], che per tutti i rami che hai spezzati
sfiati fuori assieme al sangue [questo] lamento?».

Ed egli ci disse: «O anime che siete venute
ad assitere allo scempio crudele
che mi ha spezzato i rami,

radunateli ai piedi del [mio] infelice cespuglio.
Io nacqui nella città che cambiò il [suo] primo patrono
con S. Giovanni Battista; per cui quello, per tale ragione,

la renderà sempre infelice con la sua arte;
e se non fosse che sopra il ponte che sovrasta l'Arno
è rimasta qualche traccia di lui,

quei cittadini che in seguito la rifondarono
sopra le macerie che restarono [dopo il passaggio] di Attila,
l'avrebbero fatta ricostruire invano.

Io feci della mia casa la mia forca».



Riassunto


Nel tredicesimo canto dell'Inferno, Dante si ritrova nel secondo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i suicidi. L'ambiente è descritto come una selva intricata e oscura, con alberi nodosi e avvelenati, in netto contrasto con i boschi del mondo reale (vv. 4-6: "Non fronda verde, ma di color fosco; | non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; | non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco"). A rendere ancora più angosciante l'atmosfera ci sono le Arpie, creature mitologiche che si annidano tra i rami. L'ambientazione preannuncia la terribile visione che attende il poeta.

Dante, inizialmente, percepisce lamenti provenire da ogni lato senza però scorgere nessuno (vv. 22-24: "Io sentia d'ogne parte trarre guai | e non vedea persona che 'l facesse; | per ch'io tutto smarrito m'arrestai"). La sua confusione è espressa in modo magistrale nel verso 25, costruito sul verbo "credere". Per dissipare i dubbi di Dante, Virgilio lo invita a spezzare un ramo da uno degli alberi: incredibilmente, dal ramo reciso scaturiscono sangue e una voce umana che si lamenta per il dolore inflitto. Questo straordinario espediente narrativo, ispirato a un episodio virgiliano relativo a Polidoro, introduce Pier delle Vigne, figura centrale del canto.

Pier delle Vigne, dignitario della corte di Federico II e parte della scuola poetica siciliana, racconta la sua storia. Caduto in disgrazia per l'invidia altrui, si tolse la vita per sfuggire all'umiliazione. Con un linguaggio elevato, che rispecchia il suo rango e la sua cultura, Pier ricorda il suo passato con nostalgia, rivendicando al contempo la propria fedeltà all'incarico (vv. 58-61: "Io son colui che tenni ambo le chiavi | del cor di Federigo, e che le volsi, | serrando e diserrando, sì soavi, | che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi"). Il suo racconto si conclude con un'intensa terzina basata su antitesi:

"L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto."

Pier chiede a Dante di riabilitare la sua memoria nel mondo terreno. Rispondendo alle domande di Virgilio, egli spiega come le anime dei suicidi siano condannate dalla legge del contrappasso a diventare parte della selva e a non riottenere mai i loro corpi, nemmeno al Giudizio Universale, poiché li hanno volontariamente rinnegati.

Mentre il dialogo si svolge, due figure irrompono nella scena, inseguite da cagne feroci. Si tratta di scialacquatori, puniti per la violenza contro i propri beni. Uno di loro, Iacopo da Sant'Andrea, viene dilaniato dalle bestie, che devastano anche un arbusto in cui aveva cercato rifugio. Questo cespuglio, anch'esso un'anima dannata, si rivela essere un fiorentino che si tolse la vita nella sua stessa casa (v. 151: "Io fei gibetto a me de le mie case"). Il canto si chiude con questa immagine cupa, che accentua la tragicità della pena dei suicidi e degli scialacquatori.


Figure Retoriche


v. 1, v. 4, v. 7: "Non": Anafora. NON fronda, NON rami, NON porni.
vv. 4-6: "Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco": Antitesi.
v. 14: "Pennuto 'l gran ventre": Anastrofe.
v. 15: "Fanno lamenti in su li alberi strani": Iperbato. Cioè non sono strani gli alberi bensì i lamenti; il significato è "emettono suoni lamentosi e orribili (strani) sugli alberi".
v. 25: "Cred'io ch'ei credette ch'io credesse": Poliptoto. Perché si ripete la stessa parola a breve distanza ma con significati diversi.
v. 37 e v. 39: "Uomini fummo, e or siam fatti sterpi...se state fossimo anime di serpi": Chiasmo.
vv. 40-45: "Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de'capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond'io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme": Similitudine.
v. 48: "La mia rima": Sineddoche. La parte per il tutto.
vv. 55-57: "Adeschi...inveschi": Paronomasia.
v. 56: "Non gravi": Litote.
vv. 58-59: "Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo": Metafora.
vv. 64-66: "La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio": Metafora.
v. 62: "Fede portai": Anastrofe.
v. 68: "'Nfiammati infiammar": Poliptoto.
v. 69: "Lieti...tristi": Antitesi.
v. 72: "Ingiusto...giusto": Paronomasia.
v. 74: "Vi giuro che già mai non ruppi fede": Antitesi.
v. 99: "Quivi germoglia come gran di spelta": Similitudine.
v. 102: "Fanno dolore, e al dolor fenestra": Chiasmo.
vv. 125-126: "Bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena": Similitudine.
vv. 143-144: "I' fui de la città che nel Batista mutò il primo padrone": Perifrasi. Per indicare Firenze.


Personaggi Principali


Federico II di Hohenstaufen (1194-1250) regnò sulla Sicilia dal 1198 al 1250, trasformando la corte siciliana in un centro di potere politico e culturale. Durante il suo governo, Federico si dedicò alla modernizzazione del regno, avvalendosi di collaboratori competenti come Pier delle Vigne, e intraprese una dura opposizione alla Chiesa, che lo portò alla scomunica. La corte divenne un crocevia di tradizioni culturali diverse, tra cui quella greco-latina, romanza, ebraica e araba. In questo contesto si sviluppò, tra il 1230 e il 1250, la Scuola siciliana, la prima corrente poetica in volgare della letteratura italiana.

Questa scuola, nata in un ambiente raffinato ma segnato anche da momenti drammatici (come il tragico suicidio di Pier delle Vigne), si ispirò alla poesia provenzale in lingua d'oc, adattandone i temi amorosi al siciliano colto. Il lavoro dei poeti siciliani, tra cui Jacopo da Lentini (a cui si attribuisce l'invenzione del sonetto), influenzò profondamente i rimatori toscani come Guittone d'Arezzo e Bonagiunta Orbicciani, ponendo le basi per lo Stilnovo.

L'episodio dantesco di Pier delle Vigne, pur condannandolo secondo la morale cristiana, è intriso di pietà e si chiude con immagini suggestive e cupe: la "caccia infernale" e la sorte tragica del suicida evocano i peccati di Firenze, collegandosi a un motivo ricorrente nella letteratura medievale, ripreso anche nella novella di Boccaccio Nastagio degli Onesti.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto XIII dell'Inferno è interamente dedicato alla selva dei suicidi, un luogo oscuro e angosciante dove sono puniti i suicidi e gli scialacquatori. Qui la pena riflette il peccato: le anime dei suicidi sono trasformate in arbusti dai rami contorti, simbolo della loro vita spezzata, e subiscono ulteriori tormenti dalle Arpie, creature mitologiche che si nutrono delle loro foglie, provocando dolore e lamentazioni.

Ritmo e struttura del Canto
Il ritmo narrativo varia in base agli eventi descritti. La prima parte (vv. 1-108) è lenta e meditativa, con una descrizione minuziosa della selva, un luogo cupo e intricato dove le foglie nere e i rami aggrovigliati creano un'atmosfera di angoscia. Questa selva è una "negativa" contrapposizione alla selva oscura del Canto I, accentuata dalla presenza delle Arpie, mostri mitologici dal volto di donna e corpo d'uccello. Nella seconda parte (vv. 109-151), il ritmo diventa frenetico con l'apparizione delle nere cagne che inseguono gli scialacquatori, rappresentando la violenza e la distruzione legate alla dissipazione del patrimonio. La caccia al cinghiale, evocata in questa scena, contribuisce a creare una tensione visiva e sonora.

La struttura del Canto segue un modello già visto nei precedenti episodi dell'Inferno: la presenza di un custode (in questo caso le Arpie), la descrizione della pena secondo il contrappasso, l'incontro con un dannato (Pier della Vigna) e la sua richiesta di ricordare il suo nome nel mondo terreno. Pier della Vigna, come altri personaggi già incontrati (Ciacco, Cavalcante Cavalcanti, Farinata degli Uberti), dimostra un attaccamento alla sua fama terrena, chiedendo a Dante di difenderlo dalle accuse che macchiarono la sua memoria.

La selva dei suicidi e il contrappasso
La selva dei suicidi non ha sentieri che la attraversano, simbolo dell'assenza di vie d'uscita o di speranza. Gli alberi rappresentano la degradazione dell'anima che, avendo rifiutato il proprio corpo con il suicidio, è ora condannata a vivere in una forma inferiore. Nemmeno dopo il Giudizio Universale i suicidi riacquisteranno il loro corpo: essi lo vedranno penzolare dai rami degli alberi, un'immagine macabra che richiama il gesto estremo dell'impiccagione. La personificazione delle Arpie, che nidificano tra i rami e si nutrono delle foglie, sembra accentuare la sofferenza dei dannati, ma il legame di queste creature con il peccato di suicidio non è esplicitamente tratto dalla mitologia classica, dove esse rappresentano piuttosto la rapina e la furia.

Pier della Vigna e il mondo della corte
Pier della Vigna è il protagonista del Canto. Segretario e consigliere dell'imperatore Federico II di Svevia, fu accusato ingiustamente di tradimento e, in seguito alla tortura e all'accecamento, si tolse la vita. Pier si presenta con un linguaggio aulico e raffinato, rivelando la sua nobiltà d'animo e il suo risentimento per le accuse infamanti ricevute. Da una parte, si difende affermando di essere stato fedele all'imperatore, dall'altra condanna la corruzione della corte, che lo portò alla rovina. Dante, sebbene mostri comprensione per il personaggio e ne voglia riabilitare il nome, condanna comunque il suo suicidio, atto considerato contro la volontà divina.

Pier della Vigna utilizza metafore venatorie, come i verbi adescare e inveschiare, che richiamano la caccia, un'arte cara a Federico II, autore del trattato De arte venandi cum avibus. Nonostante la sua elevata retorica, il personaggio sembra incapace di comprendere pienamente la gravità del suo peccato, concentrandosi più sulla propria reputazione terrena che sul destino eterno.

Gli scialacquatori e il suicida fiorentino
La seconda parte del Canto introduce gli scialacquatori Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea, perseguitati dalle nere cagne in una scena di violenza e frenesia. La descrizione evoca la caccia al cinghiale, sottolineata da un uso intenso di allitterazioni che riproducono i suoni della boscaglia. Durante questa sequenza, emerge un altro suicida, un fiorentino che si tolse la vita dopo aver dissipato le sue ricchezze. Quest'anima, nelle sembianze di un cespuglio, rivela le sue origini attraverso una raffinata perifrasi, citando san Giovanni Battista, attuale patrono di Firenze. La città viene descritta come tormentata dalle continue guerre, con un richiamo al suo passato leggendario legato a Marte, il cui culto è stato sostituito da quello cristiano.

Riferimenti letterari
Il Canto è ricco di rimandi letterari, in particolare all'Eneide di Virgilio. L'episodio di Pier della Vigna che sanguina dopo che Dante spezza un suo ramo richiama la scena di Enea e Polidoro (libro III dell'Eneide), ma Dante rielabora l'episodio in modo più drammatico e allucinante. La selva dantesca sarà ripresa da Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata nell'episodio di Tancredi nella selva di Saron. Anche il linguaggio del Canto presenta elementi retorici, come l'anafora e il poliptoto, che arricchiscono lo stile elevato e letterario del discorso di Pier della Vigna.

In sintesi, il Canto XIII mescola raffinatezza letteraria e immagini di cruda violenza, creando un contrasto tra la solennità della narrazione e l'orrore delle pene descritte. Attraverso Pier della Vigna, Dante riflette sulla condanna del suicidio e sulla fragilità umana di fronte alle ingiustizie terrene, tracciando un quadro di grande complessità morale e artistica.


Passi Controversi


Al verso 1 compare Nesso, il centauro incaricato di trasportare Dante oltre il Flegetonte (Inf., XII, 94 e seguenti). I versi 7-9 evocano la Maremma, una zona che al tempo di Dante era caratterizzata da una natura selvaggia e popolata da animali selvatici, estendendosi tra il fiume Cecina e Corneto Tarquinia, già nel Lazio. Oggi questa regione è in gran parte bonificata.

L'aggettivo brutte, usato per descrivere le Arpie al verso 10, richiama la loro sudiciume, legata all'episodio dell'Eneide in cui contaminano le mense dei Troiani. Al verso 15, l'interpretazione è duplice: potrebbe significare che le Arpie emettono strani lamenti dagli alberi o, in alternativa, che causano dolore alle anime dei suicidi, simboleggiate dagli alberi stessi.

Nei versi 40-44 troviamo una similitudine naturalistica, che paragona un ramoscello verde, bruciato a un'estremità, alla fuoriuscita di linfa e al rumore prodotto. Nel Medioevo si pensava che tale suono fosse causato dall'aria intrappolata nel legno.

Virgilio (v. 48) fa riferimento all'episodio di Polidoro nell'Eneide, in cui quest'ultimo implora Enea di non violare il suo corpo sepolto. Pier della Vigna riprende questo episodio rimproverando Dante di non aver avuto una mano pietosa.

I versi 55-57 contengono metafore legate alla caccia: adescare si riferisce all'uso di esche, mentre inveschiare richiama la cattura con il vischio. Il tema della caccia ritorna nei versi finali del canto con l'immagine di una battuta al cinghiale.

Nei versi 58-61 si allude ai forzieri antichi, dotati di serrature che si potevano aprire e chiudere con chiavi diverse, a simboleggiare il controllo che Pier della Vigna aveva sul cuore di Federico II.

Cesare (v. 64) e Augusto (v. 68) sono usati in senso antonomastico per indicare Federico II, descritto come un imperatore maestoso. Al verso 73, il termine nove può essere interpretato come "recente" o "straordinario".

Nel verso 96, Minosse è citato come giudice infernale che assegna le pene ai dannati, come già descritto nel canto V. Nei versi 103-105 si richiama la credenza medievale secondo cui, nel Giorno del Giudizio, le anime risorte recupereranno i loro corpi, ma i suicidi non potranno indossarli, appendendoli invece ai loro alberi nella selva.

Nel verso 113, l'interpretazione 'l porco a la caccia è meno probabile rispetto alla lezione più accreditata, che rappresenta il cinghiale seguito dai battitori e dai cani. Al verso 117, il termine rosta significa "frasca" e deriva dal longobardo hrausta.

Il verso 132 può essere interpretato con il riferimento in vano applicabile sia all'aggettivo sanguinenti che al verbo piangea. I versi 146-150 menzionano una statua creduta raffigurante Marte, situata presso Ponte Vecchio, distrutta durante l'alluvione dell'Arno del 1333. Sebbene la leggenda attribuisca la distruzione di Firenze ad Attila, storicamente fu Totila, re ostrogoto, a devastare la città nel corso della guerra greco-gotica.

Infine, al verso 151, il termine gibetto, derivato dall'antico francese gibet, indica la forca: il suicida afferma di essersi impiccato nella sua stessa dimora.

Fonti: libri scolastici superiori

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