Francis Hutcheson - Il calcolo della virtuosità delle azioni
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione
Introduzione
Hutcheson sviluppa la sua visione della natura umana fondandola sulle inclinazioni benevole e sull'innato senso morale. Oltre all'istinto di autoconservazione, egli postula che ogni individuo è dotato di una predisposizione alla benevolenza universale, che lo motiva ad agire altruisticamente per il benessere altrui. Solo le azioni mosse da tale benevolenza ricevono l'approvazione del senso morale, un'attitudine mentale intrinseca a ogni essere umano. Hutcheson inoltre propone una scala di virtù basata su certi criteri quantitativi. Nei passaggi selezionati dall'ultima edizione del secondo libro dell'indagine sulla provenienza delle nostre idee di bellezza e virtù (1738), si sofferma innanzitutto sulla manifestazione del senso morale in noi e nei nostri giudizi. In seguito, illustra il metodo per valutare il grado di virtù o di vizio di un'azione: «la virtù si misura in base alla quantità di bene prodotto e al numero dei beneficiari», il che implica che il grado di virtuosità di un'azione è determinato dalla quantità di bene moltiplicata per il numero di individui che ne traggono vantaggio; pertanto, «l'azione più virtuosa è quella che genera la massima felicità per il maggior numero di persone, mentre la più nefasta è quella che, allo stesso modo, causa infelicità».
Lettura
Se esaminiamo tutte le azioni che sono dovunque reputate amabili, e investighiamo intorno ai motivi per cui sono approvate, troveremo che, nelle opinioni delle persone che le approvano, esse appaiono generalmente come benevole, ossia derivanti da benevolenza per gli altri e sollecitudine della loro felicità, indipendentemente dal fatto che colui che le approva sia, o no, una delle persone amate o avvantaggiate. Cosicché tutte quelle affezioni premurose, che ci spingono a rendere gli altri felici, e tutte le azioni ritenute derivate da queste affezioni, appaiono moralmente buone se, mentre sono benevole verso certe persone, non sono nocive per altre.
Né troveremo qualcosa di amabile in alcuna azione in cui non venga supposta alcuna benevolenza; né in alcuna disposizione o capacità che non si ritenga applicabile e finalizzata a scopi benevoli. Anzi, come è stato osservato sopra, delle azioni, che sono in realtà estremamente utili, appariranno scevre di bellezza morale se sappiamo che non avevano all'origine alcuna intenzione premurosa verso gli altri; e, invece, un tentativo sfortunato di premura verso gli altri, o di promozione del bene pubblico, se scaturito da una forte benevolenza, apparirà altrettanto amabile del più riuscito. [...]
Ma lasciamo le dispute dei dotti, sui quali, si può presumere, l'abitudine e l'istruzione hanno una poderosa influenza, e consideriamo in base a quali motivi, nella vita comune, le azioni sono approvate o condannate, vendicate o perdonate. Ci vergogniamo universalmente di dire che un'azione è giusta poiché tende al nostro vantaggio, o al vantaggio di chi la compie; e altrettanto raramente condanniamo un'azione benefica e premurosa perché non è vantaggiosa per noi o per chi la compie.
Biasimo e censura sono fondati sull'avere come conseguenza il male pubblico, su un principio di malvagità personale dell'agente o almeno sul disprezzo del bene degli altri, sulla disumanità dell'indole o almeno su un egoismo così forte da rendere l'agente insensibile alle sofferenze altrui. Cosi biasimiamo e censuriamo anche quando l'azione non ci tocca.
Tutte le difese, commoventi e persuasive, di azioni che possono apparire malvagie per qualche conseguenza parzialmente cattiva, fanno appello al fatto che queste azioni sono necessarie per qualche bene maggiore che compensa il male; ad esempio: «la severità verso pochi è compassione per i molti; punizioni temporanee sono necessarie per evitare mali più durevoli; se qualcuno non soffrisse in questi casi, l'uomo onesto non potrebbe sopravvivere» e così via. E anche quando un'azione non può essere completamente giustificata, nondimeno quanto grandemente è attenuata la colpa, se possiamo asserire «che è stato solo l'effetto di una disattenzione senza malvagità o della parzialità di un'indole buona, di amicizia, compassione, affetto naturale o amore per un partito»!
Tutte queste considerazioni mostrano quale sia il fondamento universale del nostro senso del bene o male morale, vale a dire la benevolenza verso gli altri, da una parte, e la malvagità, o anche l'inerzia e l'indifferenza, per il manifesto male pubblico, dall'altra. Si faccia attenzione, a questo punto, come siamo così lontani dall'immaginare che tutti gli uomini agiscano solo per amore di sé, che ci aspettiamo universalmente che gli altri abbiano riguardo per la collettività; e ne consideriamo la mancanza come positivamente cattiva, e odiosa, non solo come una mera assenza di bene morale, o virtù. [...]
Le azioni che derivano unicamente dall'amore di sé e che nondimeno, non avendo effetti dannosi sugli altri, non mostrano alcuna mancanza di benevolenza, sembrano di natura intermedia, né virtuosa, né viziosa, e neppure suscitano amore o odio nell'osservatore.
La nostra ragione può scoprire in verità certi limiti all'interno dei quali si può agire per amore di sé, senza pregiudicare il bene del tutto; anzi, che ogni mortale agisca così all'interno di questi limiti per il proprio bene, è assolutamente necessario per il bene del tutto, e la mancanza di questo amore di sé sarebbe universalmente nociva. Quindi, chi persegue il proprio bene privato con l'intenzione di contribuire anche a quell'assetto che tende al bene del tutto, e, molto di più, chi fa valere il proprio bene con la diretta prospettiva di rendersi più capace di servire Dio, o di fare il bene dell'umanità, agisce in maniera non solo innocente ma anche onorevole e virtuosa. Infatti, in entrambi i casi la benevolenza concorre con l'amore di sé a spingere costui all'azione. Perciò il disprezzo del proprio bene può essere moralmente cattivo e dimostrare una mancanza di benevolenza verso il tutto.
Ma quando l'amore di sé rompe gli argini sopra menzionati e ci porta a compiere azioni nocive agli altri e al tutto, o ci rende insensibili alle affezioni generose e premurose, allora risulta vizioso e viene disapprovato. Lo stesso si ha anche quando, in seguito a piccoli torti o a repentino rancore o a certe inconsistenti suggestioni superstiziose, la nostra benevolenza diviene così vaga da farci accogliere – senza un giusto fondamento – certe odiose concezioni degli uomini, o di una parte di essi, come integralmente cattivi o malvagi, o come una sorta di esseri peggiori di quanto realmente non siano. Queste concezioni ci portano necessariamente ad avere sentimenti malevoli, o almeno a indebolire quelli buoni, e a renderci realmente viziosi. [...]
Nel paragonare le qualità morali delle azioni al fine di fissare una regola per la scelta fra varie azioni proposte, o di trovare quale di esse abbia l'eccellenza morale maggiore, siamo portati dal nostro senso morale della virtù a valutare che, a parità di gradi di felicità che ci attendiamo derivi dall'azione, la virtù sia proporzionale al numero delle persone a cui deve estendersi la felicità. E qui la dignità, o importanza morale delle persone, può compensare i numeri; e, a parità di numeri, la virtù è proporzionale alla quantità della felicità, o bene naturale; in altri termini, la virtù è in ragione composta della quantità di bene e del numero di chi ne gode. Parimenti il male morale, o vizio, è proporzionale al grado di infelicità e al numero di chi ne soffre; cosicché l'azione migliore è quella che realizza la massima felicità per il massimo numero, e la peggiore è quella che, nella stessa maniera, produce infelicità. [...]
Da queste osservazioni possiamo vedere quali azioni il senso morale raccomanda massimamente alla nostra scelta come le più perfettamente virtuose, ossia come quelle che appaiono tendere in modo più universale e illimitato alla massima e più estesa felicità di tutti gli agenti razionali, a cui possa giungere la nostra influenza. Ogni beneficio, anche verso una parte, è amabile quando non è incompatibile col bene del tutto; ma rappresenta un grado di virtù minore, a meno che il nostro beneficio sia limitato non già dalla mancanza d'amore per il tutto ma dalla mancanza di potere. Ogni attaccamento esclusivo a partiti, sette o fazioni non ha che una specie imperfetta di bellezza, anche quando sia il bene del tutto a richiedere un attaccamento più forte a una parte, come negli affetti naturali, o nelle amicizie virtuose, eccetto quando certe parti sono così eminentemente utili al tutto che anche la benevolenza universale ci spinge a preoccuparci con cura e affetto speciale dei loro interessi. Così, la benevolenza universale ci inclinerebbe a una più forte preoccupazione per gli interessi dei personaggi grandi e generosi in un'alta posizione sociale, o ci renderebbe più fervidamente solleciti degli interessi di un'associazione generosa, la cui costituzione fosse costruita per promuovere il bene universale.
Guida alla lettura
1) Quali sono le azioni approvate dagli uomini?
Nel testo fornito, le azioni approvate dagli uomini sono quelle che derivano dall'amore di sé ma che rimangono entro limiti che non pregiudicano il bene del tutto. Tali azioni, anche se mosse dall'interesse personale, non sono dannose per gli altri e non mostrano una mancanza di benevolenza. Esse sono considerate di natura intermedia, né virtuose né viziosi, e non suscitano né amore né odio negli osservatori.
Inoltre, le azioni che non solo perseguitano il proprio bene ma sono eseguite con l'intenzione di contribuire al bene del tutto o di aumentare la propria capacità di servire Dio o di fare il bene dell'umanità, sono viste come non solo innocenti ma onorevoli e virtuose. Questo perché, in questi casi, la benevolenza si unisce all'amore di sé per spingere all'azione, dimostrando un'alta moralità e una preoccupazione per il bene comune.
2) Quando le azioni determinate soltanto dall'amore di sé non devono essere ritenute moralmente cattive?
Le azioni determinate dall'amore di sé non devono essere ritenute moralmente cattive quando non hanno effetti dannosi sugli altri e non mostrano alcuna mancanza di benevolenza. Nel testo viene specificato che queste azioni sono di natura intermedia, né virtuose né viziosi, e non suscitano amore o odio nell'osservatore. Inoltre, se l'azione persegue il bene privato con l'intenzione di contribuire anche al bene del tutto, essa è considerata non solo innocente, ma anche onorevole e virtuosa. La ragione è che in tali casi l'amore di sé agisce in modo tale da non pregiudicare il bene collettivo e può persino essere necessario per il benessere della collettività.
3) Quali criteri bisogna tenere in considerazione per valutare quale sia l'azione migliore da compiere?
Nel testo fornito, viene delineato un criterio morale per valutare le azioni basato principalmente sul loro impatto sulla felicità e sul benessere generale. Secondo questo criterio, l'azione migliore è quella che produce la massima felicità per il numero maggiore di persone. Inoltre, si considera la qualità della felicità o del bene che l'azione può generare, oltre al numero di persone che ne beneficeranno.
Il testo specifica che:
Estensione della felicità: la virtù di un'azione è proporzionale al numero di persone che ne beneficiano. Quindi, più persone sono felici a causa di un'azione, più quell'azione è considerata virtuosa.
Importanza delle persone coinvolte: la dignità o importanza morale delle persone coinvolte può compensare il numero; ciò implica che azioni che influenzano persone di grande importanza morale possono essere considerate più virtuose anche se il numero di persone direttamente interessate è minore.
Grado di felicità prodotta: la virtù è anche proporzionale alla quantità di felicità o bene che l'azione produce. Ciò significa che un'azione che genera un grande bene è più virtuosa rispetto a una che produce un beneficio minore.
Equilibrio tra bene privato e bene collettivo: un'azione che promuove il bene privato di qualcuno senza pregiudicare il bene collettivo è considerata non solo innocente ma anche virtuosa, specialmente se l'individuo cerca di contribuire al bene generale con il proprio agire.
Conseguenze negative: un'azione diventa moralmente negativa o viziosa se provoca infelicità o danni, specialmente se colpisce molte persone o se il danno è grave.
Questo approccio riflette la filosofia utilitarista, che sostiene che la moralità delle azioni è determinata dalle loro conseguenze, e in particolare dalla loro capacità di produrre la maggior felicità possibile. In questo contesto, l'amore di sé e la benevolenza non sono considerati contraddittori, purché l'amore di sé operi entro limiti che non danneggino gli altri e contribuiscano al bene comune.
Guida alla Comprensione
1) Perché gli uomini si vergognano, secondo Hutcheson, di definire giuste quelle azioni che sono solo vantaggiose per chi le compie?
Secondo il testo di Hutcheson che hai fornito, gli uomini si vergognano di definire giuste quelle azioni che sono solo vantaggiose per chi le compie, perché queste azioni non includono un'appropriata considerazione del bene degli altri o del bene comune. Hutcheson sottolinea che il fondamento universale del nostro senso del bene o del male morale si basa sulla benevolenza verso gli altri, e sulla percezione della malvagità o dell'inerzia per il manifesto male pubblico.
Le azioni puramente motivate dall'amore di sé, anche se non danneggiano direttamente gli altri, sono considerate di natura intermedia; non sono né virtuose né viziosi, e quindi non suscitano amore o odio nell'osservatore. Questo perché mancano di una componente essenziale: la benevolenza o la considerazione per il bene degli altri. Gli uomini si vergognano di chiamare giuste queste azioni autointeressate perché riconoscono che, per essere considerate tali, un'azione dovrebbe contribuire al bene più ampio della società o almeno non ignorare gli interessi altrui.
Hutcheson argomenta anche che è moralmente negativo e dimostra una mancanza di benevolenza verso il tutto il disprezzare il proprio bene. Ciò suggerisce che l'auto-interesse non è di per sé condannabile, purché sia esercitato entro certi limiti e non a scapito degli altri. L'aspetto vergognoso emerge quando l'amore di sé travalica questi limiti, portando a comportamenti che sono dannosi per gli altri o che ignorano completamente il bene pubblico. Queste azioni vengono percepite come ingiuste e immorali, e quindi generate vergogna.
2) Spiega la logica del calcolo sul valore cumulativo di una determinata azione, facendo riferimento ai criteri quantitativi e qualitativi di cui tener conto.
Nel testo che hai fornito, l'analisi del valore morale di una determinata azione viene esaminata con attenzione tanto ai criteri quantitativi quanto a quelli qualitativi. Questa logica è chiaramente espressa nell'ultimo paragrafo del terzo messaggio, dove si discute su come valutare le qualità morali delle azioni al fine di determinare quale azione sia preferibile o moralmente superiore.
Criteri quantitativi: La valutazione quantitativa si basa sul numero di persone influenzate dall'azione e sulla misura in cui queste sono influenzate, ovvero sulla quantità di felicità o infelicità generata. Il principio guida qui è quello utilitaristico della massimizzazione della felicità: un'azione è considerata tanto più virtuosa quanto maggiore è il numero di persone che beneficiano della felicità derivante da essa. Viceversa, un'azione è considerata tanto più viziosa quanto maggiore è il numero di persone che sperimentano infelicità a causa di essa.
Criteri qualitativi: Oltre alla quantità di felicità o infelicità prodotta, è rilevante anche la qualità o l'importanza morale delle persone coinvolte. Questo aspetto si riflette nel concetto che la "dignità" o "importanza morale" delle persone può "compensare i numeri". In altre parole, le azioni che influenzano persone di elevata importanza morale possono avere un peso maggiore rispetto a quelle che influenzano un numero maggiore di persone di minore importanza morale. Ciò implica che la virtù di un'azione non è solo una funzione della felicità generata, ma anche del tipo di persone che ne beneficiano.
In sintesi, la logica del calcolo sul valore cumulativo di un'azione si basa su una valutazione che combina questi due aspetti — il numero di persone influenzate e l'importanza morale di queste persone — per stabilire un bilancio complessivo di virtù o vizio. L'azione ideale, secondo questa logica, è quella che produce la massima felicità per il massimo numero di persone, considerando anche la loro importanza morale. Questo approccio riflette un tentativo di sintetizzare una valutazione quantitativa (basata sui numeri) con una qualitativa (basata sulla significatività morale degli individui coinvolti).
3) Sulla base dei criteri che egli fornisce, chiarisci quali siano le azioni raccomandate dal senso morale come perfettamente virtuose.
Sulla base del testo fornito, le azioni raccomandate dal senso morale come perfettamente virtuose sono quelle che tendono alla "massima e più estesa felicità di tutti gli agenti razionali", a cui possa giungere la nostra influenza. Queste azioni sono considerate perfettamente virtuose perché appaiono mirare in modo universale e illimitato al benessere collettivo.
Nel testo, viene specificato che ogni beneficio, anche se rivolto solo a una parte della collettività, è considerato amabile e virtuoso fintanto che non è incompatibile con il bene del tutto. Tuttavia, tali azioni rappresentano un grado di virtù minore se il beneficio è limitato non da una mancanza d'amore per il tutto ma dalla mancanza di potere.
Inoltre, il testo evidenzia che un attaccamento esclusivo a partiti, sette o fazioni ha solo una "specie imperfetta di bellezza", a meno che non sia motivato da un forte interesse per il bene del tutto. Laddove certe parti siano di grande utilità per il bene comune, la benevolenza universale può giustificare un maggiore interesse per i loro affari, particolarmente se si tratta di individui o associazioni che occupano posizioni elevate e sono dedite a promuovere il bene universale.
In sintesi, le azioni moralmente raccomandate sono quelle che promuovono la felicità collettiva e considerano l'interesse generale, dimostrando così una virtù proporzionale al numero di beneficiati e all'intensità del bene che producono.
Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori