Parafrasi e Analisi: "Canto X" - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto X dell'Inferno si colloca nel VI Cerchio, dove sono puniti gli eretici. Dante, accompagnato da Virgilio, prosegue il viaggio attraverso una dimensione dominata dalla ragione e dalla filosofia, poiché gli eretici sono coloro che negarono i principi fondamentali della fede cristiana, affidandosi esclusivamente alle capacità umane e terrene. In questo canto, Dante approfondisce il tema della relazione tra libero arbitrio, errore umano e destino eterno, ponendo l'accento sull'importanza della verità divina come guida per l'anima.
Il Canto X si distingue per la densità intellettuale e il confronto diretto tra il poeta e alcune figure storiche dell'epoca, che rappresentano non solo un peccato dottrinale, ma anche la tensione tra ragione e fede, tra pensiero individuale e ordine universale. È un canto che richiama alla riflessione sul destino umano e sulla responsabilità delle proprie scelte, in un intreccio tra dramma personale e critica politica e culturale.
Testo e Parafrasi
Ora sen va per un secreto calle, tra 'l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle. "O virtù somma, che per li empi giri mi volvi", cominciai, "com'a te piace, parlami, e sodisfammi a' miei disiri. La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutt'i coperchi, e nessun guardia face". E quelli a me: "Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che là sù hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno. Però a la dimanda che mi faci quinc'entro satisfatto sarà tosto, e al disio ancor che tu mi taci". E io: "Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m' hai non pur mo a ciò disposto". "O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patrïa natio, a la qual forse fui troppo molesto". Subitamente questo suono uscìo d'una de l'arche; però m'accostai, temendo, un poco più al duca mio. Ed el mi disse: "Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s'è dritto: da la cintola in sù tutto 'l vedrai". Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte com'avesse l'inferno a gran dispitto. E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: "Le parole tue sien conte". Com'io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: "Chi fuor li maggior tui?". Io ch'era d'ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel'apersi; ond'ei levò le ciglia un poco in suso; poi disse: "Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fïate li dispersi". "S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte", rispuos'io lui, "l'una e l'altra fïata; ma i vostri non appreser ben quell'arte". Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata. Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s'altri era meco; e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: "Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov'è? e perché non è teco?". E io a lui: "Da me stesso non vegno: colui ch'attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno". Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena. Di sùbito drizzato gridò: "Come? dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?". Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io facëa dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora. Ma quell'altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa; e sé continüando al primo detto, "S'elli han quell'arte", disse, "male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell'arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio incontr'a' miei in ciascuna sua legge?". Ond'io a lui: "Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio". Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, "A ciò non fu' io sol", disse, "né certo sanza cagion con li altri sarei mosso. Ma fu' io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto". "Deh, se riposi mai vostra semenza", prega' io lui, "solvetemi quel nodo che qui ha 'nviluppata mia sentenza. El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo". "Noi veggiam, come quei c' ha mala luce, le cose", disse, "che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s'appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta". Allor, come di mia colpa compunto, dissi: "Or direte dunque a quel caduto che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto; e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che 'l fei perché pensava già ne l'error che m'avete soluto". E già 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lu' istava. Dissemi: "Qui con più di mille giaccio: qua dentro è 'l secondo Federico e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio". Indi s'ascose; e io inver' l'antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico. Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: "Perché se' tu sì smarrito?". E io li sodisfeci al suo dimando. "La mente tua conservi quel ch'udito hai contra te", mi comandò quel saggio; "e ora attendi qui", e drizzò 'l dito: "quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell'occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il vïaggio". Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede, che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo. |
Ora Virgilio procede su un sentiero nascosto, tra le mura della città [di Dite] e le tombe, ed io [cammino] dopo di lui. «O [uomo di] altissima virtù, che mi guidi per i gironi maligni a tuo piacimento», cominciai [a dire], «raccontami, ed esaudisci i miei desideri [di conoscenza]. È possibile vedere le anime distese nelle tombe? I coperchi sono tutti sollevati e nessuno controlla». E Virgilio mi [rispose]: «Tutti [i coperchi] saranno chiusi quando [i dannati] faranno ritorno da Giosafat con quei corpi che hanno lasciato nel mondo terreno. Sono sepolti in questo luogo Epicuro e i suoi fedeli, che credono l'anima muoia col corpo. Ma la domanda che mi fai qui dentro sarà soddisfatta tra poco, e anche il desiderio che mi nascondi». Ed io [risposi]: «benevola guida, tengo nascosto a te il mio desiderio per nessun [motivo] se non per [evitare di] disturbarti, perché non solo adesso mi hai indotto a tacere». «O Toscano che visiti l'Inferno da vivo parlando [in modo] così degno, ti faccia piacere fermarti [un po'] qui. Il tuo modo di parlare ti svela originario di quella nobile patria, alla quale forse [io] fui troppo gravoso». All'improvviso uscì questo suono da una delle tombe; per cui mi accostai, per il timore, un po' [più] a Virgilio. Ed egli mi disse: «Girati! Che [cosa] fai? Guarda laggiù Farinata che s'è drizzato: lo vedrai tutto [quanto] dalla vita in sù». Io avevo già conficcato il mio sguardo nel suo; ed egli teneva alti il torace e il viso quasi nutrisse un grande disprezzo per l'Inferno. E le mani leste e risolute della [mia] guida mi spinsero tra le tombe verso Farinata, dicendo[mi]: «fai che le tue parole siano ben ponderate». Appena arrivai davanti al suo sepolcro, mi guardò per un po', e poi, quasi sprezzante, mi chiese: «chi furono i tuoi avi?». Io, che ero smanioso di risponder[gli], non glielo nascosi, ma tutto gli rivelai; al che egli sollevò in su un poco le ciglia; e poi disse: «Degnamente furono nemici a me, ai miei avi e alla mia fazione, tanto che per due volte li sconfissi». «Se essi furono esiliati, tornarono anche da tutte le direzioni», gli risposi, «entrambe le volte; mentre gli Uberti non furono tanto abili». A quel punto si eresse dall'apertura [della tomba] una figura, accanto a questa, [visibile] fino al mento: penso che si fosse alzata in ginocchio. Mi scrutò intorno, come se avesse voglia di vedere se qualcun altro fosse con me; e dopo che il [suo] dubbio cessò, disse piangendo: «Se ti aggiri per questa buia prigione in virtù del tuo intelletto, dov'è mio figlio? E per quale motivo non è con te?». Ed io [dissi] a lui: «Non sono qui a causa della mia volontà, Virgilio che [mi] attende poco lontano, qui mi guida forse verso colei, la quale vostro [figlio] Guido disdegnò. Ciò che disse e la sua punizione mi avevano presto suggerito chi fosse questo [dannato]; per questo [gli] risposi in modo così puntuale. Alzato[si] all'improvviso urlò: «Cosa? hai detto "egli ebbe"? non è ancora vivo? la luce del sole non colpisce [più] i suoi occhi? Quando [Cavalcante] si accorse del mio indugio nel rispondere, cadde riverso nella tomba e più non si vide. Ma l'altro nobile, per il quale mi ero fermato, non cambiò espressione, né si girò, né piegò il fianco; e proseguendo il discorso interrotto prima, «Se essi hanno», disse, «imparato male quell'abilità, ciò mi assilla di più di questa pena. Ma il volto della Luna non arriverà ad illuminarsi cinquanta volte, [prima] che tu sappia quanto quell'abilità sia difficile. E se tu tornerai mai nel regno dei vivi, spiegami: perché i Fiorentini sono così crudeli con la mia famiglia nelle loro leggi? Ed io gli risposi: «il disastro e il grande massacro che colorò di rosso l'Arbia, fa deliberare tali leggi al nostro consiglio». Dopo che ebbe scosso la testa sospirando, «A quell'evento non partecipai io solo», disse, «tantomeno con gli altri mi sarei mosso senza una ragione. Ma fui soltanto io, quando altri accettarono di distruggere Firenze, colui che la difese apertamente». «Ahimé, possa trovar pace la vostra discendenza», e [poi] lo pregai, «risolvetemi un dubbio che condiziona il mio giudizio.» Sembra che voi [dannati] vediate, se ho capito bene, oltre ciò che il tempo [presente] porta con sé, ma non vedete chiaramente nel presente [stesso]». «Noi vediamo il presente come coloro che hanno una cattiva vista», disse, «[e vedono solo] le cose che sono lontane; fino a questo punto Dio ci illumina ancora. Quando [gli eventi presenti] si avvicinano oppure sono, la nostra facoltà di vedere svanisce; e se altri non ci informano, non sappiamo nulla della vostra condizione. Perciò puoi capire che [questa] nostra facoltà svanirà completamente nel momento in cui il futuro non esisterà più». A quel punto, sentendomi in colpa, dissi: «allora riferirete a colui che [prima] è ricaduto [nel sepolcro] che suo figlio è ancora vivo; e, se prima non gli risposi, ditegli che fu perché già riflettevo sul dubbio che [ora] mi avete chiarito». E già Virgilio mi richiamava [a lui]; perciò io pregai lo spirito più alla svelta che mi dicesse chi stava con lui [nel sepolcro]. Mi disse: «Sono qui sepolto con moltissimi [dannati]: c'è Federico II e Ottaviano degli Ubaldini; e degli altri [ancora] non dico nulla. Poi scomparve [nella tomba]; ed io mi incamminai in direzione di Virgilio, pensando a quelle parole [di Farinata] che mi erano ostili. Virgilio si incamminò e mentre andava, mi disse: «Perché sei turbato?». Ed io accontentai la sua domanda. «Che la tua memoria costudisca ciò che ha sentito contro di te», mi ordinò [di fare] quell'[uomo] assennato; «e adesso ascolta», e sollevò il dito: «quando ti troverai davanti allo sguardo luminoso di colei il cui bell'occhio vede tutto, quella ti dirà il corso della tua vita». Poi avanzò volgendo a sinistra il passo: ci allontanammo dal muro [della città di Dite] e andammo verso l'interno, per una stradina che termina in una valle, [e] che esalava fin lassù il suo puzzo sgradevole. |
Riassunto
Farinata si manifesta improvvisamente e si rivolge direttamente a Dante, riconoscendolo come toscano: "O Tosco che per la città del foco | vivo ten vai così parlando onesto, | piacciati di restare in questo loco" (vv. 22-24). Spaventato, Dante è incoraggiato da Virgilio ad avvicinarsi alla tomba. Questi gli rivela che la figura in piedi è Farinata degli Uberti, politico fiorentino: "Volgiti! Che fai? | Vedi là Farinata che s'è dritto: | da la cintola in sù tutto 'l vedrai" (vv. 31-33). Farinata appare come un personaggio fiero e orgoglioso, con un'espressione piena di disprezzo: "com'avesse l'inferno a gran dispitto" (v. 36).
Dopo aver chiesto a Dante della sua origine, Farinata scopre che appartiene alla fazione guelfa e si vanta di averli cacciati da Firenze per ben due volte. Dante replica prontamente, ricordando che entrambe le volte i guelfi tornarono al potere (vv. 46-51).
Il dialogo viene interrotto dall'arrivo di un'altra figura, Cavalcante de' Cavalcanti, padre di Guido Cavalcanti, poeta e caro amico di Dante. Riconoscendo il poeta, Cavalcante chiede notizie del figlio: "Se per questo cieco | carcere vai per altezza d'ingegno, | mio figlio ov'è? e perché non è teco?" (vv. 58-60). Dante risponde che non si trova lì per suo merito, ma per grazia divina, accennando al fatto che Guido "ebbe a disdegno" Dio. L'uso del passato nel verbo confonde Cavalcante, che teme che il figlio sia morto: "Come? | dicesti 'elli ebbe'? non viv' elli ancora?" (vv. 67-68). Dante, esitante, non chiarisce subito, e questo provoca la disperazione di Cavalcante, che si lascia cadere sconfortato nella tomba.
Il dialogo con Farinata riprende nei versi successivi (vv. 73-93). Farinata prevede il futuro esilio di Dante e gli domanda il motivo dell'ostilità dei fiorentini nei confronti della sua famiglia. Dante risponde che ciò è legato alla battaglia di Montaperti. Farinata allora spiega che non fu l'unico a sostenere quella causa e che, anzi, si oppose alla proposta di distruggere Firenze, avanzata dagli altri capi ghibellini.
Dante, infine, chiede perché i dannati possano prevedere il futuro, ma non conoscere il presente. Farinata chiarisce che la loro visione è simile a quella di chi soffre di presbiopia: possono vedere chiaramente eventi lontani, ma il presente diventa sempre più oscuro man mano che si avvicina. Questo accade per volontà divina, e con il Giudizio Universale, quando non esisterà più futuro, la loro conoscenza cesserà del tutto, lasciandoli completamente ciechi.
Prima di allontanarsi, Dante prega Farinata di rassicurare Cavalcante che il figlio Guido è ancora in vita. Poi, visibilmente turbato, si allontana. Virgilio, notando il turbamento di Dante per la profezia del suo esilio, lo consola, invitandolo a confidare in Beatrice, che in seguito gli svelerà il senso di tutte le profezie ricevute: "quando sarai dinnanzi al dolce raggio | di quella il cui bell'occhio tutto vede, | da lei saprai di tua vita il viaggio" (vv. 130-132). La rivelazione completa avverrà infatti nel Paradiso, quando Cacciaguida, avo di Dante, gli chiarirà il significato delle previsioni (canto XVII).
Figure Retoriche
v. 4: "O virtù somma": Metonimia. S'intende "O guida sommamente virtuosa", l'astratto per il concreto.
v. 4: "Che per li empi giri mi volvi": Ipallage. Usa la parola "giri" sia per dire che lo conduce intorno sia per indicare i cerchi infernali.
v. 9: "Guardia face": Anastrofe. Sta per "fa la guardia".
v. 15: "Morta fanno": Anastrofe.
v. 22: "O Tosco": Apostrofe.
v. 22: "Città del foco": Perifrasi. Indica Firenze.
v. 43: "D'ubidir disideroso": Anastrofe.
v. 47: "A me e a miei primi e a mia parte": Climax ascendente.
vv. 55-56: "Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s'altri era meco": Similitudine.
vv. 67-69: "Come? dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?": Climax ascendente.
v. 69: "Dolce lume": Metafora.
v. 75: "Né mosse collo, né piegò sua costa": Sineddoche.
v. 77: "S'elli han quell'arte, disse, male appresa": Iperbato.
v. 80: "La donna che qui regge": Perifrasi.
v. 85: "Lo strazio e 'l grande scempio": Endiadi.
v. 88: "Il capo mosso": Anastrofe.
vv. 100-101: "Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose che ne son lontano": Similitudine.
v. 102: "Il sommo duce": Perifrasi.
v. 131: "Tutto vede": Anastrofe.
v. 132: "Di tua vita il viaggio": Metafora.
v. 132: "Di tua vita il viaggio": Anastrofe.
vv. 8-9, vv. 28-29, vv. 46-47, vv. 55-56, vv. 58-59, vv. 121-122: Enjambements.
Personaggi Principali
Farinata
Manente di Jacopo degli Uberti, meglio conosciuto come Farinata, fu un illustre esponente della fazione ghibellina a Firenze, assumendone la guida a partire dal 1239. Tra i suoi successi spicca la cacciata dei guelfi nel 1248, anche se questi riuscirono a rientrare in città solo due anni dopo. Con la morte di Federico II nel 1250, il quadro politico si fece più complicato per la famiglia degli Uberti, tanto che nel 1258 furono costretti all'esilio a Siena. Farinata, tuttavia, tornò protagonista nella battaglia di Montaperti del 1260, dove la vittoria delle forze ghibelline gli permise di rientrare a Firenze. Morì nel 1264, ma i guelfi, trionfanti nella battaglia di Benevento del 1266, decretarono un'ulteriore condanna per gli Uberti. Diciannove anni dopo la sua morte, l'inquisitore Salomone da Lucca dichiarò Farinata e sua moglie Adaleta eretici, ordinando la confisca dei beni e la riesumazione dei loro corpi, che vennero sepolti in terra sconsacrata.
Farinata rappresenta, nella Commedia, l'occasione per Dante di riflettere sul tema dell'esilio, che attraversa tutta l'opera. Da una parte, si crea un legame simbolico tra la condizione del dannato e il futuro esilio dello stesso poeta; dall'altra, emergono l'orgoglio e la determinazione di Farinata, che, provocato da Dante (vv. 49-51: «S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte» | rispuos'io lui, «l'una e l'altra fiäta; | ma i vostri non appreser ben quell'arte»), risponde con parole taglienti, profetizzando il drammatico destino del poeta (vv. 79-81: "Ma non cinquanta volte fia raccesa | la faccia della donna che qui regge | che tu saprai quanto quell'arte pesa"). Il confronto con i dannati diventa così per Dante un modo per parlare anche di sé e delle proprie sofferenze.
Cavalcante de' Cavalcanti
Cavalcante de' Cavalcanti, padre del poeta Guido Cavalcanti, visse gli stessi eventi politici e religiosi della sua epoca. Dopo la sconfitta di Montaperti nel 1260, fu costretto all'esilio a Lucca, tornando a Firenze solo nel 1266, in seguito alla vittoria guelfa nella battaglia di Benevento. Come il figlio Guido, Cavalcante era ritenuto vicino alle dottrine epicuree, che negavano l'immortalità dell'anima. Guido, inoltre, fu influenzato dall'averroismo, una corrente dell'aristotelismo medievale, diventando noto per le sue idee filosofiche non ortodosse.
Nel dialogo tra Dante e Cavalcante, emerge il profondo legame tra il padre e il figlio: Cavalcante si tormenta per il destino di Guido e fraintende le parole di Dante, temendo che il figlio sia morto. Questo fraintendimento non solo mette in evidenza il lato umano e paterno di Cavalcante, ma permette anche a Dante di sottolineare la differenza tra sé e Guido. Mentre Guido, ricordato con affetto nel sonetto Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io, si è smarrito seguendo convinzioni filosofiche errate, Dante, guidato dalla Grazia, è impegnato in un percorso di redenzione e salvezza. Questo contrasto rafforza il senso della missione spirituale di Dante, che trova nel viaggio ultraterreno una via di purificazione e di riconciliazione con la fede.
Analisi ed Interpretazioni
Nel decimo canto dell'Inferno, Dante si addentra nel cerchio degli eretici, incontrando due figure fiorentine di spicco della generazione passata: Farinata degli Uberti e Cavalcante de' Cavalcanti. Farinata emerge come il vero protagonista del canto, mentre Cavalcante rappresenta una figura più secondaria, la cui funzione principale è quella di interrompere temporaneamente il dialogo tra Dante e Farinata, creando suspense narrativa.
Farinata degli Uberti
Farinata viene presentato come un uomo imponente, che si erge dalla cintola in su, con fronte alta e sguardo fiero, espressione del suo disprezzo verso gli altri. È un ghibellino e avversario politico di Dante, ma il poeta non nasconde di provare rispetto per lui, riconoscendo la coerenza delle sue azioni e l'amore per Firenze. I due si confrontano apertamente, accomunati dalla stessa origine fiorentina e dal profondo legame con la loro città, ma divisi dalle rivalità di fazione. Dante, guelfo, non dimentica che Farinata fu un oppositore politico, ma riconosce il suo merito di aver salvato Firenze dalla distruzione, opponendosi ai suoi stessi alleati ghibellini.
Nel dialogo emerge l'attaccamento di Farinata al mondo terreno e alla politica, temi che egli non riesce ad abbandonare nemmeno nell'aldilà. Il confronto tra i due si trasforma in uno scambio serrato di accuse e rivendicazioni: Farinata ricorda con orgoglio le sue vittorie contro i guelfi, mentre Dante replica sottolineando come la sua fazione sia comunque riuscita a riprendersi Firenze. L'intensità del dialogo raggiunge il culmine con la profezia di Farinata, che predice l'esilio di Dante da Firenze, un evento che segnerà profondamente il poeta.
Cavalcante de' Cavalcanti
Cavalcante, padre di Guido Cavalcanti, poeta e amico di Dante, rappresenta una figura più emotiva e meno imponente rispetto a Farinata. Il suo intervento interrompe il dialogo politico tra Dante e Farinata, aggiungendo una nota personale e drammatica. Cavalcante è angosciato per la sorte del figlio e interpreta erroneamente le parole di Dante, credendo che Guido sia morto. Questo fraintendimento, causato dall'ambiguità della risposta del poeta, genera in Cavalcante una disperazione profonda, evidenziando l'incapacità dei dannati di comprendere pienamente gli eventi presenti o imminenti.
La conoscenza limitata dei dannati
Farinata spiega a Dante la natura della conoscenza dei dannati: essi possono prevedere il futuro, ma sono incapaci di comprendere gli eventi del presente. Questa limitazione deriva dal contrappasso, poiché in vita gli eretici hanno ignorato la dimensione ultraterrena e si sono concentrati esclusivamente sul presente. Dopo il Giudizio Universale, anche questa limitata preveggenza verrà meno e le tombe saranno chiuse per l'eternità.
I temi principali del canto
Il canto intreccia diversi temi fondamentali: il confronto politico, il legame con Firenze e la condanna dell'epicureismo. Farinata e Cavalcante rappresentano due prospettive diverse della stessa colpa: il primo, fissato sulle rivalità politiche, e il secondo, legato agli affetti familiari, ma entrambi incapaci di trascendere la loro visione materialista della vita. La figura di Farinata, tuttavia, domina la scena, grazie alla sua maestosità e al coraggio con cui affronta il suo destino, rimanendo ancorato a valori terreni che non hanno più senso nell'aldilà.
La conclusione del canto ribadisce l'importanza della grazia divina per la salvezza eterna, un tema centrale nel viaggio di Dante. Solo Beatrice, simbolo della fede e della grazia, potrà guidare il poeta verso la comprensione piena del suo destino, sottolineando ancora una volta l'insufficienza della sola ragione umana per raggiungere la redenzione.
Passi Controversi
Nei versi 10-12 si fa riferimento alla valle di Iosafat, situata vicino a Gerusalemme. Secondo la Bibbia, in questo luogo le anime risorte si ricongiungeranno ai loro corpi mortali nel Giorno del Giudizio, prima di ricevere la sentenza finale. Nel verso 18, Virgilio afferma di aver letto nella mente di Dante il suo vero desiderio, ovvero scoprire se in quel Cerchio si trova Farinata, la cui dannazione era stata predetta da Ciacco.
Nel verso 34, viso può essere inteso come "sguardo" secondo l'uso latino. Il verso 39 (Le parole tue sien conte) può essere interpretato in due modi: Dante potrebbe dover parlare in modo misurato e dignitoso, oppure in modo ornato e raffinato. Le rime dei versi 41, 43, 45 (-oso/-uso) e 65, 67, 69 (-ome/-ume) sono un esempio di rime siciliane.
Il pronome cui al verso 63, di matrice latina, è stato oggetto di diverse interpretazioni, ma probabilmente significa "a colei che" (riferendosi a Beatrice). Il disdegno espresso da Guido nei confronti di Beatrice potrebbe avere un significato allegorico, simboleggiando il rifiuto verso la grazia e la teologia, oppure un possibile riferimento letterale, legato al contesto dello Stilnovo e alla figura della donna amata da Dante, anche se non ci sono prove dirette a sostegno di questa ipotesi.
Nel verso 76, alcuni manoscritti riportano la lezione "E se, continuando al primo detto...", ma l'interpretazione più accreditata vede sé come pronome riferito al verbo continuando, con il significato di "e proseguendo il discorso iniziato...". La donna che qui regge del verso 80 si riferisce alla Luna, identificata con Proserpina o Ecate. Farinata preannuncia che passeranno meno di cinquanta mesi, ovvero meno di quattro anni.
Il fiume Arbia, citato nel verso 86, è un piccolo corso d'acqua che scorre nei pressi di Montaperti. Infine, il lezzo menzionato nel verso 136 è il fetore proveniente dal VII Cerchio, dove vengono puniti i violenti.
Fonti: libri scolastici superiori