Parafrasi e Analisi: "Canto XIV" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XIV del Purgatorio si apre con un approfondimento delle dinamiche morali e sociali che attraversano il mondo terreno, evidenziando la connessione tra le colpe individuali e le loro ripercussioni collettive. Dante prosegue nella riflessione sui vizi umani, concentrandosi in particolare sull'invidia, uno dei peccati capitali che avvelena i rapporti umani e genera divisioni profonde. In questo contesto, il poeta offre una critica alle radici delle rivalità e delle contese che lacerano le comunità, puntando il dito contro l'orgoglio delle famiglie nobili e le tensioni tra i diversi territori italiani. Il canto si configura così come un momento di analisi dei mali sociali e politici del tempo, intrecciando il piano etico con quello storico e culturale.
Testo e Parafrasi
«Chi è costui che 'l nostro monte cerchia prima che morte li abbia dato il volo, e apre li occhi a sua voglia e coverchia?». «Non so chi sia, ma so ch'e' non è solo; domandal tu che più li t'avvicini, e dolcemente, sì che parli, acco'lo». Così due spirti, l'uno a l'altro chini, ragionavan di me ivi a man dritta; poi fer li visi, per dirmi, supini; e disse l'uno: «O anima che fitta nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, per carità ne consola e ne ditta onde vieni e chi se'; ché tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia, quanto vuol cosa che non fu più mai». E io: «Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia. Di sovr' esso rech' io questa persona: dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, ché 'l nome mio ancor molto non suona». «Se ben lo 'ntendimento tuo accarno con lo 'ntelletto», allora mi rispuose quei che diceva pria, «tu parli d'Arno». E l'altro disse lui: «Perché nascose questi il vocabol di quella riviera, pur com' om fa de l'orribili cose?». E l'ombra che di ciò domandata era, si sdebitò così: «Non so; ma degno ben è che 'l nome di tal valle pèra; ché dal principio suo, ov' è sì pregno l'alpestro monte ond' è tronco Peloro, che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno, infin là 've si rende per ristoro di quel che 'l ciel de la marina asciuga, ond' hanno i fiumi ciò che va con loro, vertù così per nimica si fuga da tutti come biscia, o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga: ond' hanno sì mutata lor natura li abitator de la misera valle, che par che Circe li avesse in pastura. Tra brutti porci, più degni di galle che d'altro cibo fatto in uman uso, dirizza prima il suo povero calle. Botoli trova poi, venendo giuso, ringhiosi più che non chiede lor possa, e da lor disdegnosa torce il muso. Vassi caggendo; e quant' ella più 'ngrossa, tanto più trova di can farsi lupi la maladetta e sventurata fossa. Discesa poi per più pelaghi cupi, trova le volpi sì piene di froda, che non temono ingegno che le occùpi. Né lascerò di dir perch' altri m'oda; e buon sarà costui, s'ancor s'ammenta di ciò che vero spirto mi disnoda. Io veggio tuo nepote che diventa cacciator di quei lupi in su la riva del fiero fiume, e tutti li sgomenta. Vende la carne loro essendo viva; poscia li ancide come antica belva; molti di vita e sé di pregio priva. Sanguinoso esce de la trista selva; lasciala tal, che di qui a mille anni ne lo stato primaio non si rinselva». Com' a l'annunzio di dogliosi danni si turba il viso di colui ch'ascolta, da qual che parte il periglio l'assanni, così vid' io l'altr' anima, che volta stava a udir, turbarsi e farsi trista, poi ch'ebbe la parola a sé raccolta. Lo dir de l'una e de l'altra la vista mi fer voglioso di saper lor nomi, e dimanda ne fei con prieghi mista; per che lo spirto che di pria parlòmi ricominciò: «Tu vuo' ch'io mi deduca nel fare a te ciò che tu far non vuo'mi. Ma da che Dio in te vuol che traluca tanto sua grazia, non ti sarò scarso; però sappi ch'io fui Guido del Duca. Fu il sangue mio d'invidia sì rïarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, visto m'avresti di livore sparso. Di mia semente cotal paglia mieto; o gente umana, perché poni 'l core là 'v' è mestier di consorte divieto? Questi è Rinier; questi è 'l pregio e l'onore de la casa da Calboli, ove nullo fatto s'è reda poi del suo valore. E non pur lo suo sangue è fatto brullo, tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno, del ben richesto al vero e al trastullo; ché dentro a questi termini è ripieno di venenosi sterpi, sì che tardi per coltivare omai verrebber meno. Ov' è 'l buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pier Traversaro e Guido di Carpigna? Oh Romagnuoli tornati in bastardi! Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? quando in Faenza un Bernardin di Fosco, verga gentil di picciola gramigna? Non ti maravigliar s'io piango, Tosco, quando rimembro, con Guido da Prata, Ugolin d'Azzo che vivette nosco, Federigo Tignoso e sua brigata, la casa Traversara e li Anastagi (e l'una gente e l'altra è diretata), le donne e ' cavalier, li affanni e li agi che ne 'nvogliava amore e cortesia là dove i cuor son fatti sì malvagi. O Bretinoro, ché non fuggi via, poi che gita se n'è la tua famiglia e molta gente per non esser ria? Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, che di figliar tai conti più s'impiglia. Ben faranno i Pagan, da che 'l demonio lor sen girà; ma non però che puro già mai rimagna d'essi testimonio. O Ugolin de' Fantolin, sicuro è 'l nome tuo, da che più non s'aspetta chi far lo possa, tralignando, scuro. Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi diletta troppo di pianger più che di parlare, sì m'ha nostra ragion la mente stretta». Noi sapavam che quell' anime care ci sentivano andar; però, tacendo, facëan noi del cammin confidare. Poi fummo fatti soli procedendo, folgore parve quando l'aere fende, voce che giunse di contra dicendo: 'Anciderammi qualunque m'apprende'; e fuggì come tuon che si dilegua, se sùbito la nuvola scoscende. Come da lei l'udir nostro ebbe triegua, ed ecco l'altra con sì gran fracasso, che somigliò tonar che tosto segua: «Io sono Aglauro che divenni sasso»; e allor, per ristrignermi al poeta, in destro feci, e non innanzi, il passo. Già era l'aura d'ogne parte queta; ed el mi disse: «Quel fu 'l duro camo che dovria l'uom tener dentro a sua meta. Ma voi prendete l'esca, sì che l'amo de l'antico avversaro a sé vi tira; e però poco val freno o richiamo. Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, mostrandovi le sue bellezze etterne, e l'occhio vostro pur a terra mira; onde vi batte chi tutto discerne». |
"Chi è quest'uomo, che gira intorno al nostro monte del Purgatorio prima di essere morto, prima che la morte lo abbia fatto sparire, e apre e chiude gli occhi a suo piacimento?" "Non so chi sia, ma so che non è qui da solo; domandaglielo tu, che gli sei più vicino, e fallo con dolcezza, così che non si possa rifiutare di risponderti." Con queste parole due anime, piegate l'una verso l'altra, parlavano di me in quel luogo, alla mia destra; poi, per rivolgermi la parola, alzarono e rovesciarono all'indietro il loro viso. e uno di loro disse: "Oh anima che ancora dentro il tuo corpo te ne vai verso il cielo, salendo lungo il Purgatorio, in nome della carità, dell'amore verso gli altri, consolaci e dicci da dove vieni e chi sei; perché tu ci fai così tanto meravigliare con la tua grazia, quanto può solo farlo una cosa che non sia mai avvenuta." Ed io gli risposi: "Al centro della Toscana scorre in tutta la sua ampiezza un fiumiciattolo che nasce dal monte Falterona e che non si accontenta di scorrere per sole cento miglia. Io vengo da una città (Firenze) che sovrasta questo fiume (Arno): dirvi chi io sia, sarebbe inutile, parlerei invano, perché il mio nome non è ancora abbastanza famoso." "Se quello che intendi dire io riesco ad afferrare bene con la mia mente", mi rispose allora lo spirito che aveva parlato per primo, "tu ti riferisce al fiume Arno." E l'altro spirito disse allora: "Perché quest'uomo ha tenuto nascosto il nome di quel fiume, l'Arno, come si è soliti fare solo con le cose più orribili?" E l'anima a cui era stata rivolta questa domanda, rispose con queste parole: "Non lo so, ma ritengo sia certamente giusto cancellare il nome di quella valle dalla memoria; perché sin dal punto in cui ha inizio, dove è così ricca di acqua la catena degli Appennini dalla quale si staccò capo Peloro (capo del Faro in Sicilia), che in pochi altri luoghi è più ricca di acqua di quanto lo sia lì, fino a dove rende in ultimo al mare, a dare nuova sostanza, quella stessa quantità di acqua che il cielo (con l'evaporazione) aveva sottratto al mare stesso, fenomeno grazie al quale i fiumi hanno l'acqua che li forma, lungo tutto questo suo corso, le virtù vengono evitate da tutti tanto quanto si evita un serpente, e ciò a causa o di un influsso negativo del posto o a causa dell'incitamento che la gente subisce dall'abitudine a fare del male: hanno perciò stravolto a tal punto la loro natura gli abitanti di quella povera valle, di quella valle infelice, da non sembrare più uomini ma gli animali che venivano allevati da Circe. In mezzo a sudici maiali (i cosentinesi), più degni di cibarsi di ghiande che di cibo preparato per essere consumato dagli uomoni, il fiume Arno indirizza da subito il suo stretto cammino (quando è appena nato). Incontra poi cani (gli aretini), proseguendo il suo corso verso valle, ringhiosi e minacciosi più di quanto non si possa chiedere loro, e si allontana infine sdegnosamente anche da loro Prosegue poi ancora verso il basso; e tanto più si ingrossa, tanto più vede i cani trasformarsi in lupi (i fiorentini) quella maledetta e sventurata valle del fiume Arno. E dopo essere discesa ancora attraverso gole profonde e cupe, incontra le volpi (i pisani), tanto abili nell'inganno da non temere di poter essere catturate con l'ingegno, con trappole. Non smetterò di parlare per il fatto qualcuno qui presente mi può sentire; ma sarà invece conveniente per lui ricordarsi poi, più tardi, ciò che adesso un'ispirazione profetica mi sta rivelando. Vedo, o Riniero di Calboli, tuo nipote diventare cacciatore di quei lupi sulla riva di quel crudele fiume, e lo vedo terrorizzarli tutti. Vende la loro carne quando sono ancora in vita; subito dopo li uccide con la ferocia di una belva mitologica; a molti toglie la vita ed allo stesso tempo priva se stesso dell'onore. Esce grondante sangue da quello spietato bosco (da quella spietata città) e lo lascia in uno stato tale, che non basteranno mille anni per riuscire a ripopolarlo e farlo ritornare nella sua condizione iniziale." Così come l'annuncio di fatti dolorosi turba, sconvolge il viso di colui che li ha ascoltati, qualunque sia il lato dal quale il pericolo stia per assalirlo, allo stesso modo io vido l'altra anima (Rinieri da Calboli), rivolta in ascolto verso la prima (Guido del Duca), farsi sconvolta e triste, non appena ebbe ascoltato e compreso le ultime parole pronunciate. Le parole usate dall'una e l'espressione del viso dell'altra mi fecero nascere la voglia di conoscere i loro nomi, cosicché gli chiesi e li pregai di dirmeli; così l'anima che per prima mi aveva rivolto la parola riprese a parlare: "Tu alla fine vuoi che io mi appresti a fare ciò che tu non vuoi fare per me (dire il nome). Ma, in ogni caso, dal momento che Dio vuole che in te risplenda così tanto la sua grazia, non sarò avaro nel risponderti; sappi pertanto che io in vita, nel mondo terreno fui Guido del Duca. Quando fui in vita il mio sangue bruciò tanto d'invidia, al punto che se avessi visto un uomo rallegrarsi, divenire felice, mi avresti potuto poi vedere viola dalla rabbia. Qui nel Purgatorio mieto il frutto (la paglia) di ciò che ho seminato in vita; o uomini, perché desideri tanto, desideri con il cuore ciò che non può essere condiviso con gli altri? Questo spirito accanto a me è Rinieri; costui è il prestigio e l'onore della casata dei da Calboli, all'interno della quale nessuno dopo di lui è riuscito a prendere in eredità il suo valore. E non è solo la sua stirpe ad essere divenuta sterile, in Romagna, tra il fiume Po, gli appennini, il mare Adriatico ed il fiume Reno, delle buone qualità richieste per la vita spirituale e quella civile; perché la terra all'interno dei confini che ho citato è piena di velenose sterpaglie, a tal punto che, per quanto si contivasse, sarebbero comunque troppo lente a scomparire. Dove sono adesso il valoroso Lizio di Valbona e Arrigno Mainardi? Dove Piero dei Traversari e Guido di Carpigna? Oh abitanti della romagna tornati ad essere dei bastardi! Quando a Bologna potrà rinascere un Fabro dei Lambertazzi? E quando a Faenza un Bernardino di Fosco, ramoscello nobile generato da una umile erbaccia? Oh toscano, non ti meravigliare se io mi commuovo quando ricordo, insieme con Guido da Prata, anche Ugolino di Azzo che visse insieme a noi, Federigo Tignoso e tutti i suoi compagni, la casata dei Traversari e degli Anastagi (sia l'una che l'altra oramai senza eredi), le donne ed i cavalieri, le fatiche ed il bel vivere verso io i quali venivamo invogliati dall'amore e dallo spirito gentile, proprio là dove adesso i cuori sono diventati così malvagi. Oh Bertinoro, perché ancora non scappi via da lì, visto che se ne è già andata tutta la tua famiglia, la tua stirpe, ed anche molte altre persone per non cadere nella malvagità? Fa bene Bagnacavallo a non fare figli, a no rinnovare la sua stirpe; e fa al contrario male Castrocaro, ed ancora peggio di lui Conio, che si ostinano a dare alla luce conti di così basso valore. Faranno bene i Pagani a non dare più alla luce figli, dopo che il loro diabolico parente sarà morto; ma non però al punto che possa poi rimanere del loro nome un ricordo puro, senza macchia. Oh Ugolino dei Fantolini, è invece al sicuro il tu nome, da quando non ci si aspetta più chi, tradendo, possa oscurarne la fama. Ma vai ora via toscano; perché adesso ho molta più voglia di piangere che di stare a parlare con te, tanto questo nostro discorso mi ha riempito di angoscia." Noi, io e Virgilio, sapevamo che quelle anime buone sentivano i nostri passi mentre camminavamo; perciò, dal momento che non ci dicevano nulla, ci facemo sentire sicuri della via che avevamo preso. Una volta rimasti soli, dopo esserci allontanti, simile ad un fulmine nel momento in cui squarcia l'aria, ci vinne incontro una voce, dicendo: "Mi ucciderà chiunque mi troverà"; e fuggì subito dopo come un tuono che si allontana quando all'improvviso apre con forza una nuvola. Il nostro orecchio aveva appena finito di ascoltare la prima voce, quando eccone giungere un'altra con un gran rumore, simile a quello di un tuono che segue da vicino un'altro tuono: "Io sono Aglauro, la principessa che fu trasformata in pietra"; ed allora, per farmi stretto vicino al poeta Virgilio, mossi i miei passi vestro destra e non invece in avanti. L'aria si era già fatta nuovamente immobile e quieta; e Virgilio mi disse: "Quelli che hai sentito sono i duri esempi che dovrebbero aiutare gli uomini a stare entro i loro limiti. Ma voi uomini prendete invece in bocca l'esca, così che l'amo dell'antico avversario, il demonio, vi attira poi facilmente a lui; e pertanto servono a poco sia il freno che gli avvertimenti. Il cielo vi chiama a sé e ruota anche intorno a voi, mostrandovi le sue bellezze eterne, la sua felicità eterna, ma i vostri occhi sono otinati nel continuare a guardare in basso, a terra; ed è per questo che Dio, colui che tutto vede, vi punisce." |
Riassunto
vv 1-21 Guido del Duca e Rinieri da Calboli
Due anime, incuriosite dalla presenza di un vivo nell'Aldilà, si avvicinano a Dante per chiedere chi sia. Dante, con umiltà, non rivela il proprio nome ma si limita a indicare la valle dell'Arno come luogo d'origine, utilizzando una perifrasi.
vv 22-54 Il Giudizio di Guido del Duca sulla Valle dell'Arno
Guido del Duca, uno dei due spiriti, spiega al compagno che Dante ha scelto di non nominare direttamente la valle dell'Arno poiché i suoi abitanti, avendo abbandonato ogni virtù, vivono ormai in uno stato di degradazione morale, paragonabili a bestie.
vv 55-72 La Profezia su Fulcieri da Calboli
Guido del Duca predice la futura corruzione e violenza del nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli, durante il suo mandato come podestà a Firenze. La previsione lascia Rinieri profondamente turbato.
vv 73-126 La Decadenza della Romagna
Guido si presenta, confessando di essersi macchiato del peccato di invidia. Rivela poi il nome dell'altro spirito, Rinieri da Calboli, lamentando che i suoi discendenti non abbiano ereditato le sue virtù. Guido ricorda infine le famiglie e gli uomini illustri della Romagna, congedandosi visibilmente commosso.
vv 127-141 Esempi di Invidia Punita
Si odono voci potenti, simili a tuoni, che denunciano esempi di invidia punita: Caino, condannato da Dio per l'uccisione di Abele, e Aglauro, trasformata in pietra da Mercurio per aver ostacolato l'amore del dio verso Erse.
vv 142-151 L'Ammonimento di Virgilio
Virgilio esorta gli uomini a non lasciarsi sedurre dai beni materiali, che li tengono legati alla terra, impedendo loro di rivolgere lo sguardo verso il cielo e attirando così su di loro la punizione divina.
Figure Retoriche
v. 1: "Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro": Anadiplosi.
v. 2: "Ritondo vaso": Anastrofe.
v. 9: "A cui sì cominciar, dopo lui, piacque": Iperbato.
vv. 19-24: "Come, da più letizia pinti e tratti, a la fiata quei che vanno a rota levan la voce e rallegrano li atti, così, a l'orazion pronta e divota, li santi cerchi mostrar nova gioia nel torneare e ne la mira nota": Similitudine.
v. 19: "Pinti e tratti": Endiadi.
v. 27: "L'etterna ploia": Allegoria.
v. 28: "Uno e due e tre": Enumerazione.
vv. 28-29: "Vive / e regna": Enjambement.
v. 29: "In tre e 'n due e 'n uno": Enumerazione.
v. 30: "Circunscritto ... circunscrive": Poliptoto.
vv. 31-30: "Tre volte era cantato": Anastrofe.
vv. 31-32: "Da ciascuno / di quelli spirti": Enjambement.
vv. 34-35: "Più dia del minor cerchio": Enjambement.
vv. 34-35: "La luce più dia del minor cerchio": Perifrasi. Per indicare l'anima si Salomone.
vv. 35-36: "Una voce modesta, forse qual fu da l'angelo a Maria": Similitudine.
vv. 37-38: "La festa / di paradiso": Enjambement.
vv. 40-41: "L'ardore; l'ardor": Figura Etimologica.
v. 43: "Gloriosa e santa": Endiadi.
vv. 46-47: "Dona di gratuito lume": Enjambement.
v. 47: "Sommo bene": Perifrasi. Per indicare Dio.
vv. 50-51: "Crescer": Anafora e Iterazione.
vv. 52-57: "Ma sì come carbon che fiamma rende, e per vivo candor quella soverchia, sì che la sua parvenza si difende; così questo folgór che già ne cerchia fia vinto in apparenza da la carne che tutto dì la terra ricoperchia": Similitudine.
vv. 52-53: "Carbon ... candor": Paronomasia.
v. 58: "Affaticarne": Metonimia, l'effetto per la causa.
v. 61: "Sùbiti e accorti": Endiadi.
vv. 68-69: "Nascere un lustro sopra quel che v'era, per guisa d'orizzonte che rischiari": Similitudine.
vv. 70-75: "E sì come al salir di prima sera comincian per lo ciel nove parvenze, sì che la vista pare e non par vera, parvemi lì novelle sussistenze cominciare a vedere, e fare un giro di fuor da l'altre due circunferenze": Similitudine.
vv. 74-75: "Un giro / di fuor": Enjambement.
v. 76: "Oh vero sfavillar del Santo Spiro!": Esclamazione.
v. 76: "Santo Spiro": Anastrofe.
v. 78: "Occhi miei": Anastrofe.
v. 79: "Bella e ridente": Endiadi.
v. 81: "Che non seguir la mente": Anastrofe.
v. 82: "Li occhi miei": Anastrofe.
v. 82: "Ripreser ... virtute": Iperbato.
v. 84: "Con mia donna": Perifrasi. Per indicare Beatrice.
v. 85: "Accors'io": Dialefe.
v. 86: "L'affocato riso de la stella": Personificazione. Ovvero "riso" sta per "splendore".
vv. 86-87: "Per l'affocato riso de la stella, che mi parea più roggio che l'usato": Similitudine.
v. 91: "Non er'anco ... essausto": Iperbato.
v. 93: "Accetto e fausto": Endiadi.
v. 96: "O Eliòs che sì li addobbi!": Esclamazione.
vv. 97-102: "Come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra ' poli del mondo Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi; sì costellati facean nel profondo Marte quei raggi il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo": Similitudine.
v. 103: "La memoria mia": Anastrofe.
vv. 110-116: "Si movien lumi, scintillando forte nel congiugnersi insieme e nel trapasso: così si veggion qui diritte e torte, veloci e tarde, rinovando vista, le minuzie d'i corpi, lunghe e corte, moversi per lo raggio onde si lista talvolta l'ombra": Similitudine.
v. 117: "Ingegno e arte": Endiadi.
vv. 118-123: "E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non è intesa, così da' lumi che lì m'apparinno s'accogliea per la croce una melode che mi rapiva, sanza intender l'inno": Similitudine.
v. 126: "Come a colui che non intende e ode": Similitudine.
v. 130: "La mia parola": Sineddoche, il singolare per il plurale.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto inizia con il dialogo tra Guido del Duca e Rinieri da Calboli, entrambi sorpresi dalla presenza di un vivo in Purgatorio. La figura di Dante, che si presenta come un viaggiatore proveniente dalla valle dell'Arno, diventa l'occasione per Guido di esprimere le sue riflessioni sulla decadenza dei popoli toscani e romagnoli. Non nominando esplicitamente il fiume Arno, Guido descrive con una serie di precise perifrasi geografiche la valle dell'Arno e i popoli che la abitano, condannandoli come moralmente degenerati e trasformati in animali, come se fossero stati mutati dalla maga Circe. In questo contesto, Dante non si presenta direttamente ma come una sorta di figura che suscita la condanna degli abitanti della valle, i Casentinesi, gli Aretini, i Fiorentini e i Pisani, i quali sono paragonati rispettivamente a porci, cani, lupi e volpi, in relazione ai loro vizi specifici.
La critica di Guido si estende poi al declino delle virtù cavalleresche della Romagna, una regione che in passato era dominata da nobili esemplari di virtù cortesi, come Rinieri, e che ora è segnata dalla corruzione. Guido rimpiange un'epoca in cui il valore guerresco, la liberalità e la cortesia erano pratiche comuni, mentre oggi, con l'emergere della civiltà mercantile, quei valori sono stati cancellati. Questa visione è contrastata da Rinieri, il quale rimane colpito dalle parole di Guido, accentuando il senso di tristezza e nostalgia che permea il discorso. Guido, in modo simile a quanto fatto in precedenza da Dante nel Canto VI, denuncia la degenerazione politica e morale, mettendo in luce la decadenza della Toscana e della Romagna attraverso un'immagine apocalittica e tragica, come quella di Fulcieri da Calboli, noto per le persecuzioni e vendette durante il suo governo a Firenze.
Guido interrompe il suo discorso, profondamente commosso, poiché le sue parole lo spingono a piangere per il declino della sua terra. La descrizione della decadenza è anche un atto di rammarico per la scomparsa del mondo cavalleresco, un'epoca che Guido considera ormai perduta. L'invettiva culmina con la presentazione di due esempi classici di invidia punita: Caino, il cui omicidio fratricida simboleggia la malvagità umana, e Aglauro, trasformata in pietra per la sua invidia verso l'amore della sorella. L'intervento finale di Virgilio sottolinea la follia umana che, attratta dal male, finisce per incorrere nella giusta punizione divina, un tema che collega direttamente il peccato dell'invidia con la corruzione della società.
Guido del Duca, come portavoce di un'epoca passata, denuncia l'irreversibile degenerazione delle virtù cavalleresche e della nobiltà, tracciando un parallelismo tra il declino della Toscana e quello della Romagna. La condanna di Guido si estende non solo alla perdita dei valori morali e cavallereschi, ma anche alla trasformazione della società in una civiltà mercantile che privilegia l'avarizia e l'egoismo, un tema che verrà ripreso anche da altri personaggi nei canti successivi. Il Canto termina con una riflessione sulla corruzione che, come un processo inesorabile, ha contaminato non solo la Toscana e la Romagna, ma l'intera società, portando alla morte dei valori che un tempo ne avevano rappresentato il fulcro.
Passi Controversi
Il Falterona (v. 17) è una montagna dell'Appennino da cui nasce l'Arno, un fiume che inizialmente si presenta come un piccolo corso d'acqua. Il verbo "accarno" (v. 22) significa «penetrano profondamente nella carne», usato soprattutto per descrivere il colpo di un'arma o di denti. Chi parla usa una metafora che richiama la caccia, introducendo l'immagine dei popoli della Valdarno. I versi 31-36 descrivono il percorso dell'Arno, dalla sua sorgente nell'Appennino fino alla foce, dove restituisce l'acqua che precedentemente dal mare era evaporata e ha alimentato il fiume tramite pioggia e neve. Le "galle" (v. 43) sono ghiande che piacciono ai maiali, ai quali sono paragonati i Casentinesi, probabilmente riferendosi anche al castello di Porciano, un feudo dei conti Guidi. Gli Aretini (vv. 46-48) sono paragonati a cani piccoli e ringhiosi, forse un riferimento al motto sullo stemma di Arezzo, che dice che un cinghiale è spesso preso da un cane di piccola taglia. I "pelaghi cupi" (v. 52) indicano i bacini profondi dell'Arno nel suo tratto inferiore verso Pisa. Non è chiaro chi Guido intenda con "altri" nel v. 55, ma potrebbe essere riferito a Dante o a Rinieri, con la prima ipotesi più probabile. I vv. 86-87 trattano dei beni materiali, che non si possono condividere come i beni spirituali, un concetto che Guido esprime in modo oscuro, ma che Virgilio spiegherà meglio nel canto successivo. "Il vero e il trastullo" (v. 93) sono simbolo delle virtù cavalleresche, che devono combinare il bene e i piaceri nobili. Nei vv. 97-111, Guido del Duca cita varie personalità nobili della Romagna medievale: Lizio di Valbona, Arrigo Mainardi, Pier Traversaro, Guido di Carpegna, Fabbro dei Lambertazzi, Bernardino di Fosco, Guido da Prata, Ugolino d'Azzo, Federigo Tignoso e altri personaggi di spicco. Nei vv. 112 e seguenti, vengono menzionate città rinomate per la loro nobiltà e liberità, come Bertinoro, Bagnacavallo, Castrocaro, Faenza e altre, insieme ai loro signori. Il v. 133 fa riferimento alle parole di Caino dopo l'uccisione di Abele (Genesi IV, 14), mentre i vv. 134-135 richiamano la credenza medievale che il tuono fosse causato dal fulmine che squarciava le nubi. Il "camo" (v. 143) menzionato da Virgilio è il freno che guida l'uomo, un concetto che deriva da un'immagine biblica (Salmi, XXI, 9).
Fonti: libri scolastici superiori