Parafrasi e Analisi: "Canto XIV" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XIV dell'Inferno di Dante Alighieri si colloca nel cuore del terzo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio, l'arte e la natura. In questo passo della Commedia, Dante esplora tematiche profonde legate alla bestemmia, all'arroganza umana nei confronti del divino e all'ordine naturale delle cose. La scena si svolge in un paesaggio desolato e suggestivo, un deserto infuocato, dominato da un'atmosfera di sofferenza e castigo, che accentua la portata simbolica delle pene inflitte ai dannati.

Il canto offre una riflessione sulla ribellione dell'uomo contro le leggi divine e universali, presentando non solo un'analisi morale e spirituale, ma anche un'affascinante fusione tra mitologia classica e visione cristiana. È qui che Dante dà forma al suo immaginario cosmologico, approfondendo il legame tra giustizia divina e disordine morale, con un linguaggio potente e vividamente figurativo che lascia trasparire il suo giudizio etico e la sua tensione poetica.


Testo e Parafrasi


Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era già fioco.

Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.

A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.

La dolorosa selva l'è ghirlanda
intorno, come 'l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.

Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d'altra foggia fatta che colei
che fu da' piè di Caton già soppressa.

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!

D'anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.

Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.

Quella che giva intorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.

Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.

Quali Alessandro in quelle parti calde
d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,

per ch'ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch'era solo:

tale scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com'esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.

Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l'arsura fresca.

I' cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ' demon duri
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,

chi è quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che 'l marturi?».

E quel medesmo, che si fu accorto
ch'io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.

Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo dì percosso fui;

o s'elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!",

sì com'el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».

Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s'ammorza

la tua superbia, se' tu più punito:
nullo martiro, fuor che la tua rabbia;
sarebbe al tuo furor dolor compito».

Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi
ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia

Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi;
ma, com'io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.

Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».

Tacendo divenimmo là 've spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.

Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato;
per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.

«Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,

cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com'è 'l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».

Queste parole fuor del duca mio;
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto
di cui largito m'avëa il disio.

«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss'elli allora, «che s'appella Creta,
sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto.

Una montagna v'è che già fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.

Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.

La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto,
poi è di rame infino a la forcata;

da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che 'l destro piede è terra cotta;
e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto.

Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta
d'una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.

Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,

infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».

E io a lui: «Se 'l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?».

Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,

non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto;
per che, se cosa n'apparisce nova,
non de' addur maraviglia al tuo volto».

E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l'un taci,
e l'altro di' che si fa d'esta piova».

«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose; «ma 'l bollor de l'acqua rossa
dovea ben solver l'una che tu faci.

Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l'anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa».

Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,

e sopra loro ogne vapor si spegne».
Poiché l'amore (carità) per Firenze (natio loco) mi aveva stretto il cuore (mi
strinse), raccolsi (raunai ) le fronde sparse (sparte) e le restituii
(rende'le) al dannato (colui), che era ormai privo di voce (fioco).

Quindi giungemmo al confine (fine) dove il secondo girone
si divide (si parte) dal terzo, e dove si vede la terribile opera
(orribil arte) della giustizia divina.

Per esprimere con chiarezza (A ben manifestar) gli aspetti terribili del nuovo girone
(le cose nove), dico che arrivammo in una pianura (landa) che (essendo infuocata)
non lascia attecchire (rimove) sul proprio suolo (letto) nessun tipo di pianta.

(La landa infuocata) è circondata (l'è ghirlanda intorno) dalla selva
dei suicidi (dolorosa selva), come questa lo è dal Flegetonte ('l fosso
tristo): ci fermammo laggiù (quivi) proprio sull'orlo (a randa a randa).

Il suolo (spazzo) era una distesa di sabbia (una rena) arida e compatta
(spessa), simile (non d'altra foggia fatta ) a quella (colei)
che fu già calcata (soppressa) dai piedi di Catone.

O giustizia (vendetta) di Dio, quanto devi (dei) essere
temuta da tutti (ciascun) coloro che leggono ciò che
apparve direttamente (fu manifesto) ai miei (mei) occhi!

Vidi molti gruppi (gregge) di anime nude che piangevano
molto miseramente, e appariva (parea) che ciascuna di esse era
sottoposta (posta) a diverse condizioni di pena (diversa legge).

Alcuni dannati (alcuna gente: i violenti contro Dio) giacevano a terra
supini, altri (gli usurai) stavano rannicchiati (si sedea tutta raccolta),
altri ancora (i sodomiti) camminavano continuamente (per la landa infuocata).

La schiera che andava (giva) intorno era la più numerosa (molta), e
quella che stava immobile (giacëa al tormento) era meno numerosa (men),
ma aveva la lingua più pronta (sciolta) al lamento (al duolo).

Sopra tutto il sabbione, lentamente (d'un cader lento), cadevano
(piovean) larghe (dilatate) falde di fuoco, simili (a falde) di
neve in montagna (in alpe) in assenza (sanza) di vento.

Come (Quali) le fiamme che Alessandro Magno, nelle regioni (parti)
calde dell'India, vide cadere intatte e accese (salde)
fino a terra sopra il suo esercito (stuolo),

per cui egli ordinò (provide) ai soldati (schiere) di scalpicciare
(scalpitar) il suolo, dal momento che (acciò che) il fuoco (vapore) si
estingueva (si stingueva) meglio (mei) finché restava isolato (mentre ch'era solo):

così scendeva l'eterna pioggia di fuoco (l'etternale ardore); per la quale la sabbia (rena) si
infiammava (s'accendea), come il materiale infiammabile (esca) alla scintilla prodotta dal
battere della pietra focaia sull'acciarino (focile), ad aumentare (doppiar) la sofferenza.

Senza sosta (riposo) era il movimento (tresca) delle misere mani,
che allontanavano (escotendo) ora da una parte (or quindi) ora
dall'altra (or quinci) le nuove fiamme che cadevano (l'arsura fresca).

Io cominciai: «Maestro, tu che superi (vinci) tutte le difficoltà
(tutte le cose), tranne i demoni ostinati (duri) che ci vennero incontro
(incontra uscinci) all'ingresso della porta della Città di Dite,

chi è quel grande spirito (quel grande) che non sembra preoccuparsi (non par che curi)
della pioggia di fuoco e della sabbia rovente (lo 'ncendio) e se ne sta (giace) sprezzante (dispettoso) e
torvo (torto), così che la pioggia di fuoco non sembra tormentarlo (non par che 'l marturi)?».

E quello stesso spirito (quel medesmo), accortosi
che io stavo chiedendo di lui a Virgilio, gridò:
«Quale io fui da vivo, tale sono anche da morto.

Se anche Giove facesse lavorare fino all'esaurimento (stanchi) da Vulcano
(stanchi 'l suo fabbro), da cui prese la saetta (folgore) acuminata (aguta)
con la quale (onde) fui colpito (percosso) l'ultimo giorno della mia vita;

o se Giove (s'elli) stancasse i Ciclopi (li altri) facendoli lavorare
incessantemente (a muta a muta) nell'oscura fucina (a la focina negra)
dell'Etna (Mongibello), gridando (chiamando) 'Buon Vulcano, aiuto, aiuto!',

così come fece durante la battaglia (pugna) di Flegra, e mi fulminasse
(me saetti) con tutta la sua forza, non ne potrebbe
avere una vendetta soddisfacente (allegra)».

Allora Virgilio parlò con tale forza, come non l'avevo mai
sentito prima: «O Capaneo, proprio per il fatto che
la tua superbia non si spegne (non s'ammorza),

tu sei maggiormente (più) punito: nessun (nullo) tormento
(martiro) sarebbe pena adeguata (dolor compito) alla tua empietà
(furor) quanto la tua rabbia impotente».

Poi si rivolse a me con atteggiamento più sereno (con miglior
labbia), dicendo: «Costui fu uno dei sette re (regi) che
assediarono (assiser) Tebe; ebbe, e pare che abbia ancora,

Dio in disprezzo (disdegno) e sembra considerarlo poco (poco par ch'el pregi);
ma, come gli ho detto, i suoi atteggiamenti sprezzanti (li suoi dispetti) sono
ora ornamenti (fregi) molto adeguati (assai debiti) al suo petto.

Ora seguimi (mi vien dietro), e stai attento (guarda) anche ora
(ancor) a non mettere i piedi nella sabbia infuocata (rena arsiccia); ma
cammina (tien li piedi stretti) sempre stando dalla parte della selva (al bosco)».

Tacendo, giungemmo (divenimmo) là dove sgorga (spiccia) dalla
selva un piccolo fiumicello, il cui rossore sanguigno ancora mi
spaventa (mi raccapriccia).

Come il ruscello che esce dalla sorgente del Bulicame, le cui
acque dividono (parton) tra loro le meretrici (peccatrici), così
quel fiumicello scendeva (giù sen giva) attraverso il sabbione (per la rena).

Il suo letto (fondo), entrambe le sponde (pendici) e i margini
laterali (dallato) erano di pietra; per cui mi accorsi che lì (lici)
era il passaggio ('l passo).

«Tra tutte le cose che io ti ho fatto vedere (dimostrato), dopo
che abbiamo attraversato la porta (dell'Inferno), il cui
ingresso (sogliare) non è negato a nessuno,

non è stata vista (scorta) dai tuoi occhi cosa più
ragguardevole (notabile) di questo ruscello (rio), che
spegne (ammorta) sopra di sé tutte le fiamme».

Queste parole furono pronunciate dalla mia guida; per cui io
lo pregai che mi spiegasse (mi largisse 'l pasto) ciò di cui mi
aveva suscitato (largito) la curiosità (disio).

Allora egli disse: «Nel mezzo del Mediterraneo (mar) è situato (siede) un luogo in
rovina (paese guasto) che si chiama (s'appella) Creta, sotto il cui primo re
(rege: Saturno) il mondo fu un tempo (durante l'età dell'oro) innocente (casto).

Là vi è una montagna che un tempo era ricca (lieta) di acqua
e di vegetazione (fronde), che si chiamava monte Ida; ora è
abbandonata (diserta) come una cosa vecchia (vieta).

Rea (la dea Cibele) la scelse quale culla (cuna) fidata (fida) per
il suo figliolo (Giove), e per nasconderlo (celarlo) meglio
quando piangeva, ordinava (ai Coribanti) di gridare (vi facea far le grida).

Nel monte si innalza (sta dritto) la statua di un grande vecchio
(veglio: il Veglio di Creta), che tiene le spalle rivolte a Damietta
e guarda Roma come specchio in cui identificarsi (come süo speglio).

La sua testa è fatta (formata) di oro puro (fin oro), le
braccia e il petto sono di argento puro, e quindi è di
rame fino all'inguine (forcata);

da lì in giù (in giuso) è tutto di ferro puro (eletto), tranne il
piede destro, che è di terracotta; e sta appoggiato (eretto) più su
questo che sull'altro.

Ogni sua parte, tranne quella d'oro, è spaccata (rotta) da una
fessura che gronda (goccia) lacrime, le quali, raccogliendosi (ai
piedi della statua) (accolte), bucano la roccia (su cui è appoggiata) (grotta).

Il corso delle lacrime (divenute ruscello) scende di roccia in
roccia (si diroccia) nella valle infernale; formano (fanno) Acheronte,
Stige e Flegetonte; poi scendono per questo stretto canale (doccia),

fino a che, nel punto (nel fondo dell'Inferno) oltre cui non si può più
scendere (più non si dismonta), formano Cocito; e come sia quel lago (stagno)
tu lo vedrai, perciò (però) ora (qui) non ne parlo (non si conta)».

E io a lui: «Se questo fiumicello (rigagno) deriva (diriva) pertanto (così)
dalla terra (nostro mondo), perché allora ci appare
solo (pur) sull'orlo di questo cerchio (vivagno)?».

Ed egli: «Tu sai che la voragine infernale ('l loco) è circolare
(tondo); e benché (tutto che) tu sia sceso (venuto) molto,
calandoti nel fondo sempre (pur) a sinistra,

non hai ancora completato (non se'... vòlto) il giro dell'intera circonferenza (per tutto 'l
cerchio): per cui, se ci appare (n'apparisce) qualcosa di nuovo, questo non
deve (non de') portare (addur) segno di meraviglia sul tuo volto».

Ed io ancora: «Maestro, dove si trovano Flegetonte e Letè?
Poiché dell'uno (del Letè) non parli (taci) e dell'altro dici (di')
che si forma (si fa) dalla caduta di queste lacrime (d'esta piova)».

«Certamente mi dài soddisfazione (mi piaci) con tutte le tue
domande (question)», rispose, «ma il ribollire del sangue (acqua
rossa) ti doveva ben risolvere (solver) uno dei quesiti che tu poni (faci).

Il Letè lo vedrai, ma fuori dall'Inferno (questa fossa), là (nel Paradiso terrestre)
dove le anime vanno a purificarsi (lavarsi) quando la colpa, grazie al
pentimento (pentuta), viene cancellata (rimossa)».

Poi disse: «Ormai è ora di allontanarsi (scostarsi) dal bosco; cerca di
venire (fa che... vegne) dietro di me; ci fanno strada (fan
via) i margini di pietra, che non sono roventi (arsi),

e sopra di essi ogni fiamma (vapor) si spegne».



Riassunto


VV 1-42: LA DISTESA INFUOCATA DEL TERZO GIRONE
Dopo aver raccolto con cura i rami che costituiscono il corpo trasformato del suicida fiorentino, Dante e Virgilio entrano nel terzo girone del settimo cerchio. Qui si trovano i bestemmiatori, condannati a subire la loro pena in una pianura sabbiosa arroventata, incessantemente battuta da una pioggia di fuoco. La landa è circondata dalla selva dei suicidi.

VV 43-72: CAPANEO
Dante nota un dannato isolato, che sembra affrontare la pena con atteggiamento sprezzante e indifferente. È Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, punito da una folgore di Giove per aver oltraggiato la divinità. La sua ostinata superbia lo rende il simbolo perfetto dei peccatori di questo girone.

VV 73-93: IL FLEGETONTE
I poeti arrivano dove scorre il Flegetonte, un fiume dal colore rosso come il sangue. Questo corso d'acqua, dopo aver attraversato la selva dei suicidi descritta nel canto precedente, continua il suo percorso nella pianura infuocata.

VV 94-120: IL VEGLIO DI CRETA E L'ORIGINE DEI FIUMI INFERNALI
Nel monte Ida, a Creta, si trova una statua di un Vecchio con il volto rivolto verso Roma e le spalle a Oriente. La testa è d'oro, il petto e le braccia d'argento, il ventre di rame, le gambe e il piede sinistro di ferro, mentre il piede destro, su cui si appoggia, è di terracotta. A eccezione del capo, il resto della statua presenta crepe da cui sgorgano le lacrime dell'umanità. Queste acque penetrano nel sottosuolo, dando origine ai fiumi infernali Acheronte, Stige e Flegetonte, che si uniscono nel fondo dell'Inferno per formare il lago ghiacciato Cocito.

VV 121-142: GLI ALTRI FIUMI DELL'OLTRETOMBA
Dante chiede dove si trovino il Flegetonte e il Letè. Virgilio risponde che il Flegetonte è proprio davanti a loro, riconoscibile dal suo colore, mentre il Letè non si trova nell'Inferno: il suo corso scorre nel Paradiso terrestre, come verrà mostrato nel Purgatorio (canto XXVIII).


Figure Retoriche


v. 1: "Natio loco": Anastrofe.
vv. 31-37: "Quali Alessandro in quelle parti calde d'India vide sopra 'l suo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore": Similitudine.
vv. 38-39: "Com'esca sotto focile, a doppiar lo dolore": Similitudine.
v. 41: "Quindi...quinci": Figura Etimologica.
v. 42: "Arsura fresca": Ossimoro.
v. 67: "Con miglior labbia": Metonimia.
vv. 79-81: "Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello": Similitudine.
v. 82: "Lo fondo suo": Anastrofe.
v. 85: "Tra tutto l'altro t'ho dimostrato": Allitterazione della T.
v. 91: "Duca mio": Anastrofe.
vv. 106-110: "La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e 'l petto, poi è di rame infino a la forcata da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che 'l destro piede è terra cotta": Climax Discendente.
v. 113: "Che lagrime goccia": Anastrofe.
vv. 1-2, vv. 5-6, vv. 10-11, vv. 16-17, vv. 31-32, vv. 38-39, vv. 43-44, vv. 46-47, vv. 61-62, vv. 97-98, vv. 100-101, vv. 130-131, vv. 139-140: Enjambements.


Analisi ed Interpretazioni


Il canto XIV dell'Inferno: violenza, mito e simbolismo
Il Canto XIV dell'Inferno si concentra sulla pena dei violenti contro Dio, collocati nel terzo girone del settimo cerchio, offrendo una triplice struttura tematica. La prima parte (vv. 1-42) introduce il paesaggio infernale, dominato dal sabbione infuocato e dalla pioggia di fuoco. La seconda (vv. 43-72) si sofferma sulla figura di Capaneo, emblema della superbia e dell'insolenza umana contro la divinità. Infine, la terza (vv. 73-142) propone una digressione allegorica e simbolica sulla storia dell'umanità, spiegando attraverso la statua del Veglio di Creta l'origine dei fiumi infernali.

Il paesaggio infernale e il contrappasso dei bestemmiatori
Il terzo girone è descritto come un deserto arido, coperto da sabbia incandescente, sul quale si abbatte una pioggia di falde infuocate, lente ma implacabili. Questa scena richiama l'episodio biblico della distruzione di Sodoma e Gomorra e si arricchisce di riferimenti alla mitologia e alla letteratura classica. La pioggia di fuoco, che brucia i bestemmiatori distesi sul sabbione, evoca sia la folgore di Giove che colpì i ribelli, sia il racconto leggendario di Alessandro Magno, che avrebbe assistito a una pioggia di scintille infuocate durante una spedizione in India. Inoltre, il paesaggio infernale viene paragonato al deserto di Libia attraversato da Catone l'Uticense, dove i suoi soldati subirono terribili disgrazie. Questi richiami creano un'atmosfera sospesa tra mito e leggenda, amplificando la drammaticità del contrappasso.

La pena dei bestemmiatori, simbolo della sfida diretta contro Dio, si basa su un paradosso: le falde di fuoco cadono lentamente, una caricatura delle folgori divine, ma il loro effetto è inesorabile. La pioggia lenta sembra quasi accentuare il tormento, in contrasto con l'azione fulminea della giustizia divina che colpì i peccatori in vita.

Capaneo: simbolo della tracotanza e della superbia
Tra i dannati spicca Capaneo, uno dei sette re mitologici che assediarono Tebe. Egli è descritto disteso sul sabbione, incurante della pioggia di fuoco, mentre urla con superbia e bestemmia contro Dio. La sua figura è tratteggiata come emblema della tracotanza: egli continua a sfidare la divinità anche nella dannazione, ostentando un'illusoria superiorità che lo rende incapace di riconoscere la propria impotenza.

Capaneo si presenta con parole colme di orgoglio, dichiarando che nemmeno la vendetta di Giove, armato di tutte le folgori forgiate da Vulcano e dai Ciclopi, potrebbe piegarlo. Questa affermazione, che richiama la Tebaide di Stazio, viene smascherata da Virgilio: il poeta latino sottolinea che il suo stesso orgoglio lo rende più vulnerabile, aggravando il tormento che subisce. La figura di Capaneo rappresenta quindi un modello di superbia assoluta, che non solo sfida Dio, ma rifiuta persino di riconoscere la propria condizione di sconfitto.

Il Veglio di Creta: allegoria della decadenza umana
La narrazione prosegue con una digressione allegorica che spiega l'origine dei fiumi infernali attraverso la figura del Veglio di Creta, una colossale statua nascosta in una caverna sull'isola di Creta. Quest'immagine, ispirata alla statua del sogno di Nabucodonosor narrato nel libro di Daniele, rappresenta la storia dell'umanità e la sua progressiva corruzione.

La statua è composta da diversi materiali: oro nella testa, argento nelle braccia e nel petto, rame nel busto e ferro nelle gambe, con il piede destro in terracotta. Questa stratificazione simboleggia le diverse età dell'uomo: dall'età dell'oro, segno di innocenza e perfezione, fino a quella del ferro, dominata dalla decadenza morale. Il piede destro, fragile terracotta, rappresenta il potere spirituale della Chiesa, debole e corrotto, mentre il piede sinistro, di ferro, indica l'autorità imperiale, ormai svuotata della sua forza originaria.

Le incrinature che solcano la statua dal petto in giù fanno colare lacrime, simbolo dei peccati dell'umanità, che si raccolgono sul fondo della caverna e danno origine ai quattro fiumi infernali: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito. La testa, invece, rimane intatta e priva di incrinature, in quanto l'età dell'oro era libera dai vizi. La statua volge le spalle a Damietta, in Oriente, luogo simbolico di origine della civiltà, e guarda verso Roma, centro della cristianità e punto di incontro tra il mondo pagano e quello cristiano.

La connessione simbolica tra Capaneo e il Veglio di Creta
Capaneo e il Veglio di Creta sono strettamente collegati dal tema della corruzione morale. Capaneo incarna la superbia che ha contribuito alla rovina dell'umanità, mentre il Veglio rappresenta allegoricamente la decadenza storica e spirituale dell'uomo. Entrambi testimoniano la fragilità della condizione umana: Capaneo attraverso la sua ostinata ribellione, il Veglio attraverso le lacrime che sgorgano dalla sua statua, trasformandosi nei fiumi infernali che puniscono le anime dannate.

Conclusione
Il Canto XIV dell'Inferno combina elementi di narrazione mitologica, simbolismo cristiano e riflessione morale, delineando un quadro complesso in cui il peccato, la punizione e la storia umana si intrecciano. Il sabbione infuocato, Capaneo e il Veglio di Creta diventano metafore della condizione decaduta dell'uomo, soggetto a una giustizia divina inesorabile che riflette i suoi stessi vizi e colpe.


Passi Controversi


Nei versi 1-3 si fa riferimento alla conclusione del Canto XIII, dove si narra dell'incontro con l'anima del suicida fiorentino, il cui albero era stato squarciato dalle nere cagne che inseguivano il dissipatore Iacopo da Sant'Andrea. Il dannato aveva chiesto ai due visitatori di raccogliere le sue ossa al piede del tristemente famoso albero (vv. 139-142).

I versi 13-15 si ispirano a Lucano (Phars., IX, 382 ss.), che descrive il deserto della Libia attraversato da Catone e dalle sue truppe, dove i soldati vengono attaccati da serpenti e subiscono terribili trasformazioni.

I versi 28-29 riprendono un passo biblico (Gen., XIX, 24), che narra della pioggia di fuoco che distrusse Sodoma e Gomorra, mentre il verso 30 trae spunto da un sonetto di Guido Cavalcanti, "Beltà di donna e di saccente core" (v. 6, "e bianca neve scender senza venti").

La similitudine nei vv. 31-37 proviene da un passo dell'epistola di Alessandro Magno ad Aristotele, De situ Indiae et itinerum in ea vastitate, che descrive prima una nevicata fitta che obbligò i soldati a calpestare la neve e poi il volo delle scintille infuocate. Dante fonde questi due episodi, riprendendo anche l'aneddoto descritto nel De meteoris di Alberto Magno, in cui lo stesso episodio è raccontato secondo la prospettiva poetica.

La similitudine nei vv. 39-40 (come esca sotto focile) fa riferimento alla pietra focaia colpita da un acciarino per produrre una scintilla.

Nel verso 42, "arsura fresca" suggerisce un "nuovo fuoco", ma si tratta probabilmente di un ossimoro usato in modo ironico.

Mongibello (v. 56) è l'antico nome arabo dell'Etna, mentre "pugna di Flegra" fa riferimento alla battaglia di Flegra in Tessaglia, dove, secondo la mitologia, Giove fulminò i giganti ribelli.

I vv. 79-81 richiamano il Bulicame, una fonte d'acqua calda di origine sulfurea nei pressi di Viterbo, paragonata al fiume Flegetonte (che è stato menzionato anche nel Canto XII). Alcuni manoscritti riportano "pectatrici" nel v. 80, creando incertezza su se la fonte venisse usata dalle prostitute o dalle lavoratrici del lino per la macerazione del tessuto. È più probabile che il testo corretto faccia riferimento alle prostitute, le quali si "spartivano le acque" per lavarsi.

Il verso 86 fa riferimento alla porta dell'Inferno (III, 1 ss.).

Il "rege" del v. 96 è Saturno, il primo sovrano mitologico, sotto il cui regno il mondo visse l'età dell'oro, un tempo di innocenza.

I vv. 97 e seguenti alludono al mito di Giove, che, appena nato, fu nascosto dalla madre Rea (o Cibele) sul monte Ida, in Creta, per sottrarlo al padre Saturno, che divorava i propri figli per paura che uno di loro lo spodestasse. I Coribanti avevano il compito di coprire i vagiti del bambino con il rumore di armi e canti.

Alcuni studiosi hanno riscontrato un'incongruenza tra i vv. 121 e seguenti e quanto visto nel Canto VII, dove Dante aveva già osservato il sorgere di un fiume infernale, lo Stige. Questo potrebbe essere dovuto a una dimenticanza dell'autore o a una diversa concezione dell'origine dei fiumi infernali rispetto all'episodio precedente.

Fonti: libri scolastici superiori

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