Martin Heidegger - La verità dei greci è svelatezza


Immagine Martin Heidegger
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione

Introduzione


Nell'inverno del 1931-1932, Martin Heidegger tiene un corso all'Università di Friburgo dal titolo «L'essenza della verità». Questo corso è anticipato da una conferenza con lo stesso titolo, presentata per la prima volta nel 1930, ripetuta nel 1932 e poi pubblicata nel 1943. Gli argomenti trattati nel corso formano il contesto per le riflessioni presenti nel saggio sulla Dottrina platonica della verità, pubblicato per la prima volta nel 1942. Il testo delle lezioni tenute tra il 1931 e il 1932, dal quale è tratto il brano proposto, è stato pubblicato postumo nel 1988. In questo frammento, troviamo un'analisi terminologica di grande importanza per la concezione heideggeriana della verità.

Heidegger sostiene che i filosofi presocratici, esaminando il problema dell'essere, avevano compreso che la questione della verità doveva essere intesa come «svelatezza». Per questo motivo, avevano utilizzato il termine a-lètheia, che secondo Heidegger, significa ciò che emerge dall'oblio (lèthe) e si rende visibile, dopo essere stato nascosto. Questa idea, in linea con il metodo indicato da Heidegger per rapportarsi all'essere, rappresenta un sapere che, secondo lui, è stato occultato dalla filosofia di Platone e Aristotele. Da qui inizia la storia della metafisica, caratterizzata dalla convinzione che l'uomo possa conoscere la verità come corrispondenza, o conformità, tra pensiero, linguaggio ed essere. Attraverso l'etimologia di alètheia, Heidegger esprime la necessità di ritornare al rapporto originario con la verità, aspettando i momenti in cui l'essere si rivela.


Lettura


Domandiamo ora, senza alcun riguardo per questa definizione abituale, come venne intesa la verità all'inizio della filosofia occidentale, e cioè che cosa pensassero i Greci di ciò che noi chiamiamo «verità». Quale parola avevano per nominarla? La parola greca che sta per «verità» – non lo si sarà mai ricordato abbastanza, e bisogna sempre tornare a farlo, quasi ogni giorno – è alètheia, svelatezza. Qualcosa di vero è un alethès, uno svelato. Che cosa vediamo innanzitutto da questa parola?

Che cosa vediamo innanzitutto da questa parola? Due cose:
1. I Greci intendevano ciò che noi chiamiamo «il vero» come il dis-velato, il non più velato; ciò che è senza velatezza e dunque ciò che è stato strappato alla velatezza, ciò che le è stato, per così dire, rapito. Il vero è quindi per il Greco qualcosa che non ha più in sé qualcos'altro, cioè la velatezza da cui si è liberato. Perciò l'espressione usata dai Greci per nominare la verità ha, per la sua struttura semantica e anche per la sua struttura lessicale, un contenuto fondamentalmente diverso rispetto alla nostra parola tedesca Wahrheit e, significativamente, anche già rispetto all'espressione latina veritas. È un'espressione privativa. [...]

2. Il significato della parola usata dai Greci per nominare la verità, cioè «svelatezza», non ha innanzitutto nulla a che fare con l'asserzione e con quel contesto a cui ci aveva condotto la definizione usuale dell'essenza della verità, vale a dire la concordanza e la conformità. Essere velato e svelato significa qualcosa di totalmente diverso da concordare, commisurarsi, conformarsi a... La verità come svelatezza e la verità come conformità sono due cose completamente distinte, come se derivassero da esperienze fondamentali del tutto diverse e tra loro inconciliabili. [...]

Che cosa è che i Greci chiamano alethès (svelato, vero)? Non l'asserzione, né la proposizione e nemmeno la conoscenza ma l'ente stesso, l'intero costituito dalla natura, dall'opera dell'uomo e dall'agire di Dio. Quando Aristotele dice che nel filosofare ne va perì tès alètheias, «della verità», non intende dire che la filosofia debba formulare proposizioni corrette e valide, ma vuol dire che la filosofia cerca l'ente nella sua svelatezza in quanto ente.

L'ente pertanto deve essere prima esperito anche nella sua velatezza, come qualcosa che si nasconde. Questa esperienza fondamentale rappresenta manifestamente il terreno dal quale soltanto scaturisce la ricerca di ciò che è dis-velato. Solo se l'ente viene prima esperito nella sua velatezza e nel suo nascondersi, solo se la velatezza dell'ente circonda l'uomo e lo angustia nella sua interezza e nel suo fondamento, è necessario e possibile che l'uomo si metta all'opera per strappare l'ente a questa velatezza e portarlo nella svelatezza, ponendosi così egli stesso nell'ente disvelato.

Ci chiediamo: abbiamo dagli antichi una testimonianza di questa esperienza fondamentale dell'ente come qualcosa che si nasconde? Fortunatamente sì, ed è anche una testimonianza eccelsa di uno dei filosofi più grandi e per giunta più vetusti dell'antichità: Eraclito. Di lui si tramanda il significativo detto: [he] phy`sis ... kry`ptesthai philèi. Il regnare sovrano dell'ente, cioè l'ente nel suo essere, ama nascondersi. In questo detto sono racchiuse molte cose.

He phy`sis, la «natura»: con essa non si intende la sfera dell'ente che è oggi per noi oggetto della fisica, ma il regnare sovrano dell'ente, di tutto l'ente: della storia dell'umanità, dell'accadere della natura, dell'agire divino. L'ente in quanto tale, vale a dire in ciò che esso è in quanto ente, regna sovrano. Kry`ptesthai philèi: Eraclito non dice che l'ente in quanto tale si nasconde realmente, di tanto in tanto, ma philei: ama nascondersi. Il suo proprio, intimo impulso è di restare nascosto e, una volta svelato, di ritornare nuovamente nella velatezza. Non possiamo qui discutere come questo detto di Eraclito sull'ente sia legato alla sua concezione fondamentale dell'essere. Giocando, la divinità costruisce il mondo innumerevoli volte, come qualcosa di sempre diverso.

Basta così. In questo detto di Eraclito trova espressione quella esperienza fondamentale con la quale, nella quale e a partire dalla quale si incominciò a guardare nell'essenza della verità come dis-velatezza dell'ente. E questo detto è antico, tanto antico quanto la stessa filosofia occidentale; anzi dobbiamo dire: questo detto esprime quella esperienza e quella posizione fondamentale dell'uomo antico con le quali soltanto ha inizio propriamente il filosofare.

La alètheia, la svelatezza, nella quale la velatezza dell'ente deve trasformarsi mediante il filosofare, non è una cosa qualsiasi o addirittura la proprietà di un'asserzione o di una proposizione, e neppure un cosiddetto valore, ma è quella realtà, quell'accadere, a cui conduce solo quella via (he hodòs) della quale un altro dei grandi filosofi più antichi dice «che corre al di fuori dei sentieri abituali degli uomini» (Parmenide, fr. 1, 27).


Guida alla lettura


1) Definisci il concetto greco di verità (alètheia), seguendo l'etimologia usata da Heidegger.
Secondo Heidegger, il concetto greco di verità (alètheia) si fonda sull'idea di "svelatezza". L'etimologia di alètheia deriva da a-lètheia, dove "lèthe" significa "oblio" e la "a" privativa implica "non-oblio" o "svelamento". Heidegger interpreta alètheia come ciò che esce dall'oblio e si lascia vedere, dopo essere stato nascosto. In altre parole, la verità per i Greci è intesa come ciò che viene dis-velato, ciò che non è più velato, e quindi ciò che è stato strappato alla velatezza. Questo concetto è significativamente diverso dalla definizione usuale di verità come conformità o corrispondenza tra pensiero, linguaggio ed essere. La verità come svelatezza non riguarda l'asserzione, la proposizione o la conoscenza ma l'ente stesso, nella sua interezza, comprendendo la natura, l'opera dell'uomo e l'agire divino.

2) Che differenza esiste tra la parola svelatezza e la parola verità, nell'uso corrente?
Secondo il testo, la differenza tra la parola "svelatezza" (alètheia) e la parola "verità" nell'uso corrente è significativa sia dal punto di vista semantico che concettuale.

Svelatezza (alètheia):

Per i Greci, la verità era intesa come "svelatezza", ossia qualcosa che è stato dis-velato o strappato dalla velatezza.
Questa concezione implica che ciò che è vero è ciò che non è più nascosto, qualcosa che è stato liberato dal suo stato di occultamento.
La svelatezza riguarda l'ente stesso, l'intero costituito dalla natura, dall'opera dell'uomo e dall'agire di Dio e non semplicemente l'asserzione o la proposizione corretta.
Heidegger sottolinea che questa esperienza fondamentale della verità come svelatezza è radicalmente diversa dalla verità come conformità.

Verità nell'uso corrente (Wahrheit, veritas):

La parola tedesca "Wahrheit" e la parola latina "veritas" hanno un contenuto fondamentalmente diverso rispetto ad "alètheia".
Nell'uso corrente, la verità è spesso intesa come conformità, concordanza o corrispondenza tra pensiero, linguaggio ed essere.
Questa concezione di verità come conformità implica che la verità sia una proprietà di proposizioni o asserzioni, ovvero che una proposizione è vera se corrisponde alla realtà o ai fatti.

In sintesi, la "svelatezza" implica una concezione della verità come un processo di rivelazione o disvelamento dell'ente, mentre la "verità" nell'uso corrente implica una corrispondenza o conformità tra un'asserzione e la realtà.

3) Che cosa afferma il detto di Eraclito? A che cosa si riferisce parlando della natura?
Il detto di Eraclito afferma che "il regnare sovrano dell'ente, cioè l'ente nel suo essere, ama nascondersi" (he physis ... kryptesthai philèi). Parlando della natura, Eraclito non si riferisce alla sfera dell'ente che oggi è oggetto della fisica ma al regnare sovrano dell'ente in generale che include la storia dell'umanità, l'accadere della natura e l'agire divino. In sintesi, l'ente in quanto tale ha un impulso intrinseco a restare nascosto e, una volta svelato, a ritornare nella velatezza.


Guida alla Comprensione


1) Spiega perché Heidegger insiste sul fatto che, per esprimere ciò che è vero, i greci usassero un termine che ha valore negativo, in quanto formato con l'alfa privativo (a-lètheia).
Heidegger insiste sul fatto che i Greci usassero il termine "alètheia" (svelatezza) per esprimere ciò che è vero, sottolineando il valore negativo di questa parola, in quanto formata con l'alfa privativo, perché questo termine indica un concetto fondamentale diverso rispetto alla nozione moderna di verità.

Secondo Heidegger, la parola "alètheia" deriva dalla combinazione del prefisso "a-" (privativo) e "lèthe" (oblio) che insieme significano "non-oblio" o "svelatezza". Questo indica che per i Greci la verità non era un'asserzione o una proposizione conforme alla realtà, piuttosto qualcosa che emerge dall'occultamento che si svela da uno stato di velatezza.

L'importanza di questa terminologia risiede nel fatto che per i Greci e per Heidegger, la verità come svelatezza riflette un rapporto più autentico e originario con l'essere. Questo concetto di verità era stato, secondo Heidegger, occultato dalla filosofia di Platone e Aristotele, che invece interpretavano la verità come corrispondenza o conformità tra pensiero, linguaggio ed essere.

Heidegger sottolinea quindi la necessità di ritornare a questa concezione originaria di verità, in cui l'essere si lascia intravedere e si manifesta all'uomo, distinguendosi nettamente dalla definizione usuale di verità come conformità.

2) Heidegger insiste sulla differenza tra verità come «svelatezza» e verità come «conformità» di qualcosa a qualcosa (per esempio a una regola): che cosa significa?
Heidegger distingue nettamente tra la verità intesa come "svelatezza" (alètheia) e la verità come "conformità". Secondo Heidegger, la verità come "svelatezza" si riferisce a un concetto primitivo e originario dei Greci, dove ciò che è vero è ciò che è dis-velato, cioè ciò che è stato strappato alla velatezza e si manifesta senza essere più nascosto. Questa idea si contrappone alla nozione di verità come "conformità" che implica una corrispondenza o accordo tra il pensiero, il linguaggio e l'essere.

Heidegger spiega che, per i Greci, la verità (alètheia) non riguardava l'asserzione, la proposizione o la conoscenza ma l'ente stesso nella sua interezza, comprendente la natura, l'opera dell'uomo e l'agire divino. La ricerca filosofica greca mirava a esperire l'ente nella sua svelatezza, a differenza della tradizione successiva che ha enfatizzato la verità come conformità o corrispondenza.

Quindi, Heidegger sottolinea che la verità come "svelatezza" è una esperienza fondamentale dell'ente come qualcosa che si nasconde e poi si svela, mentre la verità come "conformità" deriva da un'altra esperienza di verità come accordo e validità di proposizioni o asserzioni. Questa differenza fondamentale riflette due esperienze e posizioni diverse e inconciliabili sulla natura della verità.

3) Rifletti sul significato di questa frase: «solo se l'ente viene prima esperito nella sua velatezza e nel suo nascondersi, solo se la velatezza dell'ente circonda l'uomo e lo angustia nella sua interezza e nel suo fondamento, è necessario e possibile che l'uomo si metta all'opera per strappare l'ente a questa velatezza e portarlo nella svelatezza, ponendosi così egli stesso nell'ente disvelato». A quale tipo di esperienza sta alludendo Heidegger? Che tipo di rapporto con la verità sta escludendo?
Heidegger, nella frase citata, sta alludendo a un'esperienza fondamentale dell'essere che coinvolge la percezione dell'ente (tutto ciò che è) nella sua condizione di velatezza, ossia di nascondimento. Secondo Heidegger, solo quando l'uomo sperimenta l'ente come qualcosa che si nasconde e che resta coperto, può sentire l'angoscia e il desiderio di strappare l'ente a questa condizione per portarlo alla svelatezza (alètheia). Questo processo di disvelamento implica un'interazione profonda e dinamica con l'essere, dove l'uomo non si limita a osservare o contemplare passivamente, ma partecipa attivamente nel rivelare ciò che è nascosto.

Heidegger esclude quindi un tipo di rapporto con la verità inteso come mera conformità o corrispondenza tra il pensiero e l'ente. Nella tradizione filosofica di Platone e Aristotele, la verità è spesso concepita come la corrispondenza tra un'asserzione e la realtà. Questa visione riduce la verità a una relazione statica di adeguatezza tra le proposizioni e il mondo. Al contrario, Heidegger propone una concezione dinamica e processuale della verità, dove la svelatezza dell'ente emerge da un'interazione esistenziale e non da una semplice conformità.

In sintesi, l'esperienza a cui Heidegger allude è quella di vivere e sentire profondamente la condizione nascosta dell'ente che provoca nell'uomo l'impulso e la necessità di portare l'ente alla luce, di disvelarlo. Esclude invece un rapporto con la verità come semplice corrispondenza tra affermazioni linguistiche e realtà oggettiva.

4) Spiega perché Heidegger indica in Eraclito la fonte di una sapienza antica sulla verità dell'essere.
Heidegger indica in Eraclito la fonte di una sapienza antica sulla verità dell'essere perché Eraclito, con il suo detto «he physis ... kryptesthai philèi», esprime un'esperienza fondamentale della verità come dis-velatezza dell'ente. Questo detto significa che l'ente, nella sua essenza, ama nascondersi. La natura, intesa non come la sfera studiata dalla fisica ma come l'ente nel suo essere, ha un impulso innato a restare nascosta e, una volta svelata, a ritornare nella velatezza.

Heidegger sottolinea che questa concezione eraclitea della natura come qualcosa che si nasconde e ama nascondersi è alla base della comprensione antica della verità come svelatezza. Questa esperienza del nascondimento dell'ente è ciò che motiva l'uomo a cercare di strappare l'ente alla velatezza e portarlo alla svelatezza. Heidegger vede in questo detto di Eraclito una testimonianza eccelsa e fondamentale della filosofia antica, poiché esprime l'esperienza originaria e il posizionamento dell'uomo nei confronti dell'essere, da cui prende avvio il filosofare stesso.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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