Immanuel Kant - Imperativi ipotetici e imperativo categorico
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione
Introduzione
Nel suo trattato del 1785, "La Fondazione della metafisica dei costumi", Immanuel Kant introduce una riflessione dettagliata sulla sua filosofia morale. In questo testo, distingue due principali categorie di imperativi: gli imperativi ipotetici e l'imperativo categorico. Gli imperativi ipotetici si dividono ulteriormente in imperativi dell'"abilità" e della "prudenza". Gli imperativi dell'abilità indirizzano la volontà a compiere azioni specifiche come mezzi razionali per il conseguimento di un fine, indipendentemente dalla natura di tale fine. Gli imperativi della prudenza, d'altro canto, guidano le azioni verso l'obiettivo di ottenere la felicità, un fine che tutti gli uomini tendono a cercare a causa di una "necessità naturale". Questi imperativi suggeriscono mezzi che sono oggettivamente utili per raggiungere fini che, tuttavia, non sono determinati dalla ragione ma dalle inclinazioni personali. Di conseguenza, mentre i mezzi possono essere considerati buoni tecnicamente, i fini possono essere moralmente buoni, indifferenti o negativi.
L'imperativo categorico, invece, rappresenta il principio morale a priori unico, prescrivendo alla volontà di agire bene per sé stessa, al di là di ogni inclinazione sensibile e fine particolare, adottando una prospettiva universale. Kant sostiene che questo imperativo è apodittico, ovvero sempre necessario e valido.
Più avanti, nella "Critica della ragion pratica", Kant approfondisce spiegando che questa legge morale universale è un "fatto della ragione". Ogni essere razionale può scoprire tale legge dentro di sé e, attraverso di essa, affermare la propria libertà assoluta rispetto alle inclinazioni sensibili, che sono soggette alle leggi naturali.
Lettura
Ogni cosa della natura opera secondo leggi. Soltanto l'essere ragionevole può agire secondo la rappresentazione delle leggi, ossia secondo principi, cioè può avere una volontà. Ma poiché la determinazione delle azioni in base a leggi richiede la ragione, la volontà è null'altro che la ragion pratica.
Ammesso che la ragione determini inflessibilmente la volontà, le azioni di questo essere, quando siano riconosciute necessarie oggettivamente, sono tali anche soggettivamente; la volontà è allora la facoltà di scegliere solo ciò che la ragione riconosce come praticamente necessario, quindi come buono, indipendentemente dall'inclinazione.
Ma quando la ragione non determina sufficientemente la volontà e questa continua a sottostare a condizioni soggettive (a certi moventi) che non si accordano sempre con le condizioni oggettive, in breve, quando la volontà non è in se stessa pienamente conforme alla ragione (come avviene negli uomini), le azioni riconosciute necessarie oggettivamente, sono soggettivamente contingenti e la determinazione di una volontà di questo genere secondo leggi oggettive è costrizione; cioè la relazione fra le leggi oggettive e una volontà non interamente buona è pensata come la determinazione della volontà di un essere ragionevole mediante principi della ragione, ai quali però questa volontà, per la sua stessa natura, non è necessariamente conforme.
La rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto è costrittivo per la volontà, prende il nome di comando (della ragione) e la formula del comando si chiama imperativo.
Tutti gli imperativi sono espressi da un dover essere e denotano il rapporto di una legge oggettiva della ragione con una volontà che, per la sua costituzione soggettiva, è determinata da essa non in modo necessario (con una costrizione). Essi dicono che sarebbe bene fare o non fare qualcosa; ma lo dicono a una volontà che non sempre fa le cose che le sono presentate come tali da doversi fare perché buone.
Praticamente buono è ciò che determina la volontà mediante rappresentazioni della ragione, quindi non per cause soggettive, ma oggettivamente, cioè per principi validi per ogni essere ragionevole in quanto tale. Ciò che è praticamente buono è diverso dal gradevole, ossia da ciò che influisce sulla volontà solo mediante la sensazione e per effetto di cause puramente soggettive, valide semplicemente per la sensibilità di questo o di quest'altro individuo, non come principi della ragione, validi per tutti.
Una volontà perfettamente buona starebbe dunque essa stessa sotto il dominio di leggi oggettive (del bene), ma non potrebbe perciò essere pensata costretta ad azioni conformi alla legge, perché di per se stessa, a causa della sua costituzione soggettiva, non potrebbe esser determinata che dalla rappresentazione del bene. Ecco perché non c'è imperativo che possa valere per la volontà divina e in generale per una volontà santa; il dover essere, qui, è fuori posto, perché il volere è già per se stesso necessariamente accordato con la legge. Di conseguenza, gli imperativi sono solo formule per esprimere il rapporto fra leggi oggettive del volere in generale e l'imperfezione soggettiva della volontà di questo o quell'essere ragionevole, per esempio della volontà umana.
Ora tutti gli imperativi comandano o ipoteticamente o categoricamente. Gli imperativi ipotetici presentano la necessità pratica di un'azione possibile quale mezzo per raggiungere qualche altra cosa che si vuole (oppure che è possibile volere). L'imperativo categorico è quello che rappresenta un'azione come necessaria per se stessa, senza relazione con nessun altro fine, come necessaria oggettivamente. Poiché ogni legge pratica presenta un'azione possibile come buona, quindi come necessaria per un soggetto che sia praticamente determinabile dalla ragione, tutti gli imperativi sono formule di determinazione dell'azione necessaria secondo il principio di una volontà in qualche modo buona.
Ora, se l'azione è buona esclusivamente come mezzo per qualcos'altro, l'imperativo è ipotetico; se invece è pensata come buona in sé, quindi necessaria per una volontà in sé conforme alla ragione, l'imperativo è categorico.
L'imperativo dice quindi quale delle azioni possibili sia la buona ed è la regola pratica di una volontà che non compie immediatamente un'azione perché buona, o perché il soggetto non sa che essa è buona, o perché, anche sapendolo, le sue massime possono essere in contrasto coi principi oggettivi della ragion pratica.
L'imperativo ipotetico sta a significare soltanto che l'azione è buona in vista di qualche scopo, possibile o reale. Nel primo caso è un principio problematicamente pratico, nel secondo è un principio assertoriamente pratico. L'imperativo categorico che presenta l'azione come oggettivamente necessaria per se stessa, a prescindere da qualsiasi scopo, cioè anche in mancanza di qualsiasi altro fine, vale come principio apodittico (pratico).
Tutto ciò che è possibile mediante le forze di un essere ragionevole può anche esser pensato come scopo possibile di una volontà, sicché i principi dell'azione, se questa è rappresentata come necessaria per raggiungere qualche fine realizzabile, sono in effetti infiniti. Tutte le scienze hanno una parte pratica fondata sulla possibilità di fini per noi e di imperativi relativi al modo in cui questi fini possono esser raggiunti. In generale questi imperativi possono esser detti imperativi dell'abilità.
Qui non si chiede se il fine sia razionale e buono, ma soltanto che cosa si deve fare per raggiungerlo. Le prescrizioni del medico per risanare un uomo e quelle di un avvelenatore per ucciderlo sicuramente sono di valore eguale perché le une e le altre servono ad essi per condurre a buon fine il proprio intento. Siccome nella prima giovinezza non si sa quali scopi ci capiterà di perseguire nel corso della vita, i genitori si sforzano di insegnare ai loro ragazzi una quantità di cose diverse e di renderli abili nell'uso dei mezzi per tutti i fini desiderabili, non essendo in grado di prevedere, per ognuno di tali fini, se un giorno sarà realmente uno scopo del proprio figlio, mentre è possibile che lo possa essere; questa preoccupazione è così grande che essi trascurano solitamente di formare e correggere il giudizio dei figli sul valore delle cose che potrebbero proporsi come fine.
C'è però un fine che si può presupporre reale per tutti gli esseri ragionevoli (in quanto si convengono ad essi imperativi, cioè in quanto sono esseri dipendenti), un fine quindi che essi non soltanto possono avere, ma si può sicuramente presupporre che tutti abbiano effettivamente per necessità naturale, ed è il fine della felicità.
L'imperativo ipotetico che presenta la necessità pratica dell'azione in quanto mezzo per ottenere la felicità, è assertorio. Non è possibile presentarlo semplicemente come necessario al raggiungimento di un fine incerto e soltanto possibile, bensì di un fine che si può supporre in ogni uomo sicuramente e a priori, perché proprio della sua essenza. Ora si può chiamare, in senso strettissimo, prudenza l'abilità nella scelta dei mezzi in vista del nostro massimo benessere. Di conseguenza, l'imperativo concernente la scelta dei mezzi per raggiungere la propria felicità, ossia la prescrizione della prudenza, è sempre ipotetico; l'azione è comandata non in modo assoluto, ma come mezzo per un fine diverso.
C'è infine un imperativo che non assume a fondamento la condizione del raggiungimento di altri scopi per mezzo di una certa condotta, ma comanda immediatamente questa condotta. Tale imperativo è categorico. Esso non concerne la materia dell'azione e ciò che da essa deve conseguire, ma la forma e il principio da cui l'azione stessa deriva, sicché ciò che in essa vi è di essenzialmente buono consiste nell'intenzione, a prescindere dalle conseguenze. Questo imperativo si può chiamare l'imperativo della moralità. [...]
Quando penso un imperativo ipotetico in generale, non so ciò che conterrà finché non me ne sia data la condizione. Se invece penso un imperativo categorico, so immediatamente che cosa contiene. Infatti l'imperativo, oltre alla legge, non contiene che la necessità, per la massima, di essere conforme a tale legge, senza che la legge sottostia a nessuna condizione; di conseguenza non resta che l'universalità d'una legge in generale, a cui deve conformarsi la massima dell'azione, ed è soltanto questa conformità che l'imperativo presenta propriamente come necessaria.
Non c'è dunque che un solo imperativo categorico, cioè questo: agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale.
Guida alla lettura
1) Che cosa sono gli imperativi?
Gli imperativi, secondo il testo di Kant, sono comandi della ragione che dirigono la volontà umana su come agire. Questi comandi sono formulati come imperativi, cioè come espressioni di un dover essere, e indicano il rapporto tra una legge oggettiva della ragione e una volontà che, per la sua costituzione soggettiva, non è determinata necessariamente da essa.
Esistono due principali tipi di imperativi:
Imperativi ipotetici: Questi sono comandi che prescrivono un'azione come mezzo necessario per raggiungere un fine desiderato. Sono ulteriormente suddivisi in:
Imperativi dell'abilità: Comandano un'azione come mezzo razionale per raggiungere un fine specifico, indipendentemente da ciò che il fine è in sé.
Imperativi della prudenza: Comandano azioni che si dovrebbero compiere per raggiungere la felicità, un fine che tutti gli uomini perseguono per una necessità naturale.
Imperativo categorico: A differenza degli imperativi ipotetici, l'imperativo categorico comanda alla volontà di essere buona in se stessa, agendo in modo oggettivamente necessario, senza considerare alcuna inclinazione sensibile o fine particolare. L'azione comandata dall'imperativo categorico è vista come necessaria in sé, senza relazione con altri fini, e si basa sulla formulazione della legge che la massima dell'azione diventi una legge universale. Questo imperativo non è condizionato da scopi esterni e si concentra sulla forma e il principio morale da cui l'azione deriva.
In sintesi, gli imperativi in Kant sono strumenti attraverso cui la ragione cerca di regolare la volontà, sottolineando un dualismo tra imperativi che considerano gli scopi (ipotetici) e quelli che insistono sull'aderenza a principi morali universali e necessari (categorico).
2) Che cosa è «praticamente buono», secondo Kant? E in che senso «buono» è diverso da «gradevole»?
Secondo Kant, come riportato nel testo, ciò che è "praticamente buono" determina la volontà non attraverso cause soggettive, ma oggettivamente, tramite rappresentazioni della ragione. Questo significa che qualcosa è praticamente buono non perché risponde a desideri o inclinazioni personali, ma perché è coerente con principi validi universalmente per ogni essere razionale in quanto tale. Il buono pratico è quindi un bene che è riconosciuto come tale da una prospettiva razionale e oggettiva, indipendentemente dalle circostanze particolari o dalle preferenze personali.
La distinzione tra "buono" e "gradevole", secondo il pensiero di Kant, sta nel fatto che il gradevole si riferisce a ciò che influisce sulla volontà solo attraverso la sensazione, e per effetto di cause puramente soggettive che sono valide solo per la sensibilità di un individuo o di un altro. In altre parole, qualcosa di gradevole è tale perché soddisfa sensazioni o desideri individuali, non perché segue una legge universale di ragione. Il buono, invece, è intrinsecamente legato a principi di ragione che valgono universalmente, indipendentemente dai sentimenti o dalle preferenze personali.
Quindi, il buono secondo Kant è qualcosa che orienta la volontà in modo razionale e universale, mentre il gradevole riguarda il soddisfacimento di desideri personali e contingenti, spesso legati alla sensibilità individuale. Questa distinzione è fondamentale nella filosofia morale kantiana, che pone l'accento sulla necessità di agire secondo principi razionali e universalmente validi, piuttosto che in base alle proprie inclinazioni o desideri temporanei.
3) Definisci in generale il concetto di imperativo ipotetico.
L'imperativo ipotetico, secondo quanto esposto nel testo di Kant, è un tipo di comando che si applica alla volontà ma la cui necessità è condizionata da un fine che si desidera raggiungere. In altre parole, un imperativo ipotetico prescrive un'azione come mezzo necessario per ottenere un fine specifico. Non comanda un'azione per il suo valore intrinseco o morale ma per la sua utilità in relazione a un obiettivo particolare.
Questo tipo di imperativo è quindi caratterizzato dalla sua natura condizionale: "Se vuoi raggiungere X, allora devi fare Y". I fini che motivano gli imperativi ipotetici possono variare ampiamente e dipendono dalle inclinazioni e dai desideri individuali. Inoltre, gli imperativi ipotetici possono essere suddivisi ulteriormente in imperativi dell'abilità (che riguardano le competenze necessarie per ottenere certi fini) e della prudenza (che riguardano la ricerca della felicità, un fine naturale e universale per gli esseri umani secondo Kant).
Quindi, gli imperativi ipotetici sono strumentali e relativi, e non riflettono un principio morale universale come fa l'imperativo categorico. Essi si riferiscono piuttosto alla scelta dei mezzi più efficaci per raggiungere i fini desiderati, indipendentemente dalla valutazione morale di tali fini.
4) Definisci il concetto di imperativo categorico.
L'imperativo categorico, come descritto nel testo di Kant, è un principio morale fondamentale che comanda un'azione come necessaria di per sé stessa, senza relazione con alcun altro fine. Questo tipo di imperativo non è legato a condizioni specifiche o a risultati particolari che l'azione potrebbe produrre; invece, prescrive un comportamento che è universalmente valido e necessario, indipendentemente dalle circostanze personali o dalle conseguenze dell'azione.
L'imperativo categorico si distingue perché non assume come fondamento la condizione del raggiungimento di altri scopi per mezzo di una certa condotta ma comanda immediatamente questa condotta stessa. Si concentra sulla forma e il principio da cui l'azione stessa deriva, indicando che ciò che in essa vi è di essenzialmente buono consiste nell'intenzione, a prescindere dalle conseguenze.
Il comando universale dell'imperativo categorico è: "Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale." Ciò implica che le azioni dovrebbero essere compiute solo se la massima sottostante (il principio guida) può essere coerentemente desiderata come una legge universale applicabile a tutti.
In sintesi, l'imperativo categorico di Kant è un principio morale a priori che stabilisce un'azione come moralmente necessaria, basata su principi razionali che devono essere universalmente applicabili, indipendentemente da qualsiasi altro scopo.
5) Quando un imperativo ipotetico è una regola dell'abilità? E quando invece è una regola della prudenza?
Nel testo, gli imperativi ipotetici di Kant sono suddivisi in due categorie: gli imperativi dell'abilità e della prudenza.
Imperativo dell'abilità: Quando un imperativo ipotetico è una regola dell'abilità, comanda alla volontà una determinata azione come mezzo razionale per raggiungere un determinato fine, qualunque esso sia. Questo tipo di imperativo non è necessariamente legato a fini morali o a un bene universale ma a obiettivi specifici e pratici. Ad esempio, le istruzioni per costruire un mobile o le regole per giocare a scacchi sono imperativi dell'abilità: indicano come raggiungere un fine specifico tramite mezzi adeguati e efficaci.
Imperativo della prudenza: L'imperativo della prudenza, invece, comanda ciò che bisogna fare per cercare di raggiungere la felicità, che è il fine che tutti gli uomini perseguono per effetto di una "necessità naturale". Questo tipo di imperativo è legato alla nozione di bene individuale, spingendo gli individui a scegliere le azioni che massimizzano la loro felicità personale. Kant spiega che la felicità è un fine che si può presupporre reale e necessario per tutti gli esseri umani.
Quindi, mentre gli imperativi dell'abilità si concentrano su azioni specifiche come mezzi per raggiungere fini particolari, gli imperativi della prudenza si concentrano sul raggiungimento della felicità come un fine in sé, usando azioni che sono considerate utili per ottenere tale stato. Entrambi sono considerati ipotetici perché i loro comandi sono condizionati dalla presenza di un fine specifico: se si desidera raggiungere quel fine, allora si deve seguire il comando.
6) Riporta la formula dell'imperativo categorico e prova a spiegarne il significato.
La formula dell'imperativo categorico, come riportata nel testo, è la seguente:
"Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale."
Questa formula è centrale nella filosofia morale di Immanuel Kant e rappresenta il cuore dell'etica deontologica, secondo la quale la moralità di un'azione deriva dalla sua conformità a principi universali, piuttosto che dalle sue conseguenze.
Spiegazione del significato:
L'imperativo categorico di Kant stabilisce che una persona dovrebbe agire solo in base a principi che potrebbero essere adottati come leggi universali, applicabili a tutti gli esseri razionali. In altre parole, prima di compiere un'azione, dovremmo chiederci se saremmo disposti a vivere in un mondo dove tutti agiscono secondo lo stesso principio della nostra azione. Se la risposta è no, allora l'azione non soddisfa i criteri morali di universalità e non dovrebbe essere eseguita.
Esempio pratico:
Se stai considerando di mentire per ottenere un vantaggio personale, dovresti chiederti: "Sarei disposto a vivere in un mondo dove è universale la norma secondo cui tutti possono mentire per ottenere vantaggi?" Se la risposta è negativa, allora mentire in quella circostanza violerebbe l'imperativo categorico.
Importanza dell'intenzione:
Secondo Kant, ciò che rende un'azione moralmente buona non sono le sue conseguenze ma l'intenzione dietro di essa. Un'azione compiuta conformemente all'imperativo categorico è moralmente buona in sé, indipendentemente dalle conseguenze che potrebbero derivarne.
Questa concezione è radicale perché non ammette eccezioni basate su circostanze particolari o esigenze personali. L'unico criterio di moralità è l'universalità del principio che guida l'azione. Questo approccio mira a garantire che le azioni umane siano guidate da ragionamenti equi e non da desideri o impulsi personali.
Spero che questa spiegazione ti aiuti a comprendere meglio il significato e l'importanza dell'imperativo categorico nella filosofia morale di Kant.
Guida alla Comprensione
1) Spiega in che modo Kant definisce il rapporto tra ragione e volontà e qual è il ruolo degli imperativi.
Kant esplora il rapporto tra ragione e volontà attraverso la distinzione e definizione degli imperativi, che sono comandi della ragione che indirizzano la volontà. In particolare, distingue tra imperativi ipotetici e l'imperativo categorico, ciascuno dei quali ha un ruolo diverso nell'orientare la volontà umana.
1. Ragione e volontà: Per Kant, la volontà è essenzialmente la capacità di agire secondo i principi razionali. La ragione ha la funzione di determinare la volontà, cioè di guidarla e formarla. Quando la volontà segue completamente la ragione, le azioni risultano oggettivamente necessarie e moralmente buone. Tuttavia, nella realtà umana, la ragione spesso non determina completamente la volontà a causa di inclinazioni e desideri soggettivi. In queste circostanze, le azioni riconosciute come oggettivamente necessarie possono apparire solo soggettivamente contingenti alla volontà.
2. Ruolo degli Imperativi: Gli imperativi sono le formule tramite cui la ragione comanda alla volontà. Essi si esprimono come un "dover essere" e possono essere suddivisi in due tipi principali:
Imperativi ipotetici: Questi imperativi si basano su condizioni e sono sempre relativi a un fine specifico. Sono ulteriormente divisi in imperativi dell'abilità (azioni necessarie per raggiungere un fine qualsiasi) e della prudenza (azioni necessarie per raggiungere la felicità, un fine universale tra gli uomini). Gli imperativi ipotetici non comandano assolutamente, ma indicano che se si desidera raggiungere un certo fine, allora si dovrebbero compiere determinate azioni.
Imperativo categorico: Questo è il comando supremo della ragione che è valido in modo universale e incondizionato. L'imperativo categorico non è basato su alcun fine al di fuori di sé stesso. Invece, comanda che le azioni siano eseguite come buone in sé stesse, senza alcuna considerazione per conseguenze o risultati esterni. L'intenzione dietro l'azione deve essere conforme alla legge morale universale, indipendentemente dalle inclinazioni personali. Kant afferma che l'imperativo categorico è "agisci solo secondo la massima che puoi volere diventi una legge universale."
In sintesi, per Kant, la ragione dovrebbe guidare la volontà mediante l'uso di imperativi. Mentre gli imperativi ipotetici indirizzano la volontà verso fini specifici e condizionati, l'imperativo categorico cerca di allinearla a un principio di moralità universale e incondizionato. Questo quadro filosofico vuole garantire che la volontà non sia soggetta a capricci personali o circostanze contingenti, ma guidata da principi razionali e universali.
2) Perché solo l'uomo, e non la volontà divina, ha bisogno di imperativi?
Il motivo per cui solo l'uomo, e non la volontà divina, ha bisogno di imperativi risiede nella natura fondamentale della volontà stessa e nella sua relazione con la legge morale, come spiegato da Kant.
Secondo Kant, gli imperativi sono comandi della ragione che indirizzano la volontà a comportarsi in modo conforme alla legge morale. Questi comandi si manifestano in due forme principali: come imperativi ipotetici, che suggeriscono azioni come mezzi per raggiungere fini desiderati, e come l'imperativo categorico, che comanda azioni buone in sé, indipendentemente dai fini.
Nel caso della volontà umana, essa è spesso influenzata da inclinazioni e desideri sensibili, che possono deviare dalla ragione. La volontà umana, quindi, non è necessariamente allineata con la legge morale e ha bisogno di imperativi per orientarsi correttamente. La volontà umana è imperfetta e, come spiega Kant, quando non è pienamente conforme alla ragione, le azioni riconosciute come necessarie oggettivamente diventano soggettivamente contingenti, rendendo necessaria la "costrizione" tramite leggi oggettive.
In contrasto, la volontà divina, o quella di un essere santamente perfetto, è per definizione perfettamente allineata con la legge morale. Essa non ha bisogno di essere comandata o corretta perché è, per sua stessa natura, già conforme alla legge. Non ci sono imperativi per la volontà divina perché non c'è spazio per la non conformità o la contingenza; il suo volere è necessariamente in accordo con la legge morale. Kant chiarisce che "non c’è imperativo che possa valere per la volontà divina e in generale per una volontà santa; il dover essere, qui, è fuori posto, perché il volere è già per se stesso necessariamente accordato con la legge".
Dunque, gli imperativi sono necessari solo per le entità la cui volontà non è intrinsecamente allineata con la legge morale, come nel caso degli esseri umani, che sono influenzati da condizioni soggettive e desideri personali.
3) Spiega come i due imperativi, quello ipotetico e quello categorico, stabiliscono due modi molto diversi di rendere buona la volontà.
Nel testo, Immanuel Kant esplora la distinzione tra imperativi ipotetici e l'imperativo categorico, sottolineando il loro ruolo fondamentale nella definizione di cosa rende "buona" la volontà in termini morali.
Imperativi ipotetici: Gli imperativi ipotetici sono comandi che la ragione propone alla volontà, ma il loro scopo è condizionato da un fine desiderato. Kant li suddivide in due categorie: gli imperativi dell'abilità e della prudenza. Entrambi suggeriscono azioni come mezzi per raggiungere fini specifici.
Gli imperativi dell'abilità dirigono la volontà su come raggiungere un fine qualsiasi che sia stato scelto, indipendentemente dalla valutazione morale di quel fine.
Gli imperativi della prudenza si occupano di come raggiungere il fine universale della felicità. Anche in questo caso, l'azione è valutata come mezzo per raggiungere la felicità, non per il suo valore intrinseco.
In entrambi i casi, la "bontà" della volontà è subordinata alla sua efficacia nel raggiungere un fine esterno. La bontà dell'azione, quindi, è contingente e non assoluta, poiché dipende dall'efficacia con cui essa realizza un certo scopo.
Imperativo categorico: Al contrario, l'imperativo categorico stabilisce che un'azione debba essere compiuta per il semplice motivo che essa rappresenta un dovere morale incondizionato. L'imperativo categorico comanda alla volontà di agire in modo buono in sé stesso, indipendentemente da qualunque inclinazione sensibile o fine particolare. Questo imperativo non considera le azioni buone semplicemente come mezzi per raggiungere un fine ma le valuta come buone in sé stesse, richiedendo che siano conformi alla legge morale universale. L'azione è quindi considerata moralmente buona perché è conforme a un principio che può essere universalmente applicato a tutti gli esseri razionali.
In sintesi, gli imperativi ipotetici rendono la volontà buona in un senso limitato e condizionale, legato all'efficacia con cui si raggiungono fini specifici che possono essere moralmente neutrali, buoni o cattivi. In contrasto, l'imperativo categorico mira a rendere la volontà buona in un senso universale e incondizionato, basato sulla conformità a principi morali che valgono per tutti gli esseri razionali. Questa distinzione sottolinea una concezione profondamente diversa di moralità e di etica pratica nella filosofia kantiana.
Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori