Parafrasi e Analisi: "Canto XX" - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XX dell'Inferno di Dante Alighieri si colloca nell'Ottava Bolgia dell'Ottavo Cerchio, dedicata ai fraudolenti, e si concentra sul tema della profanazione del sapere divino. Qui si incontrano gli indovini, coloro che in vita pretesero di predire il futuro, violando così i limiti imposti dalla volontà divina e sfidando l'ordine cosmico. Dante condanna con forza questo peccato, poiché rappresenta un atto di superbia che tenta di sovvertire il rapporto tra l'uomo e Dio.

Il Canto offre l'occasione per riflettere sul rapporto tra libero arbitrio, fede e conoscenza, evidenziando come il desiderio di controllare ciò che appartiene al disegno divino conduca alla rovina spirituale. Il linguaggio e le immagini utilizzate da Dante si intrecciano per rafforzare l'idea che l'uomo debba rispettare il mistero della creazione, evitando di cedere alla presunzione di possedere una conoscenza che non gli spetta.

Questo canto, attraverso la potente rappresentazione del contrappasso, esplora non solo il peccato, ma anche le sue conseguenze eterne, ribadendo il valore della sottomissione umile al volere divino.


Testo e Parafrasi


Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch'è d'i sommersi.

Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d'angoscioso pianto;

e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.

Come 'l viso mi scese in lor più basso
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso,

ché da le reni era tornato 'l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché 'l veder dinanzi era lor tolto.

Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com'io potea tener lo viso asciutto,

quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.

Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi?

Qui vive la pietà quand'è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s'aperse a li occhi d'i Teban la terra;
per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui,

Anfïarao? perché lasci la guerra?".
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.

Mira c'ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.

Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;

e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.

Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga,
che ne' monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,

ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e 'l mar non li era la veduta tronca.

E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,

Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu'io;
onde un poco mi piace che m'ascolte.

Poscia che 'l padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.

Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l'Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c'ha nome Benaco.

Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l'acqua che nel detto laco stagna.

Loco è nel mezzo là dove 'l trentino
pastore e quel di Brescia e 'l veronese
segnar poria, s'e' fesse quel cammino.

Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva 'ntorno più discese.

Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che 'n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.

Tosto che l'acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.

Non molto ha corso, ch'el trova una lama,
ne la qual si distende e la 'mpaluda;
e suol di state talor essere grama.

Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d'abitanti nuda.

Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

Li uomini poi che 'ntorno erano sparti
s'accolsero a quel loco, ch'era forte
per lo pantan ch'avea da tutte parti.

Fer la città sovra quell'ossa morte;
e per colei che 'l loco prima elesse,
Mantüa l'appellar sanz'altra sorte.

Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.

Però t'assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi».

E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.

Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede».

Allor mi disse: «Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,

sì ch'a pena rimaser per le cune –
augure, e diede 'l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.

Euripilo ebbe nome, e così 'l canta
l'alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.

Quell'altro che ne' fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe 'l gioco.

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch'avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.

Vedi le triste che lasciaron l'ago,
la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.

Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine
d'amendue li emisperi e tocca l'onda
sotto Sobilia Caino e le spine;

e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de' ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».

Sì mi parlava, e andavamo introcque.
Devo (mi convien) ora scrivere (far versi) di un'altra (nova) pena e
dare sostanza narrativa (dar matera) al ventesimo canto della prima
cantica (canzon), dedicata (ch'è) ai dannati sprofondati (nell'Inferno) (d'i sommersi).

Ero già ben preparato (disposto tutto quanto) a guardare nel
fondo della bolgia ormai ben visibile (scoperto),
che si bagnava del pianto angoscioso (dei dannati);

e, lungo la bolgia circolare (per lo vallon tondo), vidi venire degli spiriti (gente)
che non parlavano e piangevano (tacendo e lagrimando), col passo lento (al passo) che
in terra (in questo mondo) viene usato nelle processioni (che fanno le letane).

Quando il mio sguardo (viso) si posò (scese) sulla parte inferiore della loro
figura (in lor più basso), ciascuno di essi mi apparve incredibilmente
(mirabilmente) travolto nel collo (tra 'l mento e 'l principio del casso),

poiché il volto era girato (tornato) dalla parte delle reni, ed erano costretti
(li convenia) a procedere a ritroso (in dietro venir), dal momento che era loro
negata (tolto) la possibilità di guardare davanti ('l veder dinanzi).

Forse ci fu già qualcuno (alcun) col capo così completamente travolto (si
travolse così) a causa (per forza) di una violenta paralisi (parlasia); io
però non ho mai avuto occasione di vederlo, né penso che ciò possa realmente accadere.

Dio ti permetta (Se Dio ti lasci), lettore, di ricavare un insegnamento (prender
frutto) dalla tua personale lettura (lezione), e prova a pensare, mettendoti al posto
mio (per te stesso), come io avrei potuto (potea) evitare di piangere (tener lo viso asciutto),

quando vidi da vicino (di presso) la figura umana (la nostra imagine)
distorta (torta) al punto che (sì... che) le lacrime
bagnavano la fessura (lo fesso) tra le natiche.

Appoggiato ad uno dei massi (rocchi) del ponte di pietra (duro scoglio), io
piangevo spontaneamente (Certo), così che la mia guida (scorta) mi disse: «Sei
anche (Ancor) tu come gli altri uomini stolti (de li altri sciocchi)?

In questa bolgia (Qui) la pietà è viva solo quando è completamente
assente (ben morta); chi è più scellerato di colui che ritiene
di poter modificare (passion comporta) il giudizio divino?

Alza (Drizza) la testa, alzala, e guarda colui sotto il quale (a
cui) la terra si spalancò (s'aperse) sotto gli occhi dei Tebani; per
cui tutti gli gridavano: "Dove precipiti (rui),

Anfiarao? Perché abbandoni la guerra?". Ed egli non cessò (restò) di
precipitare (ruinare) in basso (a valle), finché non giunse davanti a
Minosse (Minòs) che ghermisce [per giudicarlo] (afferra) ciascun dannato (ciascheduno).

Osserva (Mira) come ha trasformato (ha fatto) le spalle in petto;
poiché volle (volse) vedere il futuro (troppo davante), ora guarda
dietro di sé (di retro) e cammina a ritroso (fa retroso calle).

Osserva Tiresia, che cambiò aspetto (sembiante) quando,
trasformandosi (cangiandosi) tutte le sue membra,
da maschio divenne femmina;

e successivamente, prima di poter riavere (prima.../ che rïavesse) le
sembianze (penne) maschili, dovette (li convenne) colpire
nuovamente (ribatter) con la verga i due (duo) serpenti accoppiati (avvolti).

Quello che viene con le spalle (s'atterga) dietro al ventre di Tiresia (li), è
Arunte (Aronta), che nei monti della Lunigiana (Luni), dove coltivano la terra
(ronca) i contadini di Carrara (lo Carrarese) che abitano nella pianura sottostante (di sotto),

ebbe per dimora la grotta (spelonca) nei Monti Apuani (bianchi
marmi); da dove poteva vedere (non li era la veduta tronca) le
stelle e il mare.

E quella che tiene nascoste (ricuopre) le mammelle, che tu non
puoi vedere, con le trecce sciolte, e ha dall'altra parte (di là)
ogni zona pelosa (pilosa pelle),

fu Manto, che vagabondò (cercò) per molte terre; infine (poscia)
si stabilì (si puose) nel luogo (là) dove io nacqui; per cui ho
piacere (mi piace) che tu stia un poco ad ascoltarmi (m'ascolte).

Dopo che suo padre morì (di vita uscìo) e Tebe (la città di Baco)
divenne serva [di Teseo], Manto (questa) vagabondò (gio) a
lungo per il mondo.

Sulla terra (Suso), nella bella Italia, ai piedi (a piè) delle Alpi
(Alpe) che chiudono (serra) la Germania (Lamagna) nei pressi
(sovra) del Tirolo (Tiralli), si stende (giace) un lago che si chiama Benaco.

(Il territorio) tra Garda, Val Camonica e le Alpi (Pennino),
credo, è bagnato (si bagna), attraverso numerosi (Per mille)
ruscelli (fonti), dall'acqua che poi stagna nel detto lago.

Al centro del lago vi è un luogo (Loco) in cui il vescovo (pastore) di
Trento, quello di Brescia e quello di Verona potrebbero
(poria) benedire (segnar), se percorressero (s'e' fesse) quel cammino.

Dove la riva è più bassa (più discese) sorge (Siede) Peschiera,
bella e solida (forte) fortezza (arnese) a difesa (da fronteggiar) dai
Bresciani e dai Bergamaschi.

Qui (Ivi) è inevitabile (convien) che trabocchi (caschi) tutta l'acqua
che non può essere contenuta ('n grembo... star non può) nel lago
(a Benaco) e diventa (fassi = si fa) fiume scorrendo tra verdi pascoli (paschi).

Appena (Tosto che) l'acqua comincia (mette co) a scorrere, non
si chiama più Benaco, ma Mincio (Mencio) fino a Governolo,
dove sfocia (cade) nel Po.

Dopo breve tratto (Non molto ha corso) esso incontra (trova) un avvallamento
(lama), nel quale si espande (si distende) e forma una palude (la 'mpaluda);
e d'estate (di state) è solita (suol) talvolta (talor) essere povera d'acque (grama).

Passando di qui (Quindi) Manto (vergine cruda = vergine selvaggia) vide
una terra nel mezzo della palude (pantano), priva
di coltivazioni (sanza coltura) e priva (nuda) di abitanti.

Lì, per evitare (fuggire) ogni comunità (consorzio) umana, si
fermò (ristette) con i suoi servi per esercitare le sue arti magiche (a far
sue arti), e lì visse e lasciò il proprio corpo privo dell'anima (vano).

Successivamente gli abitanti delle terre vicine (Li uomini poi che 'ntorno
erano sparti) si riunirono (s'accolsero) in quel luogo, che era naturalmente
difeso (forte) dalla palude (per lo pantan) che lo circondava (ch'avea da tutte parti).

Fondarono (Fer) la città dove era sepolta Manto (sovra quell'ossa morte); e dal
nome di colei che per prima scelse (elesse) quel luogo, lo chiamarono
(l'appellar) Mantova (Mantüa) senza bisogno di sortilegi (sanz'altra sorte).

Nella città (dentro) vi furono un tempo numerosi abitanti
(genti... più spesse), prima che la stoltezza (mattia) di Alberto
da Casalodi fosse ingannata (inganno ricevesse) da Pinamonte dei Bonacolsi.

Perciò ti avverto (t'assenno) che, se mai sentirai (odi) parlare delle
origini (originar) della mia terra in modo diverso (altrimenti),
nessuna (nulla) leggenda menzognera alteri (frodi) la verità storica».

Ed io: «Maestro, le tue affermazioni (ragionamenti) sono per me così sicure
(certi) e acquistano (prendon) così la mia fiducia (fede) che ogni altro
racconto (li altri) sarebbe (sarien) per me inutile (carboni spenti).

Ma dimmi se tu, tra i dannati che avanzano (procede), vedi
qualcuno (alcun) degno di nota; poiché la mia mente è ora
intenta (rifiede) solo a questo».

Allora mi rispose: «Quello che stende (porge) la barba dalle
gote fino alle brune spalle fu – quando la Grecia rimase priva
(fu... vòta) di uomini,

tanto che vi rimasero soltanto (a pena) i bambini in culla (per le cune) –
un augure, e in Aulide, insieme a Calcante (con Calcanta), indicò il
momento propizio (diede 'l punto) per salpare (a tagliar la prima fune).

Si chiamò Euripilo, e così ne parla ('l canta) il mio poema
(l'alta mia tragedìa) in un passo (loco): tu sai bene quale, dal
momento che la conosci perfettamente (la sai tutta quanta).

Quell'altro [dannato] così minuto (poco) nei fianchi fu Michele Scoto,
che conobbe (seppe) a fondo (veramente) il funzionamento
(gioco) delle ingannevoli arti magiche (magiche frode).

Guarda Guido Bonatti; guarda Asdente, che ora ben vorrebbe essersi dedicato
soltanto (ch'avere inteso... ora vorrebbe) all'attività di calzolaio
(al cuoio e a lo spago), ma si pente troppo tardi.

Guarda le sciagurate (triste) che abbandonarono (lasciaron) le
attività femminili (l'ago,/ la spuola e 'l fuso) e divennero (fecersi)
streghe ('ndivine); fecero incantesimi (malie) con erbe e immagini (imago).

Ma vieni via (vienne) adesso, poiché la luna (Caino e le spine)
ormai occupa (tiene) il confine tra i due emisferi e sta per
tramontare (tocca l'onda) sotto Siviglia (Sobilia);

e proprio ieri notte (iernotte) c'è stata la luna piena (tonda); te
ne devi (de') ben ricordare, dal momento che ti fu d'aiuto
(non ti nocque) un'altra volta nella selva oscura (fonda)».

Mi parlava in questo modo (Sì) e nel frattempo (introcque) camminavamo (andavamo).



Riassunto


La punizione degli indovini (vv. 1-30)
Nella quarta bolgia dell'Inferno sono relegati i maghi e gli indovini, colpevoli di aver cercato di prevedere il futuro, violando i disegni divini. Essi avanzano lentamente, piangendo, con il capo innaturalmente girato all'indietro e costretti a camminare a ritroso, un'immagine che lascia Dante profondamente turbato. Tuttavia, Virgilio lo ammonisce, spiegandogli che non è giusto provare compassione per chi ha cercato di sovvertire l'ordine voluto da Dio. Questo peccato rientra nella frode, poiché tenta di illudere l'uomo sulla possibilità di modificare il futuro e, al contempo, giustifica azioni malvagie attribuendole al volere divino.

I celebri indovini dell'antichità (vv. 31-57)
Dopo il rimprovero, Virgilio mostra a Dante alcune figure storiche famose per le loro arti divinatorie. Tra loro si trovano Arunte, profeta etrusco, Anfiarao di Argo, Tiresia, il veggente tebano, e sua figlia Manto. La presenza di Manto dà a Virgilio l'occasione per una digressione sull'origine di Mantova, la città che da lei prese il nome e dove lui stesso nacque.

La fondazione di Mantova (vv. 58-99)
Virgilio narra che, dopo la morte di suo padre Tiresia, Manto lasciò Tebe e vagò per diversi luoghi, finché non si stabilì in una terra deserta e incolta. Qui visse praticando le sue arti magiche e, alla sua morte, fu sepolta in quel luogo. Col tempo, alcuni abitanti delle campagne vicine si insediarono lì, attratti dalla sicurezza offerta dall'isolamento e dalla protezione delle paludi circostanti. Essi fondarono una città, che chiamarono Mantova in suo ricordo, senza ricorrere a incantesimi o magie. Virgilio conclude il racconto esortando Dante a non credere a versioni diverse sull'origine della città.

Ulteriori indovini (vv. 100-130)
Rispondendo alla curiosità di Dante, Virgilio gli indica altri personaggi condannati in questa bolgia. Tra loro vi sono Euripilo, figura dell'antichità, e diversi indovini più recenti come Michele Scoto, Guido Bonatti e Asdente, insieme a molte altre maghe. Quando l'alba inizia a illuminare l'orizzonte, i due poeti riprendono il loro cammino.


Figure Retoriche


v. 4: "Io era già disposto tutto quanto": Metonimia. Il concreto per l'astratto, dice che era presente con il fisico anziché che era pronto a osservare.
v. 6: "Angoscioso pianto": Anastrofe.
v. 7: "Per lo vallon tondo venir": Anastrofe.
vv. 8-9: "Al passo che fanno le letane in questo mondo": Similitudine.
v. 18: "Né credo che sia": Ellissi. Inteso come "e non credo che sia...mai successo".
v. 21: "Com'io potea tener lo viso asciutto": Metonimia. L'effetto per la causa, dice "io come potevo tenere il viso asciutto" anziché "io come potevo evitare di piangere".
v. 30: "Passion comporta": Anastrofe.
v. 31: "Drizza la testa, drizza": Anadiplosi.
v. 32: "S'aperse a li occhi d'i Teban la terra": Iperbato.
v. 42: "Le membra tutte quante": Anastrofe.
vv. 43-44: "Ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga": Iperbato.
v. 45: "Le maschili penne": Anastrofe.
v. 56: "Nacqu'io": Anastrofe.
v. 67: "Loco è nel mezzo": Anastrofe.
vv. 70-72: "Siede Peschiera...ove la riva 'ntorno più discese": Iperbato.
v. 112: "Euripilo ebbe nome": Anastrofe.
v. 113: "L'alta mia tragedìa": Perifrasi. S'intende l'Eneide.
v. 116: "Michele Scotto fu": Anastrofe.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto XX dell'Inferno si concentra interamente sugli indovini, condannati nella quarta bolgia dell'ottavo cerchio per la loro presunzione di voler conoscere il futuro, prerogativa riservata esclusivamente a Dio. Questo tema si sviluppa attraverso tre momenti principali: la presentazione di celebri indovini antichi, una lunga digressione sulle origini leggendarie di Mantova, e la descrizione di altri indovini moderni.

La pena dei dannati è particolarmente crudele: hanno la testa rivolta all'indietro e sono costretti a camminare a ritroso, un evidente contrappasso per il loro tentativo di guardare oltre i limiti umani. Dante, vedendo questa deformazione innaturale della figura umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, prova pietà e si commuove fino alle lacrime. Tuttavia, Virgilio lo rimprovera, ricordandogli che nell'Inferno la pietà non è ammessa, poiché i dannati subiscono una punizione giusta e meritata. Questo rimprovero non è solo una lezione morale, ma sottolinea anche il contrasto tra il sentimento umano e la razionalità divina, simboleggiata dallo stesso Virgilio.

Gli indovini presentati appartengono a due mondi distinti. Da un lato vi sono figure mitologiche e letterarie come Anfiarao, Tiresia, Manto, Euripilo e Arunte, personaggi tratti dalle opere di autori classici come Stazio, Lucano e Virgilio stesso. Dall'altro lato troviamo indovini medievali, tra cui Michele Scotto, Guido Bonatti e Asdente, che sfruttavano l'astrologia e altre arti divinatorie per trarne vantaggio personale. Dante condanna severamente non l'astrologia in quanto scienza, ammessa anche dalla dottrina cristiana, ma l'uso superstizioso e fraudolento di tali pratiche per predire il futuro.

Di particolare rilievo è la lunga digressione sull'origine di Mantova, narrata da Virgilio, cittadino della città. Egli racconta che Mantova sorse nel luogo in cui visse e morì Manto, figlia di Tiresia, ma chiarisce che la città non fu fondata da lei, bensì da altri uomini, senza alcun ricorso a arti magiche. Questa precisazione sembra voler eliminare ogni sospetto di contaminazione magica legata a Mantova, città cui Virgilio era affettivamente legato, e al tempo stesso riscattare il poeta latino dalla fama di mago che gli era stata attribuita nel Medioevo.

La descrizione topografica dei luoghi intorno a Mantova, così dettagliata, ha fatto supporre che Dante avesse visitato quelle zone, forse durante il suo soggiorno presso gli Scaligeri a Verona. La digressione, inoltre, consente a Dante di correggere alcune incongruenze della tradizione classica, incluso quanto lo stesso Virgilio aveva scritto nell'Eneide. Questo gesto conferma la libertà creativa di Dante nel reinterpretare le fonti antiche per adattarle al messaggio morale e teologico della Commedia.

In questo canto, dunque, si intrecciano diversi temi: la condanna della presunzione umana, la denuncia delle pratiche superstiziose ancora diffuse all'epoca di Dante e una riflessione sulla giustizia divina. Virgilio, simbolo della ragione, guida il poeta attraverso una bolgia in cui la degradazione fisica dei dannati riflette la loro colpa morale, ribadendo che la conoscenza e il destino dell'uomo appartengono solo a Dio e non possono essere manipolati.


Passi Controversi


Le "letane" (v. 9) si riferiscono alle processioni religiose ed equivalgono al termine "litanie". La parola "parlasìa" (v. 16) è una forma arcaica che indica la "paralisi"; alcuni studiosi hanno interpretato l'uso di questo e di altri termini medici nel poema come un riflesso di eventuali studi di medicina attribuiti a Dante (vedi anche Inferno, XXV). I versi 29-30 ("colui / che al giudicio divin passion comporta") possono essere letti in due modi: come un riferimento a chi tenta, con arti magiche, di piegare il giudizio divino per conoscere il futuro (gli indovini), o come un richiamo a Dante stesso, che si lascia sopraffare dalla compassione davanti alla giustizia divina. Altri manoscritti riportano varianti come "passion porta" o "compassion porta", che però risultano meno convincenti.

Nel verso 47, il riferimento ai "monti di Luni" riguarda Arunte, ispirato alla Farsaglia di Lucano, dove si legge "Aruns incoluit deserta moenia Lucae" (I, 586). Tuttavia, alcuni manoscritti riportano "Lunae" al posto di "Lucae", inducendo probabilmente Dante all'errore, poiché Arunte abitava Lucca e non Luni, città abbandonata già nel XIV secolo. Il verbo "roncare" significa "disboscare", secondo la definizione di Isidoro di Siviglia (Etymologiae, XVII, II, 5). Al verso 59, Tebe viene definita "la città di Baco", poiché sacra a questo dio, come indicato dal termine latino medievale "Bachus".

Il soggetto implicito di "si bagna" (v. 64) si trova nei versi successivi (v. 65), riferendosi al territorio compreso tra il lago di Garda, la Valcamonica e le Alpi Pennine. Al verso 67, "il loco" potrebbe indicare l'isola dei Frati (oggi nota come isola Lechi), la cui chiesetta era sotto il controllo delle diocesi di Trento, Brescia e Verona; in alternativa, potrebbe trattarsi del territorio di Campione o di un luogo ideale nel mezzo del Garda, dove le tre diocesi si incontrano.

L'aggettivo "grama" (v. 81) è stato interpretato in due modi: può significare "asciutta", riferendosi alla secca che si verifica in estate, oppure "malsana", in riferimento all'acqua stagnante della palude. I versi 94-96 richiamano un episodio storico legato al conte Alberto da Casalodi, il quale fu raggirato da Pinamonte dei Bonacolsi. Convinto a esiliare numerose famiglie nobili, il conte si trovò poi tradito da Pinamonte, che, con l'appoggio popolare, prese il potere a Mantova nel 1272. Durante il suo governo, fino al 1291, Pinamonte esiliò ulteriori famiglie e ne sterminò molte, provocando lo spopolamento della città.

Nei versi 110-111, Dante fa riferimento a Euripilo, che, insieme a Calcante, avrebbe indicato il momento favorevole per far salpare la flotta greca da Aulide. Tuttavia, il passo dell'Eneide cui si allude (II, 114 e seguenti) riporta solo che Euripilo fu inviato dai Greci a consultare l'oracolo, portando il responso che i venti erano stati placati con il sacrificio di una vergine. Dante potrebbe aver interpretato il verbo latino "placastis" come riferito a Euripilo e Calcante o potrebbe aver letto una variante testuale come "placasti", magari presente in un codice o in una glossa medievale errata.

Infine, l'espressione "Caino e le spine" (v. 126) è una metafora per la luna, basata su una leggenda popolare secondo cui le macchie lunari rappresentano Caino che porta sulle spalle un fascio di spine. Questa immagine è richiamata anche nel Paradiso (II, 51) e indica che il tempo è poco oltre le sei del mattino.

Fonti: libri scolastici superiori

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