Thomas Hobbes - L'origine dei desideri e delle passioni


Immagine Thomas Hobbes
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione

Introduzione


Nel sesto capitolo del Leviatano, Hobbes ci conduce attraverso un viaggio nell'origine delle nostre passioni più profonde, quelle che muovono i nostri "movimenti volontari" alla ricerca del piacere e alla fuga dal dolore. Egli ci spiega come la mente generi le sue immagini, un processo spesso accompagnato da sensazioni di piacere o dolore. Quando le impressioni esterne raggiungono il nostro cuore, si scontrano con il nostro movimento vitale interno, che mira alla nostra conservazione. Se questi due movimenti sono in armonia, proviamo piacere e desiderio verso l'oggetto che li ha generati; se sono discordanti, sperimentiamo dispiacere e avversione. Ogni individuo definisce ciò che gli procura piacere e ciò che gli causa dolore, e il suo scopo ultimo diventa il godimento offerto dagli oggetti desiderati. È da questi desideri e avversioni che nascono tutte le nostre passioni.

Nel capitolo undici, Hobbes affronta il concetto di felicità, spiegando come gli uomini siano mossi dalle passioni a cercare un progressivo avanzamento da un desiderio all'altro, cercando sempre più potere per garantire questa felicità illusoria.


Lettura


L'origine interna delle passioni

Vi sono negli animali due specie di movimenti ad essi peculiari. L'uno chiamato vitale che comincia nella generazione e continua senza interruzione per tutta la vita, come il corso del sangue, il polso, il respiro, la concozione, la nutrizione, l'escrezione ecc.; per questi movimenti non occorre l'aiuto dell'immaginazione. L'altro è il movimento animale, chiamato altrimenti movimento volontario, come l'andare, il parlare, il muovere qualche membro, nella maniera determinata prima nella nostra mente dalla fantasia.

Che il senso sia un movimento negli organi e nelle parti interne del corpo umano, causato dall'azione delle cose che vediamo, udiamo ecc.; e che la fantasia non sia che il residuo dello stesso movimento che rimane dopo il senso, è già stato detto nel primo e nel secondo capitolo. E poiché andare, parlare, e simili movimenti volontari, dipendono sempre da un precedente pensiero del dove, del per quale via, del che cosa, è evidente che l'immaginazione è il primo inizio interno di ogni movimento volontario. [...]
Questi piccoli inizi di movimento entro il corpo umano, prima che appaiano nel camminare, nel parlare, nel percuotere, e in altre azioni visibili, sono comunemente chiamati sforzo.

Questo sforzo, quando è volto verso qualcosa che lo causa, si chiama appetito o desiderio; quest'ultimo è il nome generale e l'altro è spesso ristretto a significare il desiderio di cibo, cioè la fame e la sete. Quando lo sforzo è per tenersi lontano da qualcosa, si chiama generalmente avversione. Questi vocaboli, appetito e avversione, che noi abbiamo dai latini, significano entrambi dei movimenti, l'uno quello di avvicinarsi, l'altro quello di ritirarsi. [...]

Ciò che gli uomini desiderano si dice anche che l'amino o che odino quelle cose per le quali hanno avversione. Cosicché desiderio e amore sono la stessa cosa, se si eccettua il fatto che con desiderio noi significhiamo sempre l'assenza dell'oggetto, con amore, più comunemente la presenza di esso. Così pure con avversione, noi significhiamo l'assenza e con odio la presenza dell'oggetto.

Alcuni degli appetiti e delle avversioni nascono con noi, come l'appetito del cibo, quello dell'escrezione e dello scaricare il corpo (che si possono anche, e più propriamente, chiamare avversioni da qualcosa che si sente nel corpo) ed alcuni altri appetiti, non molti. Gli altri, che sono appetiti di cose particolari, procedono dall'esperienza e dal saggio dei loro effetti su di sé o sugli altri. Infatti delle cose che non conosciamo per nulla o che crediamo non ci siano, non possiamo avere alcun desiderio oltre a quello di gustarle e saggiarle. Abbiamo invece avversione non solo per le cose che sappiamo ci hanno nuociuto, ma anche per quelle che non sappiamo se ci nuoceranno o no.

Quelle cose che non desideriamo, né odiamo si dice che le dispregiamo, dato che il dispregio è nient'altro che una immobilità, o contumacia del cuore nel resistere all'azione di certe cose, e procede dal fatto che il cuore è già mosso altrimenti da altri più potenti oggetti, o dalla mancanza di esperienza di essi. [...]

Ma, qualunque esso sia, l'oggetto dell'appetito o desiderio di un uomo, è ciò che egli, per parte sua, chiama buono; l'oggetto del suo odio e della sua avversione, cattivo e quello del suo dispregio, vile e trascurabile.
Infatti queste parole, buono, cattivo, e spregevole, sono sempre usate in relazione alla persona che le usa, dato che non c'è nulla che sia tale semplicemente e assolutamente, e non c'è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia derivata dalla natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla persona (dove non c'è lo stato) o (in uno stato) dalla persona che lo rappresenta, oppure da un arbitro o giudice, che le persone in disaccordo istituiranno per comune consenso e della cui sentenza faranno la regola.

La lingua latina ha due vocaboli, i cui significati si avvicinano a quelli di buono e cattivo, ma non sono precisamente la stessa cosa; essi sono pulchrum e turpe. Il primo significa quel che, per alcuni segni apparenti, promette qualcosa di buono, e l'altro quel che promette qualcosa di cattivo. [...]
Cosicché vi sono tre generi di buono; il buono nella promessa, cioè pulchrum; il buono nell'effetto, come fine desiderato, che viene chiamato jucundum, dilettevole, e il buono come mezzo che viene chiamato utile, giovevole; e altrettanti generi di cattivo, poiché il cattivo nella promessa è quello che si chiama turpe, il cattivo nell'effetto e nel fine molestum, spiacevole, fastidioso; il cattivo nei mezzi, inutile, non giovevole, nocivo.

Così, nel senso, quel che è realmente entro di noi, come ho detto prima, è solo movimento causato dall'azione degli oggetti esterni, ma in apparenza per la vista è luce e colore, per l'orecchio suono, per le narici odore ecc.; così quando l'azione dello stesso oggetto si continua dagli occhi, dalle orecchie, dagli altri organi al cuore, l'effetto reale non è altro che movimento o sforzo, consistente in un appetito verso l'oggetto movente o in una avversione da esso. Ma l'apparenza o senso di quel movimento è ciò che chiamiamo diletto oppure disturbo della mente.

Questo movimento, che viene chiamato appetito e, per la sua apparenza, diletto e piacere, sembra sia una corroborazione e un aiuto del movimento vitale [...] e le contrarie molesta, offensive dal fatto che ostacolano e disturbano il movimento vitale. Perciò il piacere (o diletto) è l'apparenza o il senso di ciò che è buono; e la molestia o dispiacere, l'apparenza o il senso di ciò che è cattivo. Di conseguenza ogni appetito, desiderio e amore, è accompagnato da qualche diletto, maggiore o minore, e ogni odio e avversione da maggiore o minore dispiacere e offesa.

Alcuni dei piaceri o diletti sorgono dal senso di un oggetto presente; essi si possono chiamare piaceri del senso (dato che non c'è posto finché non ci sono le leggi per il vocabolo sensuale, in quanto è usato solamente da quelli che li condannano). Di questo genere sono tutti gli atti con cui il corpo si carica e si scarica, come pure tutto quel che è piacevole alla vista, all'udito, all'odorato, al gusto, o al tatto. Altri sorgono dall'aspettativa che procede dalla previsione del fine o della conseguenza di certe cose, sia che queste cose siano piacevoli o spiacevoli al senso. Sono questi i piaceri della mente per colui che trae quelle conseguenze e vengono generalmente chiamati gioia. Similmente alcuni dispiaceri sono nel senso e vengono chiamati pena; altri, nell'aspettativa delle conseguenze, e vengono chiamati afflizione.

A tal fine dobbiamo considerare che la felicità di questa vita non consiste nel riposo di una mente soddisfatta. Non è lì infatti quel finis ultimus (ultima mira) né quel summum bonum (il bene più grande) di cui si parla nei libri degli antichi filosofi morali.

E un uomo, i cui desideri sono alla fine, non può vivere più di colui i cui sensi e la cui immaginazione smettono di essere in attività. La felicità è un continuo progredire del desiderio da un oggetto ad un altro, non essendo il conseguimento del primo che la via verso quello che vien dopo. La causa di ciò è che l'oggetto del desiderio di un uomo non è quello di gioire una volta sola e per un istante di tempo, ma quello di assicurarsi per sempre la via per il proprio desiderio futuro.

Perciò le azioni volontarie e le inclinazioni di tutti gli uomini tendono non solo a procurarsi ma anche ad assicurarsi una vita appagata; differiscono solo nella via, e ciò sorge in parte dalla diversità delle passioni nei diversi uomini, e in parte dalla differenza della conoscenza o dell'opinione che ciascuno ha delle cause che producono l'effetto desiderato.

Cosicché pongo in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l'umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l'altro che cessa solo nella morte. La causa di questo non è sempre il fatto che un uomo spera in un diletto più intenso di quello che ha già conseguito, o che non può essere contento di un potere moderato, ma è perché non può assicurarsi il potere e i mezzi per viver bene, che ha al presente senza acquisirne di maggiori. È per ciò che i re, il cui potere è grandissimo, volgono i loro sforzi ad assicurarlo in patria con le leggi o all'estero con le guerre; e quando hanno fatto ciò, succede un nuovo desiderio, di fama da nuove conquiste in alcuni, di agi e di piaceri sensuali in altri, di ammirazione o di essere adulati per la loro eccellenza in qualche arte o altra abilità della mente in altri ancora.


Guida alla lettura


1) Definisci la differenza tra movimento vitale e movimento volontario.
Secondo quanto espresso nel testo sopra citato da Hobbes nel capitolo VI del Leviatano, il movimento vitale è un tipo di movimento presente negli animali che comincia dalla generazione e continua per tutta la vita, senza interruzione. Questo tipo di movimento include processi biologici come il battito del cuore, la respirazione, la digestione, l'escrezione e altri processi corporei vitali. Non richiede l'intervento dell'immaginazione e è essenziale per la sopravvivenza dell'individuo.

D'altra parte, il movimento volontario, chiamato anche movimento animale, è il tipo di movimento che dipende dalla volontà dell'individuo. Questo tipo di movimento include azioni come camminare, parlare, muovere le membra e altre azioni che sono determinate precedentemente nella mente attraverso la fantasia. Il movimento volontario è sempre preceduto da un pensiero riguardante il dove, il come e il cosa fare, il che implica che l'immaginazione è il primo inizio interno di tali movimenti.

Quindi, la differenza principale tra movimento vitale e movimento volontario è che il primo è involontario e coinvolge i processi biologici essenziali per la vita, mentre il secondo è volontario e dipende dalla volontà e dalla fantasia dell'individuo.

2) Definisci i concetti di appetito e di avversione.
Nel testo, Hobbes definisce gli appetiti e le avversioni come segue:

Appetito: Hobbes spiega che l'appetito è lo sforzo o il movimento volontario del corpo verso qualcosa che lo causa. Questo movimento può essere sia fisico che mentale, e può essere indirizzato verso l'avvicinamento a qualcosa che si desidera, come il cibo, oppure verso il mantenimento di una certa condizione o stato di cose. Hobbes indica che l'appetito può essere generato da inclinazioni innate o esperienze, e può essere accompagnato da sensazioni di piacere.
Avversione: L'avversione, al contrario, è lo sforzo o il movimento volontario del corpo per allontanarsi da qualcosa. Questo movimento può essere causato dalla sensazione di dispiacere o dal desiderio di evitare qualcosa che si percepisce come dannoso o sgradevole. Hobbes spiega che l'avversione può essere diretta verso situazioni fisiche o mentali e può essere innata o acquisita tramite esperienze.

In breve, l'appetito spinge verso ciò che si desidera o si ritiene buono, mentre l'avversione spinge a evitare ciò che si percepisce come dannoso o sgradevole. Entrambi i concetti sono centrali nella comprensione delle passioni umane e delle azioni che ne derivano, come descritto da Hobbes nel suo lavoro.

3) Definisci la differenza tra i tre tipi di bene: pulchrum (bello o amabile), dilettevole e utile.
Nel testo, Hobbes delineia tre tipi di bene: "pulchrum" (bello o amabile), "dilettevole" e "utile". Ecco come vengono distinti:

Pulchrum (bello o amabile): Questo tipo di bene si riferisce a ciò che, per alcuni segni apparenti, promette qualcosa di buono. Viene associato alla promessa di qualcosa di positivo o attraente. Hobbes spiega che il termine "pulchrum" è simile al concetto di "buono nella promessa". È ciò che sembra promettere qualcosa di positivo o desiderabile, anche se non necessariamente lo è effettivamente.
Dilettevole: Questo tipo di bene è associato al piacere o al godimento che si prova da un oggetto presente o dall'aspettativa di conseguenze piacevoli. Viene menzionato nel contesto dei "piaceri del senso" che derivano dalla percezione diretta degli oggetti attraverso i sensi, come la vista, l'udito, l'odorato, il gusto e il tatto. Inoltre, Hobbes indica che i piaceri della mente che derivano dall'aspettativa di conseguenze positive possono essere chiamati "gioia".
Utile: Questo tipo di bene è associato alla utilità o alla beneficenza di un oggetto. Hobbes lo definisce come il bene che serve come mezzo per raggiungere un fine desiderato. Viene menzionato nel contesto del "buono come mezzo", cioè ciò che è utile per conseguire un obiettivo desiderato.

In sintesi, mentre "pulchrum" riguarda la promessa di qualcosa di positivo o attraente, "dilettevole" si riferisce al piacere derivante da un oggetto presente o da aspettative positive, e "utile" si riferisce alla utilità o beneficenza di un oggetto come mezzo per raggiungere un obiettivo desiderato.

4) Spiega come si generano il piacere e il dolore.
Secondo quanto descritto nell'estratto sopra citato del Leviatano di Hobbes, il piacere e il dolore si generano attraverso il movimento interno dell'individuo in risposta agli stimoli esterni. Quando il movimento generato dal contatto con corpi esterni incontra il movimento vitale interno dell'individuo, si può produrre piacere o dolore a seconda se i due movimenti si accordano o sono discordanti.

In parole più semplici, quando l'azione degli oggetti esterni induce un movimento interno nell'organismo, questo movimento può essere accompagnato da sensazioni di piacere se il movimento interno è in armonia con la conservazione dell'individuo, o da sensazioni di dolore se il movimento interno è discordante o dannoso per l'organismo.

Pertanto, il piacere e il dolore sono manifestazioni delle reazioni dell'organismo alle influenze esterne, determinate dalla concordanza o dalla discordia tra i movimenti interni ed esterni.

5) Definisci la differenza tra piaceri del senso e piaceri della mente.
Secondo il testo sopra citato, i piaceri del senso derivano dal senso di un oggetto presente e comprendono tutto ciò che è piacevole alla vista, all'udito, all'odorato, al gusto o al tatto. Questi piaceri sono legati direttamente alla percezione sensoriale e alla gratificazione fisica immediata. Si tratta di esperienze sensoriali che generano piacere nel momento in cui si verificano.

D'altra parte, i piaceri della mente derivano dall'aspettativa che procede dalla previsione del fine o della conseguenza di certe cose, indipendentemente dal fatto che siano piacevoli o spiacevoli al senso. Questi piaceri sono legati alle aspettative e alle previsioni riguardanti il futuro e possono essere suscitati anche da eventi o situazioni che non coinvolgono direttamente i sensi. Ad esempio, la gioia che proviamo nell'attesa di un evento piacevole o nell'ottenere ciò che desideriamo è un esempio di piacere della mente.


Guida alla Comprensione


1) Che cosa vuol dire che la maggior parte degli appetiti e delle avversioni (ma non tutti) si genera con l'esperienza?
Secondo quanto descritto nel testo, la maggior parte degli appetiti e delle avversioni si genera con l'esperienza perché le persone sviluppano desideri e avversioni in base alle loro esperienze e alla conoscenza degli effetti che determinate cose hanno su di loro o sugli altri. Hobbes spiega che alcuni appetiti e avversioni sono presenti fin dalla nascita, come l'appetito per il cibo o l'avversione per certe sensazioni corporee, mentre altri si sviluppano in seguito attraverso l'esperienza e il giudizio sui loro effetti. Questo significa che le persone imparano a desiderare o ad evitare certe cose sulla base delle esperienze che vivono e dell'osservazione dei risultati di tali esperienze.

2) In che senso, secondo Hobbes, ogni individuo è giudice del bene e del male?
Secondo Hobbes, ogni individuo è giudice del bene e del male in quanto definisce ciò che è buono o cattivo in relazione a sé stesso. Nel testo citato, Hobbes afferma che "l'oggetto dell'appetito o desiderio di un uomo, è ciò che egli, per parte sua, chiama buono; l'oggetto del suo odio e della sua avversione, cattivo e quello del suo dispregio, vile e trascurabile." In altre parole, ogni individuo valuta ciò che gli piace o non gli piace, ciò che desidera o odia, in base alle proprie inclinazioni e alle proprie esperienze. Hobbes sottolinea che non esiste una definizione assoluta di ciò che è buono o cattivo, queste valutazioni dipendono dalle percezioni e dalle opinioni individuali.

3) Spiega il significato della definizione hobbesiana di felicità.
Secondo Hobbes, la felicità non è il riposo di una mente soddisfatta né il raggiungimento di un obiettivo finale definitivo. Al contrario, la felicità consiste in un continuo progredire del desiderio da un oggetto all'altro. Questa idea è evidenziata quando Hobbes afferma che "la felicità è un continuo progredire del desiderio da un oggetto ad un altro, non essendo il conseguimento del primo che la via verso quello che vien dopo".

In altre parole, la felicità non è raggiunta una volta per tutte con il soddisfacimento di un desiderio, è piuttosto la costante ricerca e il perseguimento di nuovi desideri. Questo perché l'oggetto del desiderio di un individuo non è semplicemente quello di godere una volta sola e per un breve istante ma di garantirsi per sempre la possibilità di soddisfare i propri desideri futuri.

Quindi, secondo Hobbes, la felicità consiste nel continuo movimento verso il conseguimento dei desideri, piuttosto che nel raggiungere uno stato di soddisfazione definitivo.

4) Perché Hobbes considera il desiderio di potere l'inclinazione comune del genere umano?
Hobbes considera il desiderio di potere come l'inclinazione comune del genere umano perché ritiene che gli uomini abbiano un desiderio perpetuo e senza tregua di acquisire sempre più potere. Questo desiderio non è motivato solo dalla ricerca di un piacere più intenso o dall'insoddisfazione con un potere moderato, è principalmente causato dalla difficoltà di assicurarsi il potere e i mezzi per vivere bene senza acquisirne di maggiori. Hobbes spiega che questo desiderio di potere non si placa neanche quando un individuo raggiunge una posizione di grande potere, come nel caso dei re, i quali continuano a cercare ulteriori fonti di potere per consolidare la loro autorità e perseguire nuovi obiettivi, come fama, agi, piaceri sensuali o ammirazione per le loro abilità. In sintesi, Hobbes riconosce il desiderio di potere come una caratteristica intrinseca e universale dell'umanità, che persiste finché l'individuo è in vita.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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