Cesare Beccaria - Contro la pena di morte
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione
Introduzione
Questo brano tratta del celebre capitolo XXVIII del libro "Dei Delitti e delle Pene" di Cesare Beccaria, focalizzato sulla pena di morte. È forse il capitolo più famoso e discusso dell'opera, e ha avuto un impatto notevole nel dibattito giuridico e politico dell'epoca. Tra le influenze più significative si conta il progetto di costituzione russa ideato da Caterina II tra il 1765 e il 1767, che proponeva l'abolizione della pena di morte, ispirandosi direttamente alle tesi di Beccaria. Analogamente, il granduca di Toscana, Pietro Leopoldo, introdusse nel 1786 una riforma legislativa che eliminava la pena di morte, rendendo la Toscana la prima regione in Europa a prendere tale decisione. L'articolo 51 di questa riforma descriveva la pena di morte come non necessaria, meno efficace della detenzione perpetua, e irreversibile, riprendendo le argomentazioni di Beccaria.
Nonostante il progetto di Caterina II non si concretizzasse e la pena di morte fosse poi reintrodotta in Toscana per certi reati, Beccaria continuò a opporsi fermamente a questa pratica. Durante il suo lavoro nella commissione per la riforma del codice penale a Milano tra il 1787 e il 1792, ribadì la sua posizione contro la pena capitale per tre principali motivi: non è giusta perché non necessaria, non è efficace quanto la pena perpetua e è irreparabile.
Nel testo che segue, Beccaria argumenta che la pena di morte non dovrebbe mai essere vista come giusta poiché nessun individuo, al momento della formazione della società attraverso un contratto sociale, potrebbe rinunciare al proprio diritto inalienabile alla vita, un concetto già espresso da Locke. Di conseguenza, la pena di morte non è un atto di giustizia, ma piuttosto una guerra dello stato contro il cittadino. Beccaria sostiene anche che la pena di morte non è utile né necessaria. Espone due ragioni comuni che potrebbero supportare la sua necessità: la salvaguardia della nazione e il suo valore deterrente. Tuttavia, argomenta che entrambe le ragioni sono invalidi; la pena di morte non è necessaria nella vita ordinaria di una nazione e non è efficace quanto una pena estesa in termini di tempo. Inoltre, considera la pena di morte come una crudeltà inutile che contraddice il ruolo del legislatore, il quale dovrebbe assicurare che le leggi moderino, e non esacerbino, la condotta umana.
Lettura
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili?
Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l'aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità.
La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita.
La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt'i secoli, nei quali l'ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall'offendere la società, quando l'esempio dei cittadini romani, e vent'anni di regno dell'imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest'illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell'autorità, basta consultare la natura dell'uomo per sentire la verità della mia assersione.
Non è l'intensione della pena che fa il maggior effetto sull'animo umano, ma l'estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L'impero dell'abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l'uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l'idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse.
Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell'efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l'idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza.
La pena di morte fa un'impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all'uomo anche nelle cose più essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più l'animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare.
Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l'ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell'animo degli spettatori d'un supplicio più fatto per essi che per il reo.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d'intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l'intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di più: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l'uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L'animo nostro resiste più alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all'incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi.
Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l'impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo.
Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall'infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s'ingrandiscono nell'immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all'animo incallito dell'infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino [...]. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un'arte che s'apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch'io debbo rispettare, che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo l'ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d'indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l'orrore di quell'ultima tragedia.
Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d'anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a' suoi concittadini, co' quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll'incertezza dell'esito de' suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L'esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai più forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce più che non lo corregge.
Non è utile la pena di morte per l'esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le più utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell'interesse privato o si combina con quello del pubblico.
Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d'indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l'origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel più secreto dei loro animi, parte che più d'ogn'altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l'universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors'anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all'idolo insaziabile del dispotismo. L'assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell'esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso!
Guida alla lettura
1) Perché la pena di morte lede un diritto inalienabile?
Nel testo, Cesare Beccaria sostiene che la pena di morte lede un diritto inalienabile basandosi su un principio fondamentale della teoria del contratto sociale, influenzato anche dalle idee di John Locke. Beccaria argomenta che nessuno, al momento di entrare in società attraverso un contratto sociale implicito o esplicito, ha il diritto o la possibilità di cedere il proprio diritto alla vita. Questo perché la vita è un diritto inalienabile, ovvero un diritto talmente fondamentale che non può essere trasferito o rinunciato neanche volontariamente.
Inoltre, Beccaria ritiene che nessuno possa avere il diritto di togliere la vita a un altro individuo perché tale diritto non potrebbe essere legittimamente ceduto alla società o a chiunque altro. La pena di morte, quindi, viene considerata non un atto di giustizia, ma piuttosto una "guerra della nazione con un cittadino", un atto di forza in cui lo Stato decide unilateralmente di terminare la vita di un individuo. Per Beccaria, tale atto contraddice il principio fondamentale che nessun uomo può disporre della vita di un altro, poiché è un diritto che nessuno può legittimamente cedere o alienare.
2) Come definisce la pena di morte Beccaria?
Nell'estratto presentato, Cesare Beccaria definisce la pena di morte in modo molto critico, sottolineando che essa non è né giusta né necessaria. Beccaria sostiene che la pena di morte non può essere considerata un diritto legittimo da parte dello Stato, in quanto nessun individuo possiede il diritto inalienabile di cedere la propria vita, che è un bene supremo e personale. Pertanto, egli afferma che la pena di morte non rappresenta un atto di giustizia, ma piuttosto "una guerra della nazione con un cittadino".
Beccaria presenta anche argomenti contro l'utilità della pena di morte, sostenendo che non è efficace né come deterrente né come misura necessaria per la sicurezza dello Stato, eccetto in casi estremamente rari e specifici di pericolo immediato per la nazione. Inoltre, critica l'atrocità della pena di morte come un metodo crudele e inutile che non allinea con l'obiettivo delle leggi di moderare la condotta umana, ma piuttosto aumenta l'esempio di violenza.
3) Quali sono i due motivi per cui si potrebbe credere che la pena di morte sia utile e necessaria?
Nel testo di Cesare Beccaria, i due motivi per cui si potrebbe credere che la pena di morte sia utile e necessaria sono:
Quando la sicurezza della nazione è in pericolo: Beccaria menziona che la morte di un cittadino può essere considerata necessaria quando, anche privo di libertà, questa persona mantiene relazioni e potere tali da poter influenzare o minacciare la sicurezza dello stato, o quando la sua esistenza potrebbe causare una rivoluzione pericolosa che modificherebbe la forma di governo stabilita.
Come deterrente per prevenire i crimini: Un altro motivo per cui la pena di morte potrebbe essere vista come necessaria è il suo presunto effetto deterrente, ossia prevenire che altri commettano delitti vedendo il destino fatale di chi è stato giustiziato.
Tuttavia, Beccaria critica entrambi questi motivi, argomentando che durante un normale periodo di pace e stabilità nazionale (quando le leggi funzionano efficacemente e non c'è una minaccia immediata per la sicurezza dello stato), non vi è alcuna necessità di distruggere un cittadino. Inoltre, sostiene che la pena di morte non è un deterrente efficace, poiché la paura della morte non impedisce necessariamente alle persone di commettere crimini e suggerisce che punizioni più prolungate e meno estreme potrebbero avere un effetto dissuasivo più forte.
4) A quali argomenti ricorre Beccaria per contestare l'efficacia della pena di morte come deterrente?
Beccaria contesta l'efficacia della pena di morte come deterrente utilizzando diversi argomenti chiave nel testo che hai fornito. Ecco un riassunto dei principali:
Differenza tra intensità e estensione della pena: Beccaria sostiene che non è l'intensità di una pena (la sua severità estrema) a fare il maggior effetto sull’animo umano, ma piuttosto l'estensione di essa (la sua durata). Afferma che le impressioni minori ma ripetute hanno un impatto più duraturo rispetto a un evento traumatico ma breve, come la morte.
Inefficacia della paura della morte come deterrente: Secondo Beccaria, l'esperienza storica dimostra che la pena di morte non ha dissuaso gli individui determinati a commettere reati. Inoltre, descrive come la paura della morte tenda a essere vista come un evento distante e poco concreto, mentre le pene prolungate (come la schiavitù perpetua) offrono una rappresentazione continua e tangibile delle conseguenze di azioni criminali.
Impatto psicologico della pena di morte sui cittadini: Beccaria argomenta che la pena di morte, essendo un evento sporadico e di grande intensità, lascia un'impressione di breve durata che viene rapidamente dimenticata a causa della natura umana di dimenticare rapidamente gli eventi traumatici. Inoltre, sostiene che la pena di morte diviene più uno spettacolo che un vero deterrente, con effetti di desensibilizzazione piuttosto che di correzione.
Comparazione con alternative meno estreme: Sostiene che alternative come la schiavitù perpetua sarebbero più efficaci nel prevenire i crimini poiché impongono una sofferenza prolungata e visibile, mantenendo una costante presenza nella mente delle persone. Questa costante visibilità rafforza la percezione delle conseguenze della criminalità.
Contraddizione morale e logica della pena di morte: Beccaria critica anche la pena di morte per la sua contraddizione intrinseca: le leggi che detestano e puniscono l’omicidio ne commettono uno a loro volta attraverso la pena di morte, il che secondo lui mina l’autorità morale della legge e contribuisce a un circolo vizioso di violenza.
In sintesi, Beccaria sostiene che la pena di morte è inefficace come deterrente perché non incide profondamente e duraturamente sulla psicologia umana, mentre pene più prolungate e meno severe potrebbero avere un impatto maggiore e più costruttivo sulla prevenzione dei crimini.
5) In che senso l'ergastolo può essere considerato anche più doloroso della morte?
Nel testo, Cesare Beccaria sostiene che la pena dell'ergastolo, o schiavitù perpetua, può essere considerata più dolorosa della morte per diversi motivi che riguardano soprattutto la percezione e l'estensione della sofferenza nel tempo.
Estensione vs. intensione della pena: Beccaria fa un'importante distinzione tra l'intensità momentanea della pena di morte, che esaurisce tutto il suo effetto in un unico, breve momento, e l'estensione nel tempo della pena dell'ergastolo. Mentre la morte colpisce in modo acuto e definitivo, l'ergastolo si distribuisce su tutta la vita del condannato. Questa estensione rende la pena più spaventosa e continua, il che può essere visto come più doloroso poiché la sofferenza è costante e senza speranza di fine.
Impatto psicologico sul condannato e sugli osservatori: Beccaria argomenta che la schiavitù perpetua ha un impatto più profondo e duraturo sugli osservatori perché essi vedono la somma totale dei momenti infelici del condannato, mentre il condannato stesso è distratto dal dolore del momento dalla speranza o dalla paura del futuro. Questo fa sì che la schiavitù perpetua appaia come una punizione più terribile, il che teoricamente potrebbe detergere più efficacemente il crimine rispetto al breve terrore della morte.
Differenza tra la percezione e la realtà del dolore: Beccaria suggerisce anche che, nonostante la schiavitù perpetua possa sembrare più dolorosa e crudele, essa offre al condannato momenti di vita e la possibilità di trovare delle piccole consolazioni o adattamenti alla sua situazione, cosa che la morte non permette.
In sostanza, secondo Beccaria, mentre la pena di morte termina rapidamente la vita del condannato, l'ergastolo estende il dolore e la sofferenza per tutta la durata della vita del prigioniero, facendola apparire, in un certo senso, più crudele e dolorosa.
6) Perché la pena di morte rappresenta un danno per un buon legislatore?
Nel testo di Cesare Beccaria, la pena di morte è criticata e vista come un danno per un buon legislatore per vari motivi. Ecco alcuni punti chiave estratti dal testo:
Non è un deterrente efficace: Beccaria sostiene che la pena di morte non è utile o necessaria come deterrente. L'efficacia della pena non risiede nell'intensità (la severità del castigo), ma nella sua estensione (la durata e la costanza della pena). Punizioni meno severe ma più durature sono più efficaci nel prevenire i crimini.
Irreversibilità: La pena di morte è irreparabile e definitiva. Se si commette un errore nella condanna, questo non può essere corretto. Questo la rende una misura pericolosa e inadatta per un sistema che valorizza la giustizia e la possibilità di redenzione.
Contrasto con i principi di giustizia: Beccaria afferma che la pena di morte non può essere considerata giusta perché nessuno ha il diritto di togliere la vita, un diritto inalienabile. La società non dovrebbe avere il potere di uccidere i suoi membri.
Effetti psicologici negativi sugli spettatori e sulla società: L'esecuzione di una persona diventa uno spettacolo che può suscitare compassione e disdegno più che il deterrente desiderato. Inoltre, può indurre un'abitudine alla violenza e alla morte, riducendo la sensibilità della popolazione verso l'importanza della vita.
Discrepanza tra il messaggio delle leggi e l'azione della pena di morte: Le leggi dovrebbero promuovere il rispetto per la vita e non comportarsi in modo contrario (omicidio) a ciò che cercano di proteggere. Imporre la morte legale è visto come un atto di ipocrisia legislativa, sminuendo la legittimità dell'intero sistema legale.
Questi punti illustrano perché, secondo Beccaria, la pena di morte rappresenta un danno per un buon legislatore, poiché contrasta con i principi di efficacia, giustizia, e umanità che dovrebbero guidare la legislazione penale.
Guida alla Comprensione
1) Ricostruisci l'argomentazione contrattualista con cui Beccaria sostiene l'illegittimità della pena di morte.
Cesare Beccaria, nel testo estratto da "Dei delitti e delle pene", sviluppa un'argomentazione contrattualista contro la pena di morte basata sui principi del contratto sociale e dei diritti inalienabili degli individui. La sua argomentazione può essere riassunta nei seguenti punti chiave:
Fondamento del Contratto Sociale: Beccaria parte dal presupposto che la società sia costituita attraverso un contratto sociale in cui gli individui cedono una parte delle loro libertà personali allo stato per garantire una convivenza pacifica e sicura. Tuttavia, sostiene che nessuno avrebbe razionalmente ceduto il diritto alla propria vita, poiché questo è un diritto fondamentale e inalienabile, come insegna anche Locke.
Illegittimità della Pena di Morte: Poiché il diritto alla vita è inalienabile, nessuno potrebbe averlo ceduto nel contratto sociale. Di conseguenza, lo stato non ha il diritto legittimo di togliere la vita ai cittadini. Beccaria sostiene che la pena di morte non è solo ingiusta ma rappresenta una "guerra della nazione con un cittadino" piuttosto che un atto di giustizia, poiché implica la distruzione di un essere che non ha ceduto il diritto alla sua esistenza.
Utilità della Pena: Beccaria argomenta anche contro la pena di morte dal punto di vista dell'utilità. Egli presenta due motivi per cui la pena di morte potrebbe essere considerata necessaria: per salvare la nazione o come deterrente. Tuttavia, sostiene che nessuno di questi motivi è valido in una società ben ordinata. La morte non è necessaria per la sicurezza della nazione durante tempi di pace, e non è un deterrente efficace rispetto a pene meno estreme ma più durature.
La Schiavitù Perpetua come Alternativa: Beccaria propone la pena perpetua come alternativa più umana ed efficace. Sostiene che la paura e l'impressione duratura causata dalla perdita prolungata della libertà sono un deterrente più potente contro il crimine rispetto all'estremo ma breve momento della morte.
In sintesi, l'argomentazione contrattualista di Beccaria contro la pena di morte si fonda sulla convinzione che nessun individuo abbia ceduto il proprio diritto inalienabile alla vita nel contratto sociale, rendendo la pena di morte non solo illegittima ma anche inutile come strumento di giustizia in una società civile. Egli pone un'enfasi forte sulla giustizia e sull'utilità come criteri principali per valutare la legittimità delle leggi e delle pene.
2) Che cosa significa che, nel «tranquillo regno delle leggi», la pena di morte non può essere considerata necessaria? E se si cade in uno stato di anarchia è possibile parlare di uso legittimo della pena di morte?
Nel testo di Cesare Beccaria, quando si parla del "tranquillo regno delle leggi", si fa riferimento a uno stato di società in cui le leggi sono rispettate, la governance è stabile, e la sicurezza sia interna che esterna è efficacemente mantenuta attraverso il consenso e la cooperazione dei cittadini. In questo contesto, la pena di morte non viene vista come necessaria perché l'ordine e la sicurezza sono già garantiti dalle leggi e dalle strutture sociali esistenti. Beccaria sostiene che, in un tale ambiente, non ci sono giustificazioni valide per l'uso della pena di morte, poiché la società può mantenere il controllo e prevenire i crimini senza dover ricorrere a misure così estreme e irreversibili.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, riguardo alla possibilità di considerare la pena di morte legittima in uno stato di anarchia, Beccaria sembra suggerire che ci potrebbero essere circostanze eccezionali in cui la pena di morte potrebbe essere considerata necessaria. Queste circostanze si verificano quando la normale vita di una nazione è interrotta, come durante un periodo di grave instabilità politica o sociale, dove i disordini sostituiscono le leggi e la sicurezza della nazione è a rischio. In questi casi, la morte di un cittadino potrebbe essere vista come necessaria per preservare o ripristinare l'ordine e la stabilità. Tuttavia, è importante notare che Beccaria si esprime con estrema cautela riguardo a queste situazioni, suggerendo che queste sono eccezioni piuttosto che regole, e la sua visione generale rimane fermamente contraria alla pena di morte come strumento di giustizia ordinario.
In sintesi, mentre Beccaria riconosce la possibilità teorica che in momenti di estrema crisi la pena di morte possa essere considerata, lui personalmente non la vede mai come una soluzione giusta o desiderabile, puntando invece alla riforma e all'umanizzazione delle leggi penali.
3) Ricostruisci il ragionamento con cui Beccaria sostiene che gli uomini temono maggiormente l'estensione che l'intensità della pena.
Nel testo di Cesare Beccaria, "Dei delitti e delle pene", si trova un'argomentazione centrale riguardo alla percezione umana dell'estensione e dell'intensità della pena. Beccaria sostiene che gli uomini temono maggiormente l'estensione della pena piuttosto che la sua intensità. Ecco come ricostruisce il suo ragionamento:
Natura della sensibilità umana: Beccaria afferma che la sensibilità umana è più facilmente e stabilmente mossa da impressioni ripetute e prolungate nel tempo piuttosto che da un forte ma breve stimolo. L'estensione della pena, quindi, avendo una durata prolungata, ha un impatto più profondo e continuo sulla psiche umana.
Effetto dell'abitudine: Secondo Beccaria, l'abitudine ha un impero universale sugli esseri sensibili. Le idee morali, come quelle relative alle conseguenze dei propri atti, si imprimono nella mente umana attraverso esposizioni durature e ripetute. Quindi, un’esposizione prolungata alle conseguenze di un atto (come la schiavitù perpetua) lascia un'impressione più duratura rispetto a un evento breve ma intenso come l'esecuzione capitale.
Impatto sulla mente dello spettatore e del sofferente: Beccaria sostiene che le pene prolungate spaventano di più chi le osserva piuttosto che chi le subisce, perché lo spettatore considera l'intera somma dei momenti infelici, mentre il condannato è distratto dall'infelicità del momento presente da quella futura. Questo fa sì che la percezione dello spettatore sia più intensa e prolungata rispetto a quella del sofferente.
Confronto con la pena di morte: Beccaria contrasta l'estensione della pena con l'intensità della pena di morte, che si consuma in un momento. Egli argomenta che, mentre la morte di un condannato può essere un evento traumatico, è tanto rapido e definitivo da non lasciare lo stesso tipo di impressione duratura che una pena prolungata può avere.
In sintesi, Beccaria sostiene che una pena che si estende nel tempo, come la schiavitù perpetua, è più temuta e quindi più efficace come deterrente rispetto a una punizione intensa ma breve come la pena di morte. La sua argomentazione si basa su una comprensione psicologica di come gli esseri umani reagiscono a stimoli prolungati rispetto a quelli intensi e momentanei.
4) Ricostruisci l'argomentazione del criminale di fronte alla prospettiva della pena di morte, evidenziando il suo carattere di denuncia sociale e indicando quali vantaggi egli creda di ricavare dalla rottura del patto sociale che lo lega agli altri cittadini con il ritorno allo «stato di indipendenza naturale».
Nel testo, l'argomentazione del criminale di fronte alla prospettiva della pena di morte è complessa e rivela un profondo senso di ingiustizia sociale che lo spinge a rifiutare le leggi imposte da una società che percepisce come iniqua e diseguale. Egli esprime una chiara denuncia sociale, mettendo in discussione la legittimità delle leggi che favoriscono i ricchi e potenti a scapito dei poveri e diseredati.
Il criminale sostiene che le leggi sono state create da uomini ricchi e potenti che non hanno mai sperimentato la povertà o la disperazione delle classi inferiori. Questi legislatori non conoscono la realtà delle "squallide capanne del povero" e formulano le leggi senza considerare le reali necessità e sofferenze di chi non ha nulla. Per il criminale, queste leggi non meritano rispetto perché perpetuano una divisione profonda tra ricchi e poveri, lasciando gli ultimi in uno stato di continua miseria e disperazione.
Egli vede la possibilità di rompere questi "legami fatali" come un ritorno allo "stato di indipendenza naturale", una condizione in cui può vivere "libero e felice" grazie ai "frutti del mio coraggio e della mia industria". La rottura del patto sociale diventa un modo per sfuggire all'oppressione e rivendicare una sorta di giustizia personale, ristabilendo un equilibrio che considera più giusto. Attraverso il crimine, il criminale si proclama "re di un piccolo numero", correggendo gli "errori della fortuna" e sfidando i "tiranni" che abusano del loro potere.
In termini di vantaggi che il criminale crede di ricavare rompendo il patto sociale, egli immagina di ottenere una vita di libertà e piaceri, anche se ammette che potrebbe arrivare un "giorno del dolore e del pentimento". Tuttavia, considera che questo periodo di sofferenza sarà breve rispetto ai "molti anni di libertà e di piaceri" che anticipa. Questo discorso rivela non solo un calcolo personale del rapporto costo-beneficio ma anche una sfida contro un sistema che percepisce come oppressivo e ingiusto, privilegiando un'esistenza indipendente, anche se rischiosa, rispetto a una vita di sottomissione sotto leggi che sente come alienanti e discriminatorie.
5) Spiega quale dovrebbe essere il ruolo di un buon legislatore alla luce della definizione che Beccaria fornisce delle leggi veramente utili.
Secondo Cesare Beccaria, il ruolo di un buon legislatore dovrebbe essere quello di formulare leggi che non solo siano rispettate ma che tutti i cittadini vorrebbero proporre e osservare. Queste leggi dovrebbero riflettere un equilibrio tra l'interesse privato e quello pubblico, mirando alla vera utilità e giustizia per la società nel suo complesso. Beccaria sottolinea che le leggi veramente utili sono quelle che tutti accetterebbero, mentre sono a riparo dalle influenze dell'interesse privato.
Per Beccaria, un buon legislatore deve quindi evitare di creare leggi che siano estreme o che rispondano solo agli interessi di una parte della società, specialmente quelli dei più potenti e ricchi. Le leggi dovrebbero essere moderate e proporzionate, in modo da prevenire i crimini senza ricorrere a pene eccessive o crudeli, come la pena di morte. Inoltre, Beccaria critica la pena di morte non solo per la sua crudeltà e irreparabilità ma anche perché non funziona efficacemente come deterrente. Sostiene piuttosto che pene più moderate ma costanti, come la schiavitù perpetua, siano più efficaci nel prevenire i crimini attraverso l'abitudine e l'impressione duratura piuttosto che attraverso il terrore di un singolo evento estremo.
In sintesi, il ruolo del legislatore, secondo Beccaria, è quello di creare un sistema di leggi giuste, moderate e utili che proteggano la società e promuovano il bene pubblico senza ricorrere a misure ingiuste o eccessivamente punitive. Queste leggi dovrebbero riflettere l'equilibrio tra i diritti individuali e le necessità della collettività, garantendo che la giustizia prevalga su interessi privati o passioni temporanee.
Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori