Etica religiosa e legge naturale
1) Alle origini dell'etica cristiana
2) La Bibbia e la regola aurea
3) I precetti dei cristiani
4) La legge naturale
5) In conclusione
Alle origini dell'etica cristiana
Il cristianesimo ha le sue radici nell'ebraismo, una religione legata alla rivelazione divina contenuta nella Bibbia. L'etica dell'ebraismo si basa sul rispetto dei precetti presenti nei primi cinque libri della Torah: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. Nel contesto di questi precetti, rivestono un ruolo cruciale i comandamenti pronunciati da Dio e consegnati a Mosè sul monte Sinai durante la sua manifestazione.
Ci sono due elenchi di questi comandamenti, uno in Esodo 20.2-17 e l'altro in Deuteronomio 5.6-18. In entrambe le versioni, la prima parte delle tavole su cui sono incisi indica i doveri verso Dio, mentre la seconda parte tratta i doveri verso il prossimo. Attraverso questi comandamenti, espressi come volontà divina, Dio stipula la seconda "alleanza" con il popolo eletto. La prima alleanza era stata stabilita con la discendenza di Abramo, attraverso la promessa della terra di Canaan e l'obbligo della circoncisione. La seconda, stipulata sul Sinai tramite Mosè e le tavole della legge, sancisce definitivamente il patto reciproco tra Dio e il popolo di Israele.
Secondo la visione ebraica, ciò non implica che i doveri indicati nel decalogo siano riservati esclusivamente al popolo ebraico. Essi esprimono principi etici comuni a tutti gli uomini. Per gli ebrei, l'adesione a Dio è completata dal rispetto di molti altri precetti, che, oltre alla loro funzione pratica e rituale, hanno un fondamento etico. Questi precetti stabiliscono una specifica modalità di esistenza propria del popolo ebraico.
Nel Deuteronomio si legge che alla fine della lunga e minuziosa elencazione delle leggi da applicare nella terra promessa:
"[...] oggi il Signore Dio tuo ti comanda di mettere in pratica questi precetti e queste leggi; custodiscili dunque e mettili in pratica con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima. Oggi hai impegnato il Signore ad esserti Dio, ma alla condizione che tu cammini nelle sue vie, osservi i suoi precetti, i suoi comandamenti e le sue leggi, obbedendo alla sua voce. E il Signore ha impegnato te oggi ad essergli un popolo speciale, come ti ha promesso, alla condizione che tu osservi tutti i suoi comandamenti [...]"
(Deuteronomio, 26.16-18)
All'interno della tradizione ebraica, riveste un ruolo significativo l'attesa del "Messia", un inviato di Dio che può assumere la forma di un uomo, spesso descritto come un re nella tradizione politica o rappresentare un'epoca storica. Questa figura è considerata come portatrice di liberazione a livello morale, sociale e politico, sia a livello nazionale che universale. In contrasto con questa prospettiva, la corrente cristiana all'interno dell'ebraismo presenta un approccio originale, parlando di una "nuova alleanza" tra l'umanità e Dio, personificata da Gesù. I suoi seguaci lo considerano il "Messia" o il "Cristo" e per coloro che vedono in lui l'incarnazione di Dio, la fede consente di comprendere il significato della sua rivelazione.
Gesù è interpretato come colui che porta una speranza tangibile di salvezza e insegna un nuovo modo di condurre la propria esistenza. I cristiani sono chiamati a vivere orientati verso la trascendenza, poiché la vera felicità, o "beatitudine", si trova nella visione celeste di Dio, ottenuta attraverso la sua "grazia".
Nonostante il peccato originale che inclina l'umanità al male, gli uomini sono liberati e possono riconquistare un rapporto felice con Dio. Tuttavia, il giudizio finale sulle loro azioni spetta al Creatore e non è garantito dalle sole intenzioni e opere. Gesù rappresenta un modello di vita concreto, anche se inarrivabile e il suo insegnamento si trasmette non attraverso una teoria o precetti rigidi ma attraverso l'esempio della sua vita e delle sue parole nei Vangeli.
La dottrina etica cristiana trova il suo cuore nel "Discorso della montagna", in cui Gesù sintetizza l'intera "legge" in un duplice precetto: amare Dio con tutto il cuore, l'anima e la mente e amare il prossimo come se stessi. Questa prospettiva suggerisce che amare il prossimo sia un'emanazione dell'amore verso Dio, indicando la strada per una trasformazione radicale dell'essere umano. L'amore verso il prossimo, inteso come amore gratuito e senza riserve, imita il modo in cui Dio ama le sue creature. Gesù enuncia una formulazione normativa, la "regola aurea", che diventa il fondamento della giustizia cristiana tra gli uomini: "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro". Questa regola rappresenta la versione positiva di un precetto antico presente anche nella tradizione ebraica: "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te".
La Bibbia e la regola aurea
Nel libro del Deuteronomio, il quinto testo della Torah, possiamo trovare i discorsi pronunciati da Mosè al suo popolo poco prima della sua morte. In questi discorsi, egli esorta il popolo ad osservare scrupolosamente la legge divina. Dopo aver enunciato i comandamenti, emerge un richiamo all'importanza di seguirli nella vita quotidiana.
"[...] ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore. Amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza [...]"
(Deuteronomio, 6.4-5)
Nel libro del Levitico, terzo capitolo della Torah, si trovano insegnamenti e norme riguardanti i rituali e il comportamento da seguire. In questo testo si afferma invece:
"[...] non odiare in cuor tuo il tuo fratello [...]. Non vendicarti e non serbar rancore contro quelli del tuo popolo; anzi ama il prossimo tuo come te stesso [...]"
(Levitico, 19.18)
Il comandamento che dovrebbe essere esteso anche agli stranieri ospiti è il seguente: "Il forestiero dimorante tra di voi deve essere uguale a uno nato tra di voi; ed amerai lui come ami te stesso". Questo primo fondamentale precetto, ripetuto dagli ebrei nella loro preghiera quotidiana, richiama l'uomo a amare Dio con tutto se stesso, seguendo la legge racchiusa nei dieci comandamenti e nell'insegnamento della Torah.
Il secondo comando appare nel Levitico, inserito tra altri precetti morali che Dio ha dato agli uomini attraverso Mosè, affinché essi lo imitassero nella "santità". Esso sottolinea l'obbligo di desiderare per gli altri ciò che si desidera per sé. Questo precetto assume un ruolo fondamentale con il commento dei rabbini, gli interpreti della Torah, i quali forniscono indicazioni più precise su "la via della vita" per compiere la volontà di Dio.
Rabbi Akivà, guida del popolo ebraico dopo la distruzione del secondo Tempio (morto martire per mano dei romani nel 135 d.C.), definisce questo comando come uno dei precetti fondamentali della Torah. Prima di lui, secondo quanto riportato nel Talmud babilonese, un altro importante rabbino, Hillel (70 a.C. - 30 d.C. circa), fondatore di una scuola ad Alessandria d'Egitto, aveva presentato lo stesso precetto declinato in senso negativo come regola fondamentale e sintetica della legge mosaica. Il Talmud racconta che Hillel, rispondendo a un pagano desideroso di convertirsi all'ebraismo e che voleva conoscere la regola fondamentale nel minor tempo possibile (il tempo in cui avrebbe potuto star ritto su una gamba sola), aveva pronunciato tali parole.
"[...] non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va' e studia [...]"
(Talmud babilonese, Shabbath 31 a)
Si tratta di un concetto rilevante, su cui rifletteremo ancora: appare che, di fronte a un individuo non ebreo desideroso di comprendere l'insegnamento della Torah, Hillel gli indichi un principio di giustizia comprensibile e accettato da chiunque e basato sul rispetto per sé stessi e per gli altri. La Torah, secondo Hillel, sarebbe una riflessione su questo precetto, da studiare nelle sue molteplici implicazioni. Nel periodo di Hillel, c'era già stata una prima formulazione di questo principio nel libro di Tobia (4.15), scritto in greco tra il III e il II secolo a.C., molto conosciuto tra gli ebrei di Alessandria e successivamente tra i cristiani di origine ebraica. In questo testo, considerato "ispirato" dai cristiani e parte dell'Antico Testamento ma non incluso nel canone ebraico, il padre Tobit offre consigli al figlio Tobia su come comportarsi con gli altri per essere giusti ed equi negli scambi, tra cui l'importante affermazione: "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te". Forse Hillel, insegnando l'amore per gli altri nella sua scuola, faceva riferimento al libro di Tobia, il quale a sua volta rifletteva una massima di giustizia ampiamente diffusa nel senso comune, non solo nel mondo ebraico ma anche in altre culture come quella greca e cinese. In ogni caso, troviamo espressa in modo negativo la "regola aurea" del Levitico e sembra che successivamente sia diventato comune nell'ambito dell'ebraismo accostare questi due precetti come espressioni equivalenti.
I precetti dei cristiani
Nel Vangelo, quando i Farisei (secondo Matteo) e i dottori della legge (secondo Marco) interrogano Gesù sul "primo di tutti i comandamenti della Legge", la risposta di Gesù richiama letteralmente i due precetti della Torah presenti in Deuteronomio e Levitico: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente", definito come "il massimo e primo comandamento", e "Amerai il prossimo tuo come te stesso", considerato il secondo per importanza (Matteo 22:36-40, Marco 12:28-34). Questi due comandamenti sono indicati come quelli dai quali dipendono "tutta la legge e i Profeti", conferendo quindi significato agli altri precetti della Torah e dei libri ispirati dai Profeti.
Nella versione di Luca che è particolarmente vicina a Paolo di Tarso, un dottore della legge risponde nello stesso modo quando interrogato da Gesù su come conquistare la vita eterna. Gesù, attraverso la parabola del buon samaritano, spiega chi sia il "prossimo" da amare: chiunque si trovi nel bisogno e nella sofferenza, senza fare distinzioni. Questa sembra essere un'estensione del significato originario del precetto nell'ambito dell'ebraismo.
Nel "Discorso della montagna", rivolgendosi agli ebrei, Gesù afferma di non essere venuto per abolire la legge mosaica ma per completarla, illuminando il vero significato dei comandamenti. Aggiunge ulteriori precetti riguardanti tematiche come la ricchezza, la vanità, la preghiera, la gestione dei beni terreni e la proibizione di giudicare gli altri. In questo modo, corregge e integra la precettistica ebraica, ponendola nella prospettiva dell'amore divino e dell'avvento del regno dei cieli, annunciato da lui stesso come nuovo orizzonte di senso per coloro che scelgono di seguirlo.
"[...] avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da' a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti [...]"
(Vangelo di Matteo 5.38-45)
Annullando la "legge del taglione" e sottolineando il dovere di praticare l'amore anche verso i nemici, di offrire l'altra guancia e di condividere con chi è nel bisogno senza aspettarsi nulla in cambio, Gesù fornisce la chiave interpretativa per comprendere la legge mosaica e le profezie. Il nucleo del suo insegnamento si concentra sui valori della carità e dell'affetto verso gli altri. Per essere considerati perfetti, come lo è il Padre celeste e per essere giusti, Gesù sottolinea che non è sufficiente amare solo coloro che ci sono vicini ma è essenziale estendere l'amore anche ai nemici. Non basta amare solo chi ci dimostra affetto ma è importante amare anche coloro che ci causano danno. Per essere veri figli del Padre divino che fa sorgere il suo sole sia sopra i malvagi che sopra i buoni e fa piovere sia sui giusti che sugli ingiusti, è necessario amare tutti indiscriminatamente.
La strada dell'amore integrale e l'obbligo del perdono rappresentano aspetti distintivi nell'insegnamento di Gesù, evidenziando un'apparente deviazione dalla matrice originaria ebraica. La mentalità ebraica sembra orientata più verso l'instaurazione di un equilibrio terreno basato sulla giustizia piuttosto che sull'adesione a un amore totale e indiscriminato, dove la giustizia tra gli uomini assume maggiore rilevanza rispetto all'amore indifferenziato. Questa inclinazione è legata all'interpretazione appropriata della "legge del taglione". È importante precisare che il detto "occhio per occhio, dente per dente" non promuove vendette gratuite ma sottolinea la necessità di riparare con giustizia chi ha subito un torto, risarcendo i danni in modo proporzionato.
Nell'ebraismo, la giustizia congiunta all'amore per il prossimo sembra prevalere sull'amore generalizzato, configurando l'ebraismo più come un modo di vita etico nella realtà sociale che come una religione nel senso teologico del termine. L'insegnamento di Gesù si focalizza sulla formula positiva della regola aurea: "Tutto quanto, dunque, desiderate che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro, poiché questa è la Legge e i Profeti" (Matteo 7.12). Tale regola va oltre i limiti di una giustizia umana basata sull'uguaglianza e sulla reciprocità, esortando a un amore gratuito simile a quello che Dio ha manifestato per l'umanità.
Ogni cristiano è chiamato a praticare l'amore, poiché ogni gesto d'amore verso il prossimo si configura come un gesto d'amore verso Dio mentre ogni omissione d'amore equivale a una negazione di Dio, punita con l'inferno, come rivela Gesù nel contesto del giudizio finale. L'amore di Dio è un tema centrale nella predicazione di Paolo di Tarso, nei Vangeli e nella Prima lettera di Giovanni. Paolo definisce il "Dio dell'amore", sottolineando che Dio ha amato il mondo al punto da sacrificare il suo Figlio unigenito affinché chiunque creda in lui abbia la vita eterna. Gli uomini sono chiamati ad amare Dio con tutto se stessi e ad estendere questo amore alle sue creature.
La Prima lettera di Giovanni sottolinea che:
"[...] in questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi [...]. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. [...] Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello [...]"
(Prima lettera di Giovanni, 4.9-21)
Paolo scrive, da parte sua:
"[...] i comandamenti: «Non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non desiderare», e tutti gli altri, si compendiano in queste parole: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». L'amore non fa del male al prossimo. Il compimento della legge è dunque l'amore [...]"
(Lettera ai Romani, 13.8-10)
Per comprendere come il messaggio di Gesù potesse essere interpretato all'interno delle comunità di ebrei cristiani, possiamo esaminare la Didachè, un'antica raccolta di precetti risalente alla seconda metà del I secolo d.C., conosciuta anche come l'Insegnamento dei dodici Apostoli. Inizialmente attribuita ai dodici Apostoli, questa è in realtà una specie di manuale che include vari testi, tra cui una reinterpretazione in chiave cristiana di una fonte ebraica antica che tratta delle "due vie": quella della vita e quella della morte, quella che conduce a Dio e quella che porta al male.
Si legge, all'inizio:
"[...] ora la via della vita è questa: anzitutto amerai Dio che ti ha creato; in secondo luogo, il prossimo tuo come te stesso, tutto quello poi che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli altri [...]"
(Didachè, cap. 1, §§ 1-2)
L'insegnamento che emerge da queste fonti trova la sua manifestazione in due serie di precetti. La prima serie richiama strettamente le massime enunciate nel "Discorso della montagna" nel Vangelo di Matteo, suggerendo che la sua fonte possa essere una raccolta di detti di Gesù. La seconda serie consiste in precetti di origine ebraica, suggerendo che la fonte potrebbe essere l'antico trattato sulle due vie.
La prima serie enfatizza la benedizione verso chi ci maledice, la preghiera per i nemici, il digiuno per chi ci perseguita, l'amore per coloro che ci odiano, l'offrire l'altra guancia e dare ciò che si ha a chiunque chieda. La seconda serie esprime la regola aurea in forma negativa, indicando ciò che si deve fare per evitare peccati che potrebbero allontanare dalla "via della vita". Coincide con i comandamenti della Scrittura che vietano comportamenti lesivi verso gli altri, aggiungendo l'obbligo di non odiare nessuno e di intervenire positivamente con chi agisce male attraverso correzione, preghiera o amore.
La Didachè, considerata fonte importante per molti Padri della Chiesa, trasmette in modo sintetico i precetti morali che un ebreo convertito al cristianesimo dovrebbe seguire per amare Dio e gli altri, evitando il peccato e ricordando ciò che Dio vuole da lui.
Sembra che, nelle prime comunità cristiane, la formula positiva della regola aurea, indicata nel Levitico, sottolineasse l'obbligo di prendersi cura di chi è prossimo nella vita e all'interno della stessa comunità. La formula negativa, invece, racchiudeva il vincolo della giustizia e del rispetto per gli altri, come richiesto per sé stessi. Gesù sembra aver ripreso e sviluppato tali indicazioni, facendo dell'amore il fondamento della relazione con Dio e il precetto principale per i cristiani, nell'ottica escatologica della conquista del regno di Dio. Nel mondo cristiano, la regola aurea nella sua versione negativa si afferma rapidamente, rappresentando i comandi della "legge naturale", con la convinzione che la ragione dovrebbe guidare gli uomini a agire bene anche senza il bisogno di una legge esterna.
Nel contesto della tradizione ebraica che ha mantenuto la sua fedeltà alla legge mosaica, il pensiero innovativo del rabbino Hillel costituisce un punto di riflessione cruciale. Quando un pagano, in modo provocatorio, chiede di spiegare l'intera Torah (ossia l'ebraismo) mentre riesce a stare in piedi su una gamba sola (o, più realisticamente, ad adottare un solo precetto), Hillel risponde in modo memorabile: "Quello che è per te spiacevole, non farlo al tuo prossimo. Tutto il resto è solo un commento: vai e studia." Come possiamo interpretare questa risposta? In che modo il cuore dell'ebraismo è racchiuso in questa breve affermazione? La seconda parte della risposta di Hillel è altrettanto significativa della prima. Se l'invito a evitare il male verso gli altri rappresenta il contenuto morale nell'ambito della tradizione ebraica, che anche Gesù ha riaffermato, la successiva constatazione e indicazione evidenziano un aspetto che ha caratterizzato l'ebraismo nel corso del tempo: il commento e lo studio della Torah. Commento e studio non sono inferiori all'azione positiva verso gli altri, né superiori: sono semplicemente complementari, entrambi necessari. Insieme esprimono l'amore verso il prossimo. Insieme, poiché nelle azioni umane, guidate dalla ragione, è essenziale la consapevolezza: senza consapevolezza, non c'è coscienza. La consapevolezza include anche la conoscenza e l'approfondimento dei commenti che nella pratica talmudica dello studio di gruppo assumono un ruolo centrale, dando vita a discussioni, domande e risposte con soluzioni non univoche. La via da seguire e l'atteggiamento corretto verranno poi definiti dai rabbini sulla base di considerazioni razionali e pratiche, dando origine alla Halakhàh, la Torah orale. Forse Hillel intende proprio questo: inizia con l'evitare ciò che per te è negativo, una regola razionale comprensibile e condivisibile per ogni essere umano ma poi dedica tempo allo studio dei commenti per comprendere appieno e agire verso gli altri con consapevolezza e responsabilità. L'amore per il prossimo, incarnato nell'azione positiva e nello studio con scopi etici, dà voce alla ricerca di santità che Dio espressamente richiede al popolo ebraico. Questa ricerca potrebbe essere la pratica pratica del comandamento fondamentale dell'ebraismo: l'amore totale di Dio, posto al centro della preghiera principale, lo Shemà Israel ("Ascolta, o Israele").
La legge naturale
La questione del rapporto tra l'insegnamento di Gesù e la legge mosaica fu oggetto di dibattito all'interno delle prime comunità cristiane, fondate da seguaci ebrei che si attenevano ai precetti della Bibbia. Nella comunità iniziale di Gerusalemme, vi era una coesistenza tra giudei ellenizzati e quelli che seguivano le tradizioni ebraiche, almeno finché i primi non furono allontanati dagli ebrei ortodossi. È probabile che siano stati i giudei ellenizzati a dare inizio alla prima predicazione, creando comunità al di fuori della Palestina e venendo in contatto con i pagani. Tuttavia, i veri conflitti emersero quando nelle comunità furono accolti i primi pagani, senza imporre loro la circoncisione o la conversione all'ebraismo.
Saul, noto anche come Paolo dopo la sua romanizzazione, un ebreo fariseo di lingua greca convertitosi al cristianesimo, giocò un ruolo chiave nel cambiamento di prospettiva. Egli iniziò a predicare ai pagani, sostenendo che la salvezza dipendesse esclusivamente dalla fede in Cristo e dall'osservanza della regola d'amore da lui indicata. Questa visione abbandonava l'obbligo di seguire rigorosamente i precetti e i rituali degli ebrei.
Paolo di Tarso sostiene che il cristiano non è tenuto a seguire la giustizia derivante dall'obbedienza alla legge mosaica ma piuttosto quella ottenuta mediante la fede in Cristo, una giustizia proveniente da Dio e fondata sulla fede stessa. La legge mosaica aveva posto gli ebrei sotto la sua guida, in attesa della rivelazione della fede; tuttavia, una volta che la fede è giunta, non si è più sotto il vincolo della legge pedagogica. In questo contesto, non esistono più distinzioni tra giudei e greci, uomini e donne, schiavi e liberi, poiché tutti sono una sola persona in Gesù Cristo.
Secondo Paolo, la legge della fede libera il cristiano dall'osservanza dei riti ebraici. Egli dichiara di essere morto alla legge per poter vivere per Dio, essendo stato crocifisso con Cristo. Se la giustizia fosse ottenuta mediante la legge mosaica, allora la morte di Cristo sarebbe stata inutile. La "legge nuova" è dunque la legge della fede, che si sintetizza nell'unico comandamento dell'amore per il prossimo.
Nella Lettera ai Romani, Paolo affronta anche il concetto di "legge naturale". Egli parla dei "gentili" che, non avendo la legge mosaica, compiono naturalmente le sue prescrizioni, mostrando così di essere "legge a se stessi". La loro coscienza testimonia che l'opera della legge è scritta nei loro cuori, guidando la loro ragione su ciò che è bene e male. Questa legge morale, presente anche nei gentili, contiene gli stessi principi fondamentali della legge mosaica conferita agli ebrei quando Dio stabilì l'alleanza con loro.
Dinanzi a Dio, Paolo equipara gli ebrei, ossia coloro che sono circoncisi e osservano la legge di Mose, ritenendosi eletti da Dio, ai pagani che seguono la legge naturale; infatti:
"[...] la circoncisione è utile, sì, se osservi la legge; ma se trasgredisci la legge, con la tua circoncisione sei come uno non circonciso. Se dunque chi non è circonciso osserva le prescrizioni della legge, la sua non circoncisione non gli verrà forse contata come circoncisione? [...] Infatti, Giudeo non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio [...]"
(Lettera ai Romani, 2.25-29)
La condizione di essere ebrei nei costumi non ha rilevanza, a meno che non sia riflesso nel cuore. Anzi, potrebbe aggravare la situazione agli occhi di Dio, poiché la circoncisione senza l'osservanza della legge del Signore (il vantaggio che gli ebrei hanno acquisito sui pagani) può essere considerata una sorta di tradimento. In ogni caso, Paolo sottolinea che tutto è cambiato ora, poiché la giustizia di Dio si è manifestata indipendentemente dalla legge, attraverso la fede in Gesù Cristo. Ciò che conta è l'adesione totale a Dio: l'uomo è giustificato per fede grazie al sacrificio di Cristo e alla grazia di Dio, non per le opere svolte in osservanza della legge mosaica. L'idea che la "legge naturale" donata da Dio sia inscritta originariamente nel cuore dell'uomo è diffusa, specialmente tra gli ebrei cristiani di lingua greca, reinterpretando una teoria stoica ben conosciuta. Per gli stoici, la legge della natura coincide con il "vivere secondo natura", ovvero seguire la "retta ragione" e conformarsi all'ordine divino del mondo. Nel contesto cristiano, la legge naturale rappresenta la norma originariamente donata da Dio all'uomo per orientarlo verso il bene che ha perso la sua efficacia dopo il peccato originale. Pertanto, rimane viva la coscienza, ma gli individui compiono comunque il male.
La teoria menzionata è ampiamente diffusa tra i Padri della Chiesa, molti dei quali seguono l'approccio delineato da Filone di Alessandria, il principale rappresentante dell'ebraismo colto di lingua greca. Secondo questa prospettiva, la legge naturale ha guidato i Patriarchi a vivere in conformità con la giustizia prima che Dio consegnasse a Mosè la sua legge scritta.
In questa visione valorizzante della legge naturale, alcuni dei Padri della Chiesa, tra cui Giustino, Ireneo di Lione, Clemente di Alessandria, Origene, Gregorio di Nissa e Giovanni Crisostomo, seguono la convinzione che coloro che hanno vissuto secondo il "lògos" - la ragione che coinvolge tutta l'umanità - siano considerati pienamente cristiani. Ad esempio, Giustino sostiene che persone come Socrate, Eraclito e Abramo, vivendo in armonia con il lògos, possono essere considerate cristiane anche se sono vissute prima di Cristo, la personificazione stessa del lògos divino.
Nei Padri della Chiesa si sostiene che i precetti della legge naturale siano impressi da Dio nel cuore degli uomini fin dall'inizio, per poi essere richiamati nella forma del decalogo biblico. Questo supporta l'idea, presente nella Lettera ai Romani di Paolo che le due leggi (naturale e mosaica) siano state date da Dio in tempi diversi prima dell'avvento della legge della nuova alleanza tramite Cristo.
Origene, ad esempio, sostiene che gli uomini, attraverso la piena capacità razionale, manifestino l'immagine di Dio in loro e possano comprendere i principi morali. La regola aurea, nella sua formula negativa, viene considerata espressione sintetica sia della legge naturale sia dei comandamenti della legge mosaica, volti a stabilire relazioni giuste ed equilibrate tra gli uomini.
Tuttavia, è importante sottolineare che la fede in Cristo è vista come l'illuminazione del significato dell'azione morale e il sostegno pratico per seguirne i precetti. Questa interpretazione, iniziata con Paolo e continuata dai Padri della Chiesa, trova riscontro anche in Agostino di Ippona che spesso segue da vicino Paolo di Tarso. Agostino enfatizza la presenza, nel cuore di tutti gli uomini, del principio di giustizia naturale scolpito da Dio, noto come "ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri". Questo principio, secondo Agostino, è innato in ogni individuo e genera la consapevolezza della propria ingiustizia in chi non lo rispetta, anche prima della legge mosaica.
Negli scritti di Agostino emergono interessanti riflessioni sulla successione delle leggi nel corso del tempo che richiamano quanto Paolo di Tarso esprime nella sua Lettera ai Romani. Secondo Agostino, al momento della creazione, Dio ha impresso nei cuori degli uomini i principi della legge naturale. Questa rappresenta un'irradiazione della "legge eterna", ossia la ragione divina o la volontà di Dio che ordina di mantenere l'ordine naturale e proibisce di disturbarlo.
Tuttavia, a seguito del peccato di Adamo, gli uomini sono diventati estranei a se stessi, dimenticando la legge naturale e smarrendo la loro bussola interiore. Di conseguenza, Dio ha ritenuto necessario dare al popolo eletto, gli ebrei, una nuova legge, questa volta scolpita sulla pietra, solida e resistente. Questo atto aveva lo scopo di insegnare nuovamente ciò che gli uomini non erano più in grado di trovare dentro di sé. La legge mosaica, secondo Agostino, ribadisce ciò che ogni individuo potrebbe comprendere seguendo la propria coscienza.
Nonostante ciò, se gli ebrei hanno seguito la legge solo esteriormente, tornando a vivere nel peccato, Agostino conclude che la debolezza della natura umana è irrimediabile. Perciò, Dio ha sacrificato suo figlio per stabilire una nuova alleanza, annunciando il regno dei cieli. La fede nel redentore, insegnata anche da Paolo di Tarso, libera i cristiani dal dominio del peccato, poiché non sono più "sotto la legge, ma sotto la grazia", in attesa di vivere in pace nel regno di Dio.
A questo punto, l'essere umano si trova completamente nelle mani di Dio. Sebbene al cristiano spetti il dovere di vivere nella fede e nell'amore, solo Dio può concedere la grazia secondo la sua misericordia e destinarlo alla salvezza. La grazia è l'unico mezzo in grado di correggere la natura umana, altrimenti destinata al peccato e alla dannazione, nonostante le azioni compiute o le leggi seguite. Agostino, contrastando i seguaci del monaco Pelagio che sostenevano la capacità dell'uomo di salvarsi con le proprie forze, sottolinea così il ruolo cruciale della grazia. Tale schema di pensiero avrà notevole successo e una lunga storia nel Medioevo, rimanendo costantemente un punto di riferimento per la tradizione cristiana.
In conclusione
Un detto antico recita: "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te", una massima di giustizia che ha radici nel senso comune di molte popolazioni del passato. Questo principio è stato ripreso nel Libro di Tobia e valorizzato in una delle tradizioni rabbiniche ebraiche, in particolare quella di Hillel. Nel corso del tempo, si è trasformato nel principio fondamentale della legge naturale, ritenuta conoscibile da tutti gli uomini e accettata anche dalla cultura cristiana.
L'idea che la legge naturale, resa chiara dal nuovo insegnamento di Cristo, sia la guida dell'umanità verso la salvezza è stata elaborata durante il Medioevo, assumendo un significato etico-giuridico. Questo concetto è stato codificato nella prima raccolta di diritto canonico, La concordia dei canoni discordanti (1140) del giurista Graziano, noto universalmente come Decretum Gratiani. Nell'apertura di quest'opera si afferma che:
"[...] il diritto naturale (jus naturale) è ciò che è contenuto nella Legge e nel Vangelo, in forza del quale viene comandato di fare agli altri quello che si vuole che gli altri facciano a noi e viene vietato di fare agli altri ciò che non si vuole che gli altri facciano a noi. [...]"
Graziano, collegando le norme del diritto naturale al Decalogo biblico, al Vangelo e, in modo conciso, alle due formulazioni della regola aurea, le posiziona come fondamento delle leggi civili e consuetudinarie che regolano la convivenza tra gli individui. Un collegamento particolarmente rilevante tra la legge naturale e la regola aurea si evidenzia in un importante scritto del XII secolo, il Policratico di Giovanni di Salisbury, un maestro inglese contemporaneo di Graziano che ne espande le implicazioni politiche. Giovanni di Salisbury enfatizza come persino i governanti siano soggetti alla legge eterna di Dio, una legge basata sull'equità e contenente precetti validi per tutti i popoli. Utilizzando la tradizionale suddivisione temporale di matrice paolina-agostiniana che distingue tra eventi precedenti alla legge mosaica, quelli sotto la legge mosaica e quelli successivi all'avvento di Cristo portatore della legge della grazia, il maestro inglese afferma:
"[...] vi sono alcuni precetti della legge che hanno una necessità perpetua, che sono validi presso ogni popolo e che non possono in nessun modo essere trasgrediti impunemente. Prima della legge, sotto la legge e nella Nuova Alleanza, un solo precetto lega tutti quanti: «Non fare quel che non vuoi sia fatto a te; fai quel che vuoi ti sia fatto». Ed ora si facciano pure avanti gli adulatori dei potenti, sussurrando o – se sembra loro troppo poco – proclamando pubblicamente che il principe non è soggetto alla legge e che quanto gli piace, non solo nel legiferare secondo il modello dell'equità, ma in qualunque maniera, ha vigore di legge; se vogliono ed osano, facciano pure di quel re che sciolgono dai vincoli della legge un fuorilegge: io, nonostante la loro posizione e di fronte al mondo intero, ribadisco che i re sono vincolati a questa legge [...]"
(Policratico, libro IV, cap. 7)
Le due formulazioni della regola aurea, presenti nel Libro di Tobia e nel Vangelo di Matteo, sono considerate da Giovanni di Salisbury come due modi distinti di esprimere lo stesso concetto. Questo precetto dovrebbe guidare la vita degli individui e influenzare le azioni dei principi. Secondo Giovanni di Salisbury, il principe che non agisce come "ministro della pubblica utilità e servo dell'equità" si trasforma in un tiranno. In tal caso, a meno che Dio non intervenga per liberare il popolo dalle sue azioni, il tiranno può essere giustamente ucciso.
La regola aurea, nelle sue diverse formulazioni, continuerà a influenzare i doveri degli uomini nei secoli successivi, fino all'età moderna. Si intreccia con altre fonti romane, ereditate dalla cultura greca, come i principi di giustizia di Cicerone: "non fare male a nessuno", "usare le cose comuni come comuni e quelle private come private", "rispettare i patti". Questi principi definiscono la giustizia come "disposizione abituale, conservata nell'interesse comune, ad attribuire a ognuno la sua dignità", riflettendo la propria posizione sociale.
Inoltre, il diritto codificato nel Corpus iuris di Giustiniano contribuisce ai concetti chiave della giustizia e del "diritto naturale" enunciati da Ulpiano. Secondo Ulpiano, "La giustizia consiste nella volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto. Le regole del diritto naturale sono queste: vivere onestamente, non danneggiare gli altri, attribuire a ciascuno il suo", come affermato nel Digesto:
"[...] Giustizia è costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo. I precetti del diritto sono questi: vivere onestamente, non danneggiare l'altro, attribuire a ciascuno il suo [...]"
(Digesto, 1,1,10)
La regola aurea manterrà la sua rilevanza anche quando la cultura si distanzierà dalla prospettiva cristiana. In questo scenario, l'amore di sé, la ricerca del piacere e della felicità e la fuga dal dolore saranno riconosciuti come principi fondamentali dell'azione umana. La società sarà concepita come un insieme di individui uniti principalmente, se non esclusivamente, dalla ricerca dell'utile privato. A questo punto, le libertà e i diritti dell'individuo saranno considerati i principali valori da preservare, sia a causa della naturale conflittualità che minaccia gli uomini, sia a causa dell'arbitrio del potere assoluto dei sovrani.
È significativo notare che filosofi come Thomas Hobbes (1588-1679), pur non ritenendo possibile fondare i rapporti tra gli uomini sul rispetto della legge naturale intesa come adesione razionale all'ordine del mondo voluto da Dio, indicano comunque nella "legge del Vangelo" ("qualunque cosa tu pretenda che gli altri facciano a te, falla tu per loro") e nella "legge di tutti gli uomini" ("non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te") i precetti fondamentali che la ragione impone agli uomini per vivere in pace, rinunciando al diritto naturale di farsi del male.
Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori