Seneca - Il saggio sente gli affetti umani


Immagine Epicuro
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione

Introduzione


Seneca, con la sua profonda comprensione dell'etica stoica, offre una delicata interpretazione delle sfide della vita, utilizzando i principi stoici per illuminare le varie situazioni esistenziali e per individuare soluzioni che possano proteggere l'individuo dal turbamento interiore.
Nel cuore delle sue riflessioni troviamo l'integrità personale e la coerenza morale, elementi essenziali nelle difficoltà che inevitabilmente affrontiamo. Le sue Lettere a Lucilio, scritte in un periodo in cui Seneca si era ritirato dalla politica, sono un dialogo profondo e stimolante con un amico devoto, in cui mette costantemente alla prova le sue convinzioni filosofiche.
Nel brano tratto dalla lettera 9, Seneca chiarisce l'importanza dell'ideale stoico di autosufficienza e impassibilità. Rispondendo alle critiche di Epicuro, spiega che per gli stoici l'autosufficienza non implica l'irrilevanza dell'amicizia, né l'impassibilità significa insensibilità al dolore. Al contrario, il saggio, essendo autosufficiente, valorizza l'amicizia come un bene intrinseco, degno di sacrificio. Inoltre, sebbene affronti con determinazione la perdita di un amico, non rinuncia mai alla ricerca e al mantenimento delle amicizie, poiché esse sono naturali per lui.
L'autosufficienza, per Seneca, consiste nel trovare in sé stessi e nella propria coerenza morale le ragioni per essere felici in ogni circostanza, apprezzando i beni effimeri della vita e accettando la loro eventuale perdita.


Lettura


Epicuro, in una sua lettera, riprova chi afferma che il saggio è pago di se stesso e perciò non ha bisogno di amici; e tu desideri sapere se ha ragione. Epicuro fa questo rimprovero a Stilbone e a coloro per i quali il sommo bene consiste nella completa insensibilità dell’animo. Di necessità si cade nell’equivoco se vogliamo esprimere il vocabolo greco con una sola parola e traduciamo aπaθεια [apàtheia] con «impassibilità».

Si potrà infatti intendere il contrario di quello che vogliamo dire. Noi ci riferiamo a colui che non si lascia turbare dalla sensazione del male; c’è chi, invece, si riferisce a colui che non può sopportare alcun male. Conviene perciò distinguere, parlando di un animo invulnerabile oppure di un animo del tutto incapace di soffrire. Fra noi e loro c’è questa differenza: il saggio, secondo noi, sente ogni contrarietà, ma la vince; secondo loro, non la sente neppure.

Noi e loro abbiamo in comune la convinzione che il saggio è pago di se stesso; ma, per quanto basti a se stesso, desidera avere amici, vicini di casa, compagni di studio. Vedi in che senso egli è pago di sé: talvolta gli basta una sola parte di sé. Se, ad esempio, a causa di una malattia o di una violenza nemica, ha perduto una mano, se per qualche disgrazia gli è stato cavato un occhio, o entrambi gli occhi, quella parte di sé che gli rimane gli basterà, e col corpo indebolito e mutilato sarà lieto come quando aveva il corpo sano e integro: ma se non rimpiange la perduta integrità fisica, ciò non significa che preferisce la sua minorazione.

Così il saggio basta a se stesso, non nel senso che vuole vivere senza amici, ma che lo può. E quando dico «può», voglio intendere che il saggio sopporta serenamente la perdita di un amico; ma non sarà mai senza amici, perché è in suo potere contrarre subito una nuova amicizia.[...]

Il saggio, anche se basta a se stesso, vuole tuttavia avere un amico, se non altro per esercitare l’amicizia, perché una virtù così bella non sia trascurata. E non al fine, a cui mira Epicuro in questa stessa lettera, cioè «perché uno abbia chi lo assista nelle malattie o gli venga in aiuto se è prigioniero o bisognoso», ma, al contrario, perché uno abbia qualcuno da assistere se è malato, o da riscattare, se è stato fatto prigioniero dal nemico.

Chi pensa solo a sé e a questo scopo stringe amicizia è in grave errore. Come fu l’inizio, tale sarà la fine: si è fatto un amico che lo soccorresse nella prigionia, ma questi lo abbandonerà al primo rumore di catene. Sono queste le amicizie dette comunemente di circostanza: le amicizie fatte per opportunismo saranno gradite finché saranno utili. Una folla di amici ti circonda nella buona fortuna; ma, se cadi in disgrazia, rimani solo, poiché tutti son fuggiti nell’ora della prova. Così vediamo tanti esempi di uomini scellerati che per paura abbandonano l’amico, di altri che per paura lo tradiscono. Necessariamente l’amicizia finisce come è cominciata. Chi ha stretto un rapporto di amicizia per interesse, lo romperà per lo stesso motivo: farà il suo interesse anche contro l’amicizia, se in essa vede solo l’aspetto utilitario.

«A qual fine ti fai un amico?» Per avere una persona per cui io possa morire, che io possa seguire nell’esilio e salvare dalla morte, a prezzo di qualunque sacrificio. Invece codesta che tu mi descrivi non è amicizia, ma un affare che mira solo all’utile da conseguire. Certo qualcosa di simile all’amicizia è nell’amore, che si potrebbe chiamare una folle amicizia. è mai possibile amare per averne un guadagno, per ambizione o per la gloria? L’amore, per sua natura, trascurando tutti gli altri interessi, accende nei cuori una brama di bellezza e, ad un tempo, la speranza di un vicendevole affetto. Forse che una biasimevole passione può sorgere da un motivo più nobile?

«Ora non si tratta» mi dirai «di vedere se si debba cercare l’amicizia per se stessa.» Anzi, proprio questo deve essere dimostrato. Se, infatti, bisogna cercare l’amicizia per sé, senza secondi fini, può tendere ad essa chi basta a se stesso. «E come la cercherà?» Come la cosa più bella, non per desiderio di ricchezza, né per timore di mutamenti di fortuna. Toglie all’amicizia ogni dignità chi la ricerca per conseguire vantaggi materiali. «Il saggio basta a se stesso.» Ma, o mio Lucilio, i più intendono male quest’espressione e tengono il saggio lontano da ogni attività, imprigionandolo entro la sua pelle. Bisogna dunque spiegare il significato e l’estensione di queste parole: il saggio basta a se stesso per vivere felice, non per vivere. Per vivere, infatti, ha bisogno di molte cose; per la felicità solo di un animo retto, coraggioso e noncurante della fortuna. Voglio anche riferirti la distinzione che fa Crisippo. Egli dice che il saggio non sente la mancanza di nulla, e tuttavia ha bisogno di molte cose, «mentre lo stolto non ha bisogno di nulla (perché di nulla sa far uso) ma manca di tutto». Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose necessarie alla vita di ogni giorno, ma di nessuna soffre la mancanza: infatti soffrire la privazione di qualcosa implica una necessità, mentre per il saggio niente costituisce una necessità assoluta.

Quantunque egli basti a se stesso, ha bisogno di amici, e desidera averne il maggior numero possibile. Tuttavia non li cerca per vivere felice; anche senza amici, egli è felice. La felicità, sommo bene, non cerca fuori di sé i mezzi per realizzarsi: è cosa intima, che sboccia da se stessa. Comincia a essere in balia della fortuna se va a cercare anche una parte di sé fuori della propria interiorità. «Ma quale sarebbe la vita del saggio se, rimasto senza amici, venisse gettato in una prigione, o relegato in mezzo a genti straniere, o trattenuto in una lunga navigazione, o sbalestrato su una spiaggia deserta?» Sarebbe come la vita di Giove quando, cessando ogni forma di vita e scomparendo gli stessi dèi nella dissoluzione universale, egli si riposi, di sé solo pago, tutto preso dai suoi pensieri.

Il saggio fa qualcosa di simile: si raccoglie in sé, vive in compagnia di se stesso. Purché gli sia consentito di regolare le sue cose a suo arbitrio, basta a se stesso e prende moglie; basta a se stesso e educa dei figli; basta a sé stesso e tuttavia rinunzierebbe alla vita se fosse costretto a stare isolato da tutti. Nessun motivo d’interesse lo spinge all’amicizia, ma un impulso naturale; come per altri beni spirituali, anche per l’amicizia sentiamo un’attrazione istintiva. Come si odia la solitudine e si desidera la compagnia, come l’istinto naturale avvicina l’uomo all’uomo, così un intimo stimolo ci fa desiderare gli amici. Tuttavia il saggio, anche se ha un grande affetto per gli amici e li ama come e più di se stesso, porrà sempre dentro di sé il termine di ogni bene e ripeterà ciò che disse Stilbone, quello Stilbone che Epicuro rimprovera nella sua lettera. La sua città natale era stata presa; egli aveva perduto la moglie e i figli. Mentre, solo e tuttavia felice, usciva fuori dalla città incendiata, gli fu chiesto da Demetrio, che fu chiamato Poliorcete per le città espugnate, se avesse perduto qualcosa.

«Tutti i miei beni» rispose «sono con me.» Ecco un uomo forte e coraggioso che vinse il suo stesso vincitore. «Non ho perduto nulla» egli disse, e costrinse l’altro a dubitare se avesse veramente vinto. «Tutti i miei beni sono con me»: la giustizia, la virtù, la prudenza e soprattutto il giusto criterio di non considerare mai un bene ciò che può essere tolto.[...]

Ma non credere che solo noi stoici sappiamo esprimere belle massime: anche Epicuro, quello stesso che biasima Stilbone, ha fatto un’affermazione analoga: e tu accettala benignamente, anche se ho già pagato il debito di oggi. Egli dice: «Colui a cui non sembra già troppo quello che ha, fosse anche padrone del mondo, è un infelice». O, se preferisci (ma bisogna dare importanza al significato concreto, più che alle parole): «È misero, anche se è padrone del mondo, chi non è contento di sé».

E, perché tu sappia che sono concetti comuni, dettati dalla stessa natura, troverai in un poeta comico queste parole: «Non è felice chi non crede di esserlo». Che importa quale sia la tua condizione, se a te sembra cattiva? «Ma» mi dirai «se il ricco perverso si dichiara felice, e così pure colui che è padrone di molti servi, ma è servo di un numero maggiore di padroni, forse che diventerà felice per la sua affermazione?» Non ciò che dice importa, ma ciò che sente, e non ciò che sente occasionalmente, ma sempre. In ogni caso, non c’è da temere che un bene così grande capiti a chi non ne sia degno: solo il saggio è soddisfatto delle sue cose. Ogni stoltezza è angustiata dalla nausea di sé. Addio.


Guida alla lettura


1) Quale obiezione viene mossa da Epicuro all’autosufficienza come forma di saggezza?
L'obiezione mossa da Epicuro all'autosufficienza come forma di saggezza riguarda il concetto stesso di autosufficienza e la sua relazione con l'amicizia. Epicuro critica coloro che sostengono che il saggio sia autosufficiente e non abbia bisogno di amici, sostenendo che questo sarebbe contrario alla vera natura dell'amicizia. In sostanza, Epicuro afferma che il saggio non può essere veramente autosufficiente se esclude l'amicizia dalla sua vita, poiché l'amicizia è considerata una parte essenziale della vita umana e della felicità.

2) In che senso autosufficienza e impassibilità sono parte dell’ideale di saggezza stoico?
Nell'ideale di saggezza stoica, l'autosufficienza e l'impassibilità sono concetti fondamentali che delineano il comportamento e la mentalità del saggio.

L'autosufficienza si riferisce alla capacità del saggio di trovare tutto ciò di cui ha bisogno all'interno di sé stesso, senza dipendere eccessivamente dalle circostanze esterne. Questo non significa isolamento sociale o rifiuto di interazioni con gli altri, piuttosto una capacità di essere felici e completi anche senza avere tutto ciò che il mondo esterno può offrire. Il saggio stoico ricerca la sua felicità e il suo benessere interiore principalmente attraverso la virtù e la saggezza, anziché attraverso ricchezza, otere o piaceri materiali.

L'impassibilità, o apàtheia, indica la capacità del saggio di mantenere la tranquillità e la calma interiore di fronte alle difficoltà e alle avversità della vita. Non si tratta di essere insensibili o indifferenti al dolore, piuttosto di essere in grado di affrontare le prove della vita con forza d'animo e equanimità, senza essere sopraffatti dalle emozioni negative. L'impassibilità non implica la mancanza di emozioni, piuttosto il dominio su di esse, consentendo al saggio di prendere decisioni razionali e sagge anche nelle situazioni più difficili.

In sintesi, l'autosufficienza e l'impassibilità sono elementi chiave dell'ideale di saggezza stoica, contribuendo a una vita di virtù, equilibrio interiore e serenità indipendentemente dalle circostanze esterne.

3) Riassumi la critica al concetto (epicureo) di amicizia come utilità.
La critica al concetto epicureo di amicizia come utilità si concentra sul fatto che l'amicizia basata esclusivamente sull'utilità materiale o sull'opportunismo è superficiale e non autentica. Seneca sottolinea che cercare amicizie solo per ottenere vantaggi personali o per soddisfare bisogni contingenti è contrario alla vera natura dell'amicizia. Queste "amicizie di circostanza" sono destinate a finire quando non sono più utili e non si basano su una reciproca affinità o stima. Invece, Seneca sostiene che l'amicizia vera deve essere disinteressata e basata sulla condivisione di valori, interessi e affinità emotive. Questa critica riflette la visione stoica secondo cui l'amicizia è un bene fine a se stesso e deve essere coltivata per il suo valore intrinseco, non per ciò che può offrire in termini di vantaggi materiali o utilitaristici.

4) Riassumi l’atteggiamento del saggio stoico nei confronti dell’amicizia.
L'atteggiamento del saggio stoico nei confronti dell'amicizia è caratterizzato da una comprensione profonda del valore e della natura autentica dell'amicizia stessa. Il saggio stoico riconosce l'importanza dell'amicizia come una virtù fondamentale e desidera avere amici non per interessi personali o materiali, per il semplice piacere di praticare l'amicizia stessa. Pur essendo autosufficiente e potendo vivere felice anche senza amici, il saggio apprezza e coltiva le relazioni amichevoli, trovando in esse un valore intrinseco che va oltre l'utilità o il vantaggio personale. Inoltre, il saggio è in grado di affrontare la perdita di un amico con serenità, poiché comprende che la felicità deriva da un equilibrio interiore e non dipende dalle circostanze esterne. Infine, il saggio stoico cerca di coltivare amicizie basate sulla reciprocità, sulla lealtà e sull'affinità spirituale, evitando le "amicizie di circostanza" che si fondano sull'opportunismo e scompaiono quando non sono più utili.

5) Quali beni restano sempre in possesso del saggio?
Il saggio, secondo Seneca, possiede beni interiori che restano sempre con lui, indipendentemente dalle circostanze esterne. Questi beni includono la giustizia, la virtù, la prudenza e soprattutto il giusto criterio di non considerare mai un bene ciò che può essere tolto. In altre parole, il saggio possiede risorse interiori, come la saggezza e la virtù, che sono indipendenti dalle fortune esterne e che costituiscono la base della sua felicità e del suo equilibrio interiore.

6) Come affronta la perdita degli altri beni?
Seneca affronta la perdita degli altri beni con una prospettiva stoica, che enfatizza la natura transitoria dei beni materiali e la necessità di concentrarsi sui valori interiori e sulla virtù per raggiungere la vera felicità. Secondo Seneca, il saggio stoico è in grado di affrontare la perdita degli altri beni mantenendo la propria serenità interiore e la felicità, poiché comprende che ciò che davvero conta sono le virtù morali e la coerenza con i propri principi.

Un esempio di come il saggio affronta la perdita degli altri beni può essere trovato nell'esempio di Stilbone, citato da Seneca. Stilbone, nonostante abbia perso la sua città, la moglie e i figli, rimane comunque felice perché conserva i suoi valori interiori, come la giustizia, la virtù e la prudenza. Questo dimostra che il saggio, pur potendo perdere molti beni materiali, mantiene la sua felicità interiore e la sua integrità morale.

In sintesi, Seneca sostiene che il saggio non si aggrappa ai beni materiali o esterni per la propria felicità, trova la vera gioia nella virtù e nella coerenza con i propri principi morali, rendendolo in grado di affrontare la perdita degli altri beni con serenità e equanimità.

7) Che cosa gli basta per essere felice?
Per essere felice, il saggio, secondo Seneca, ha bisogno solo di un animo retto, coraggioso e noncurante della fortuna. In altre parole, la felicità del saggio non dipende dalle circostanze esterne, è una condizione interiore basata sulla virtù e sulla capacità di affrontare le difficoltà della vita con serenità e equanimità. Questo significa che, anche se il saggio può avere bisogno di molte cose per vivere, come le mani, gli occhi e altre necessità quotidiane, non soffre la mancanza di nulla, perché la sua felicità è indipendente dalle sue condizioni materiali.


Guida alla Comprensione


1) Come si spiega il paradosso di Seneca che il saggio possa morire per l’amico, proprio in quanto è autosufficiente?
Il paradosso di Seneca riguardo al fatto che il saggio possa morire per l'amico nonostante sia autosufficiente si basa sull'idea che l'autosufficienza non significa isolamento o mancanza di relazioni sociali, piuttosto una capacità di trovare la felicità dentro di sé, indipendentemente dalle circostanze esterne.

Il saggio, pur essendo autosufficiente e non dipendente dagli altri per la propria felicità, comprende il valore intrinseco dell'amicizia e desidera coltivarla. In altre parole, il saggio non ha bisogno di amici per essere felice, sceglie di avere amici perché riconosce il valore dell'amicizia stessa.

Quando Seneca parla del saggio che è disposto a morire per l'amico, non si riferisce a un atto di dipendenza o di debolezza, piuttosto a un'espressione della forza interiore e della coerenza morale del saggio. Il saggio, avendo raggiunto una completa armonia interiore e una rettitudine morale, è capace di sacrificare se stesso per il bene degli altri, compreso quello dell'amico, senza compromettere la sua felicità o la sua autosufficienza.

Pertanto, il paradosso di Seneca sottolinea che l'autosufficienza non impedisce al saggio di avere relazioni significative o di compiere atti di generosità e altruismo, anzi gli consente di farlo in modo più autentico e disinteressato, senza condizionamenti o aspettative.

2) Perché il saggio stoico dà valore all’amicizia?
Il saggio stoico dà valore all'amicizia perché la considera una virtù intrinseca e un bene fine a sé stesso. Secondo Seneca e altri filosofi stoici, l'amicizia non è cercata per motivi egoistici o di convenienza, per un impulso naturale e per il desiderio di condividere una connessione autentica con gli altri esseri umani.

Inoltre, l'amicizia offre al saggio la possibilità di praticare e coltivare virtù come la generosità, la fiducia reciproca, la lealtà e la compassione. Essa fornisce un sostegno emotivo e morale nelle difficoltà della vita e permette al saggio di crescere spiritualmente attraverso l'interazione e il confronto con gli altri.

Nonostante il saggio sia autosufficiente e possa vivere felice anche senza amici, egli desidera comunque avere legami significativi con gli altri esseri umani, non solo per il loro supporto pratico, soprattutto per arricchire la propria esistenza con l'amicizia vera e autentica.

3) Perché si può dire che il saggio abbia sempre ciò che gli serve per essere felice?
Si può dire che il saggio abbia sempre ciò che gli serve per essere felice perché la felicità, secondo Seneca, non dipende dalle circostanze esterne ma è un bene interiore. Il saggio possiede virtù come la giustizia, la virtù e la prudenza, che sono fondamentali per la sua felicità e che nessuno può privargli. Anche se può essere privato di beni esterni o affrontare difficoltà nella vita, il saggio mantiene sempre la sua integrità interiore e la sua serenità d'animo. Pertanto, indipendentemente dalle circostanze esterne, il saggio è in grado di trovare la felicità dentro di sé grazie alla sua rettitudine e al suo atteggiamento verso la vita.

4) In che cosa consiste la contentezza di sé, come forma di virtù filosofica, che viene banalizzata nell’idea di accontentarsi di poco?
La contentezza di sé come forma di virtù filosofica non si limita semplicemente ad accontentarsi di poco, ma piuttosto rappresenta una profonda soddisfazione interiore e un'accettazione di sé e delle proprie circostanze. Consiste nel riconoscere il proprio valore e la propria dignità indipendentemente dalle situazioni esterne o dai beni materiali posseduti. Essa implica una sorta di tranquillità interiore e fiducia in se stessi, che permette al individuo di affrontare le sfide della vita con serenità e coraggio. La contentezza di sé si basa sull'autenticità e sulla consapevolezza dei propri valori e obiettivi, senza essere influenzata dalle opinioni degli altri o dalle aspettative sociali. In questo senso, è una forma di virtù che va oltre il semplice accontentarsi di poco, poiché riguarda una profonda realizzazione interiore e una connessione con il proprio essere autentico.

5) Perché Seneca insiste sul fatto che la felicità non possa capitare «sempre» ai non saggi?
Seneca insiste sul fatto che la felicità non possa capitare "sempre" ai non saggi perché crede che la vera felicità derivi dall'interno, dalla soddisfazione interiore e dalla tranquillità d'animo, piuttosto che dalle circostanze esterne o dal possesso di ricchezze materiali. Secondo Seneca, solo il saggio è in grado di raggiungere questa forma di felicità, poiché possiede le virtù interiori che gli permettono di affrontare serenamente le sfide e le difficoltà della vita.

Gli "stolti", al contrario, non possono sperare di raggiungere una felicità duratura poiché dipendono dalle cose esterne per sentirsi appagati e non sono in grado di trovare soddisfazione interiore. Anche se potrebbero godere di momenti di piacere o successo materiale, questa felicità è temporanea e soggetta a cambiamenti, mentre la vera felicità del saggio è costante e indipendente dalle circostanze esterne.

Pertanto, Seneca enfatizza che solo coloro che coltivano le virtù interiori e cercano la felicità dentro di sé possono sperare di raggiungere una felicità duratura e autentica.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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