Parafrasi, Analisi e Commento di: "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" di Giacomo Leopardi


Immagine Giacomo Leopardi
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi puntuale
4) Parafrasi discorsiva
5) Figure Retoriche
6) Analisi e Commento
7) Confronti
8) Domande e Risposte

Scheda dell'Opera


Autore: Giacomo Leopardi
Titolo dell'Opera: Canti
Prima edizione dell'opera: 1831, presso l'editore Piatti
Genere: Poesia lirica
Forma metrica: Canzone di strofe libere di endecasillabi e settenari



Introduzione


Il "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" è una delle poesie più celebri di Giacomo Leopardi, composta tra il 1829 e il 1830 e pubblicata nel 1831. Questa lirica fa parte dei "Grandi idilli", un gruppo di poesie in cui Leopardi esprime in modo particolarmente intenso la sua riflessione sul dolore umano, la natura e l'infinito. Il poema assume la forma di un monologo in cui un pastore asiatico, figura simbolica e solitaria, si interroga sul senso dell'esistenza, il destino degli esseri viventi e il mistero della vita. Attraverso il dialogo immaginario con la luna, il pastore esprime il proprio smarrimento e il sentimento di una solitudine cosmica, che riflette il pessimismo cosmico leopardiano. La poesia è caratterizzata da un linguaggio semplice ma profondamente evocativo, e da un ritmo lento e meditativo che accentua l'atmosfera malinconica e contemplativa del testo.


Testo e Parafrasi puntuale


1. Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
2. silenziosa luna?
3. Sorgi la sera, e vai,
4. contemplando i deserti; indi ti posi.
5. Ancor non sei tu paga
6. di riandare i sempiterni calli?
7. Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
8. di mirar queste valli?
9. Somiglia alla tua vita
10. la vita del pastore.
11. Sorge in sul primo albore
12. move la greggia oltre pel campo, e vede
13. greggi, fontane ed erbe;
14. poi stanco si riposa in su la sera:
15. altro mai non ispera.
16. Dimmi, o luna: a che vale
17. al pastor la sua vita,
18. la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
19. questo vagar mio breve,
20. il tuo corso immortale?

21. Vecchierel bianco, infermo,
22. mezzo vestito e scalzo,
23. con gravissimo fascio in su le spalle,
24. per montagna e per valle,
25. per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
26. al vento, alla tempesta, e quando avvampa
27. l'ora, e quando poi gela,
28. corre via, corre, anela,
29. varca torrenti e stagni,
30. cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
31. senza posa o ristoro,
32. lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
33. colá dove la via
34. e dove il tanto affaticar fu vòlto:
35. abisso orrido, immenso,
36. ov'ei precipitando, il tutto obblia.
37. Vergine luna, tale
38. è la vita mortale.

39. Nasce l'uomo a fatica,
40. ed è rischio di morte il nascimento.
41. Prova pena e tormento
42. per prima cosa; e in sul principio stesso
43. la madre e il genitore
44. il prende a consolar dell'esser nato.
45. Poi che crescendo viene,
46. l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
47. con atti e con parole
48. studiasi fargli core,
49. e consolarlo dell'umano stato:
50. altro ufficio piú grato
51. non si fa da parenti alla lor prole.
52. Ma perché dare al sole,
53. perché reggere in vita
54. chi poi di quella consolar convenga?
55. Se la vita è sventura,
56. perché da noi si dura?
57. Intatta luna, tale
58. è lo stato mortale.
59. Ma tu mortal non sei,
60. e forse del mio dir poco ti cale.

61. Pur tu, solinga, eterna peregrina,
62. che sí pensosa sei, tu forse intendi
63. questo viver terreno,
64. il patir nostro, il sospirar, che sia;
65. che sia questo morir, questo supremo 66. scolorar del sembiante,
67. e perir della terra, e venir meno
68. ad ogni usata, amante compagnia.
69. E tu certo comprendi
70. il perché delle cose, e vedi il frutto
71. del mattin, della sera,
72. del tacito, infinito andar del tempo.
73. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
74. rida la primavera,
75. a chi giovi l'ardore, e che procacci
76. il verno co' suoi ghiacci.
77. Mille cose sai tu, mille discopri,
78. che son celate al semplice pastore.
79. Spesso quand'io ti miro
80. star cosí muta in sul deserto piano,
81. che, in suo giro lontano, al ciel confina;
82. ovver con la mia greggia
83. seguirmi viaggiando a mano a mano;
84. e quando miro in cielo arder le stelle;
85. dico fra me pensando:
86. — A che tante facelle?
87. che fa l'aria infinita, e quel profondo
88. infinito seren? che vuol dir questa
89. solitudine immensa? ed io che sono? —
90. Cosí meco ragiono: e della stanza
91. smisurata e superba,
92. e dell'innumerabile famiglia;
93. poi di tanto adoprar, di tanti moti
94. d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
95. girando senza posa,
96. per tornar sempre lá donde son mosse;
97. uso alcuno, alcun frutto
98. indovinar non so. Ma tu per certo,
99. giovinetta immortal, conosci il tutto.
100. Questo io conosco e sento,
101. che degli eterni giri,
102. che dell'esser mio frale,
103. qualche bene o contento
104. avrá fors'altri; a me la vita è male.

105. greggia mia che posi, oh te beata,
106. che la miseria tua, credo, non sai!
107. Quanta invidia ti porto!
108. Non sol perché d'affanno
109. quasi libera vai;
110. ch'ogni stento, ogni danno,
111. ogni estremo timor subito scordi;
112. ma piú perché giammai tedio non provi.
113. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
114. tu se' queta e contenta;
115. e gran parte dell'anno
116. senza noia consumi in quello stato.
117. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
118. e un fastidio m'ingombra
119. la mente; ed uno spron quasi mi punge
120. sí che, sedendo, piú che mai son lunge
121. da trovar pace o loco.
122. E pur nulla non bramo,
123. e non ho fino a qui cagion di pianto.
124. Quel che tu goda o quanto,
125. non so giá dir; ma fortunata sei.
126. Ed io godo ancor poco,
127. o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
128. Se tu parlar sapessi, io chiederei:
129. — Dimmi: perché giacendo
130. a bell'agio, ozioso,
131. s'appaga ogni animale;
132. me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? —

133. Forse s'avess'io l'ale
134. da volar su le nubi,
135. e noverar le stelle ad una ad una,
136. o come il tuono errar di giogo in giogo,
137. piú felice sarei, dolce mia greggia,
138. piú felice sarei, candida luna.
139. O forse erra dal vero,
140. mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
141. forse in qual forma, in quale
142. stato che sia, dentro covile o cuna,
143. è funesto a chi nasce il dí natale.
1. Cosa fai lassù, luna, nel cielo notturno? Dimmi, cosa fai,
2. Luna silenziosa?
3. Sul far della sera tu sorgi dall'orizzonte e compi il tuo percorso,
4. E osservi dall'alto i paesaggi deserti, poi torni a scendere sino a scomparire.
5. Non sei ancora stanca
6. Di percorrere il tuo eterno tragitto sempre identico?
7. Non cerchi ancora di evitare, ancora stai lassù ostinata
8. A guardare queste valli che ti scorrono sotto?
9. È simile al tuo modo di vivere
10. Quello del pastore.
11. Egli si sveglia sul far dell'alba
12. Conduce il suo gregge oltre il campo, e da lì può vedere
13. Altri greggi, stazzi (fontane destinate a far abbeverare il bestiame) e pascoli;
14. Poi stanco del cammino torna a riposarsi quando si fa sera:
15. E non chiede altro alla sua esistenza.
16. Dimmi, luna: quanto vale
17. Per un pastore la propria vita,
18. E quanto per te la tua? Dimmi: dove porta
19. Questa mia esistenza breve e vagabonda,
20. Dove porta la tua che invece è eterna?

21. Un povero vecchio dai capelli ingrigiti dall'età e malato,
22. Vestito di stracci e senza scarpe,
23. Con un fardello pesantissimo sulle spalle,
24. Che per monti e vallate,
25. Tra cime montuose e massi, e boschi,
26. Tra il vento e le bufere, e tanto quando il caldo brucia
27. Le ore del giorno, quanto quando il freddo le fa gelare,
28. Corre via e fa il suo cammino, e corre, ansima dalla fatica,
29. Oltrepassa fiumi e laghi,
30. Poi cade, e si rialza, e ancora si affretta nel suo percorso,
31. Senza potersi mai né riposare né trovare un attimo di sollievo,
32. Consumato dalla fatica e insanguinato; finché giunge
33. Nel luogo dove il sentiero
34. E tanto affanno erano destinati a finire:
35. Un precipizio spaventoso, profondissimo, tanto da sembrare infinito,
36. Dov'egli precipita, dimenticando tutta il dolore che ha provato.
37. Luna candida e innocente, questa
38. È la vita mortale.

39. Gli esseri umani nascono provando dolore
40. E perfino l'atto di nascere pone il rischio di morire.
41-42. Le prime sensazioni provate da chi nasce sono dolore e sofferenza, e già dai primi momenti di vita
43. la madre e il padre
44. devono consolare i figli per essere nati.
45. E mentre crescono,
46. entrambi continuano a sostenerlo, e in ogni momento
47. con il loro affetto e con i loro insegnamenti
48. cercano il modo di far loro coraggio,
49. e di consolarli ancora per la loro condizione di essere umani.
50. Non esiste altro dovere più sensato e positivo di questo
51. tra quelli che i genitori devono ai propri figli.
52. Ma perché permettere di venire alla luce,
53. perché mantenere in vita poi negli anni,
54. chi poi deve essere consolato perché ciò è accaduto?
55. Se la vita non è altro che una disgrazia impostaci da chissà cosa
56. perché ci teniamo così tanto?
57. Luna irraggiungibile e innocente, questa
58. è la condizione della vita degli uomini.
59. Ma tu sei un astro eterno e immortale,
60. E probabilmente non ti interessa nulla di quello che io dico.

61. Eppure tu, solitaria e vagabonda per l'eternità,
62. tu che hai un aspetto così pensieroso, tu forse sei capace di comprendere
63-64. che cosa significhi questa nostra vita sulla terra, la nostra sofferenza e il nostro pianto;
65-66. che cosa significhi la morte e lo sbiancare in volto dei nostri corpi quando diventano cadaveri;
67-68. e il fatto che ogni cosa sulla terra sia destinata a morire, e a separarsi ad ogni affetto e amore a cui si è abituati.
69. E tu sicuramente capisci
70. le ragioni che stanno dietro ad ogni cosa, e vedi chiaramente quale funzione abbia
71. il passare dei giorni dal mattino alla sera,
72. lo scorrere infinito e silenzioso del tempo.
73. Tu devi certamente sapere a chi sia rivolto il dolce sorriso
74. della primavera,
75. a chi fa piacere che le estati siano calde e a che cosa serva
76. il freddo dell'inverno.
77. Tu sai infinite cose, infinite potresti scoprirne,
78. che sono al di là della comprensione di un umile pastore come me.
79. Spesso, quando ti osservo
80. che te ne stai lì sospesa in silenzio sulle pianure deserte di questa regione (l'Asia),
81. il cui panorama è tagliato a metà dall'orizzonte che le divide dal cielo,
82. e dove con il mio gregge.
83. io viaggio e vivo di giorno in giorno,
84. e quando vedo intorno a te le stelle brillare,
85. spesso io mi domando:
86. Cosa saranno mai e perché così tante scintille nel cielo?
87. Cosa accade negli spazi infiniti e in quell'infinito e profondissimo
88. abisso silenzioso (lo spazio, ndr)? Cosa può voler mai dire questa immensa
89. solitudine in cui noi esseri umani ci troviamo? E io, chi sono?
90. In tal modo ragiono tra me e me: e di questo universo
91. smisurato e incommensurabile,
92. e dell'indefinibile ed enorme numero di astri,
93. poi dei loro enormi movimenti nelle distanze cosmiche, delle loro gigantesche orbite,
94. della natura di ogni pianeta o stella o di ciò che è qui sulla terra,
95. che gravita per l'eternità,
96. e torna sempre nel punto in cui è partita,
97. nessuna utilità, nessuno scopo di tutto ciò
98. io riesco a trovare. Ma tu, di sicuro,
99. eterna fanciulla che mai invecchia, conosci il perché di ogni cosa.
100. Io, da parte mia, so bene una sola cosa:
101. che dei moti infiniti del cosmo,
102. che della fragilità della mia natura di essere umano,
103. qualche gioia o soddisfazione
104. potrà essere forse provata da qualcun altro, per me la vita non è altro che un male senza scampo.

105. Gregge mio, come sei felice tu,
106. che, almeno credo, non ti rendi conto della tua miseria.
107. Quanta invidia provo per te!
108. Non solo perché delle sofferenze
109. quasi non senti il peso;
110. perché di ogni fatica, di ogni ferita,
111. di ogni timore subito riesci a dimenticarti,
112. ma ancora di più perché non provi mai quest'eterna insoddisfazione che invece tormenta me.
113. Quando puoi stenderti all'ombra, sui prati,
114. tu sei calma e felice,
115. e gran parte del tuo tempo
116. riesci ad occupare così;
117. anch'io accanto a te mi stendo sui prati, all'ombra,
118. e questo pensiero fastidioso si piazza
119. nella mia mente, e come una frusta mi sferza
120. a tal punto che, anche stando seduto a riposare, sono lontanissimo
121. dal riuscire a trovare pace o sollievo.
122. Eppure non c'è nessuna ambizione particolare che io nutra su me stesso,
123. e non ho nemmeno fino ad ora motivo di soffrire così tanto.
124. Quanto tu riesca ad essere lieta, o come,
125. davvero non saprei dirlo, ma di certo sei più fortunata di me.
126. Ed io lieto lo sono assai poco,
127. mio gregge, né questo è l'unico dolore che voglio ora sfogare.
128. Se tu sapessi parlare, io ti chiederei:
129. "Dimmi: come fa stando a riposo,
130. comodo, nell'ozio,
131. a provar piacere ogni animale;
132. mentre io, appena mi abbandono alla quiete, sono assalito dai pensieri infelici?"

133. Magari, se io potessi avere delle ali
134. così da volare al di là delle nuvole,
135. e poter contare le stelle da vicino ad una ad una,
136. oppure come i tuoni potessi vagare tra le vette dei monti,
137. sarei più felice, mio quieto gregge,
138. sarei più felice, bianca luna.
139. O forse cerca strade sbagliate,
140. cercando di imitare lo stato delle altre cose, la mia immaginazione:
141. forse in qualunque forma o sembianza, in qualunque
142. condizione possibile, che avvenga in una stalla o in una culla,
143. il giorno in cui si nasce è una disgrazia per chi viene al mondo.



Parafrasi discorsiva


[vv. 1-20] Cosa fai lassù, luna, nel cielo notturno? Dimmi, cosa fai, luna silenziosa? Sul far della sera tu sorgi dall'orizzonte e compi il tuo percorso, e osservi dall'alto i paesaggi deserti, poi torni a scendere sino a scomparire. Non sei ancora stanca di percorrere il tuo eterno tragitto sempre identico? Non cerchi ancora di evitare, ancora stai lassù ostinata a guardare queste valli che ti scorrono sotto? È simile al tuo modo di vivere quello del pastore. Egli si sveglia sul far dell'alba e conduce il suo gregge oltre il campo, e da lì può vedere altri greggi, stazzi (fontane destinate a far abbeverare il bestiame) e pascoli; poi stanco del cammino torna a riposarsi quando si fa sera: e non chiede altro alla sua esistenza. Dimmi, luna: quanto vale per un pastore la propria vita, e quanto per te la tua? Dimmi: dove porta questa mia esistenza breve e vagabonda, dove porta la tua che invece è eterna?

[vv. 21-38] Un povero vecchio dai capelli ingrigiti dall'età e malato, vestito di stracci e senza scarpe, con un fardello pesantissimo sulle spalle, che per monti e vallate, tra cime montuose e massi, e boschi, tra il vento e le bufere, e tanto quando il caldo brucia le ore del giorno, quanto quando il freddo le fa gelare, corre via e fa il suo cammino, e corre, ansima dalla fatica, oltrepassa fiumi e laghi, poi cade, e si rialza, e ancora si affretta nel suo percorso, senza potersi mai né riposare né trovare un attimo di sollievo, consumato dalla fatica e insanguinato; finché giunge nel luogo dove il sentiero e tanto affanno erano destinati a finire: un precipizio spaventoso, profondissimo, tanto da sembrare infinito, dov'egli precipita, dimenticando tutta il dolore che ha provato. Luna candida e innocente, questa è la vita mortale.

[vv. 39-60] Gli esseri umani nascono provando dolore e perfino l'atto di nascere pone il rischio di morire. Le prime sensazioni provate da chi nasce sono dolore e sofferenza, e già dai primi momenti di vita la madre e il padre devono consolare i figli per essere nati. E mentre crescono, entrambi continuano a sostenerlo, e in ogni momento con il loro affetto e con i loro insegnamenti cercano il modo di far loro coraggio, e di consolarli ancora per la loro condizione di essere umani. Non esiste altro dovere più sensato e positivo di questo tra quelli che i genitori devono ai propri figli. Ma perché permettere di venire alla luce, perché mantenere in vita poi negli anni, chi poi deve essere consolato perché ciò è accaduto? Se la vita non è altro che una disgrazia impostaci da chissà cosa perché ci teniamo così tanto? Luna irraggiungibile e innocente, questa è la condizione della vita degli uomini. Ma tu sei un astro eterno e immortale, e probabilmente non ti interessa nulla di quello che io dico.

[vv. 61-104] Eppure tu, solitaria e vagabonda per l'eternità, tu che hai un aspetto così pensieroso, tu forse sei capace di comprendere che cosa significhi questa nostra vita sulla terra, la nostra sofferenza e il nostro pianto; che cosa significhi la morte e lo sbiancare in volto dei nostri corpi quando diventano cadaveri; e il fatto che ogcosa sulla terra sia destinata a morire e a separarsi ad ogni affetto e amore a cui si è abituati. E tu sicuramente capisci le ragioni che stanno dietro ad ogni cosa, e vedi chiaramente quale funzione abbia il passare dei giorni dal mattino alla sera, lo scorrere infinito e silenzioso del tempo. Tu devi certamente sapere a chi sia rivolto il dolce sorriso della primavera, a chi fa piacere che le estati siano calde e a che cosa serva il freddo dell'inverno. Tu sai infinite cose, infinite potresti scoprirne, che sono al di là della comprensione di un umile pastore come me. Spesso, quando ti osservo che te ne stai lì sospesa in silenzio sulle pianure deserte di questa regione (l'Asia), il cui panorama è tagliato a metà dall'orizzonte che le divide dal cielo, e dove con il mio gregge io viaggio e vivo di giorno in giorno, e quando vedo intorno a te le stelle brillare, spesso io mi domando: cosa saranno mai e perché così tante scintille nel cielo? Cosa accade negli spazi infiniti e in quell'infinito e profondissimo abisso silenzioso (lo spazio, ndr)? Cosa può voler mai dire questa immensa solitudine in cui noi esseri umani ci troviamo? E io, chi sono? In tal modo ragiono tra me e me: e di questo universo smisurato e incommensurabile, e dell'indefinibile ed enorme numero di astri, poi dei loro enormi movimenti nelle distanze cosmiche, delle loro gigantesche orbite, della natura di ogni pianeta o stella o di ciò che è qui sulla terra, che gravita per l'eternità, e torna sempre nel punto in cui è partita, nessuna utilità, nessuno scopo di tutto ciò io riesco a trovare. Ma tu, di sicuro, eterna fanciulla che mai invecchia, conosci il perché di ogni cosa. Io, da parte mia, so bene una sola cosa: che dei moti infiniti del cosmo, che della fragilità della mia natura di essere umano, qualche gioia o soddisfazione potrà essere forse provata da qualcun altro, per me la vita non è altro che un male senza scampo.

[vv. 105-132] Gregge mio, come sei felice tu, che, almeno credo, non ti rendi conto della tua miseria. Quanta invidia provo per te! Non solo perché delle sofferenze quasi non senti il peso; perché di ogni fatica, di ogni ferita, di ogni timore subito riesci a dimenticarti, ma ancora di più perché non provi mai quest'eterna insoddisfazione che invece tormenta me. Quando puoi stenderti all'ombra, sui prati, tu sei calmo e felice, e gran parte del tuo tempo riesci ad occupare così; anch'io accanto a te mi stendo sui prati, all'ombra, e questo pensiero fastidioso si piazza nella mia mente, e come una frusta mi sferza a tal punto che, anche stando seduto a riposare, sono lontanissimo dal riuscire a trovare pace o sollievo. Eppure non c'è nessuna ambizione particolare che io nutra su me stesso, e non ho nemmeno fino ad ora motivo di soffrire così tanto. Quanto tu riesca ad essere lieto, o come, davvero non saprei dirlo, ma di certo sei più fortunato di me. Ed io lieto lo sono assai poco, mio gregge, né questo è l'unico dolore che voglio ora sfogare. Se tu sapessi parlare, io ti chiederei: "Dimmi: come fa stando a riposo, comodo, nell'ozio, a provar piacere ogni animale; mentre io, appena mi abbandono alla quiete, sono assalito dai pensieri infelici?".

[vv. 133-143] Magari, se io potessi avere delle ali così da volare al di là delle nuvole, e poter contare le stelle da vicino ad una ad una, oppure come i tuoni potessi vagare tra le vette dei monti, sarei più felice, mio quieto gregge, sarei più felice, bianca luna. O forse cerca strade sbagliate, cercando di imitare lo stato delle altre cose, la mia immaginazione: forse in qualunque forma o sembianza, in qualunque condizione possibile, che avvenga in una stalla o in una culla, il giorno in cui si nasce è una disgrazia per chi viene al mondo.


Figure Retoriche


Enjambements: vv. 12-13, vv. 16-17, vv. 18-19, vv. 26-27, vv. 69-70, vv. 70-71, vv. 75-76, vv. 87-88, vv. 88-89, vv. 90-91, vv. 93-94, vv. 108-109, vv. 108-109, vv. 141-142.

Allitterazioni: vv. 16-19, vv. 1-2, v. 14, vv. 3-4, vv. 65-66: Della "v": "Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita,/ la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve,/ il tuo corso immortale?". Della "l": "Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/ silenziosa luna?". Della "s": "poi stanco si riposa in su la sera", "sorgi la sera, e vai,/ contemplando i deserti; indi ti posi.", "che sia questo morir, questo supremo/ scolorar del sembiante".

Anafore: vv. 5-7, vv. 16, 18, vv. 52-53, 56, vv. 101-102, vv. 137-138, vv. 133, 139, 141: "ancor", "dimmi", "perché", "che", "più felice sarei", "forse".

Apostrofi: v. 1, v. 2, v. 16, v. 37, v. 57, v. 61, v. 99, v. 105, 127, v. 137, v. 138: "luna", "silenziosa luna", "o luna", "vergine luna", "intatta luna", "solinga, eterna peregrina", "giovinetta immortal", "o greggia mia", "dolce mia greggia", "candida luna".

Domanda retorica: vv. 1-2, vv. 5-6, vv. 7-8, vv. 16-18, vv. 18-20, vv. 52-54, vv. 55-56, v. 86, vv. 87-88, vv. 88-89, vv. 129-132: "che fai tu, luna...?", "Ancor non sei tu paga...calli?", "Ancor non prendi a schivo... valli?", "Dimmi, o luna... a voi?", "dimmi: ove tende... immortale?", "Ma perché dare al sole .... Consolar convenga?", "Se la vita ...si dura?", "A che tante facelle?", "Che fa l'aria infinita ...infinito seren?", "che vuol dir... immensa? Ed io che sono?", "dimmi: perché giacendo / ... il tedio assale?".

Esclamazioni: v. 105-106, v. 107: "o greggia mia che posi, oh te beata / che la miseria tua, credo, non sai!", "Quanta invidia ti porto!".

Epanadiplosi: v. 1: "che fai... che fai".

Anadiplosi: vv. 9-10, vv. 17-18, vv. 64-65: "alla tua vita/ la vita", "la sua vita/ la vostra vita", "che sia;/ che sia".

Anastrofi: vv. 94-98, vv. 101-104, vv. 108-109, v. 132: "d'ogni celeste, ogni terrena cosa/... uso alcuno, alcun frutto/ indovinar non so", "degli eterni giri / dell'esser mio frale,/ qualche bene o contento/ avrà fors'altri", "d'affanno/ quasi libera vai", "me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?".

Chiasmi: vv. 9-10, vv. 16-18, vv. 63-68, v. 97: "Somiglia alla tua vita / la vita del pastore.", "a che vale /al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi?", "questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia; / che sia questo morir, questo supremo / scolorar del sembiante, / e perir della terra, e venir meno / ad ogni usata, amante compagnia.", "uso alcuno, alcun frutto".

Sineddoche: v. 21, v. 88, v. 94: "bianco", "seren", "celeste".

Metonimia: v. 142: "dentro covile o cuna".

Metafore: v. 19, v. 52, vv. 65-66, v. 70, v. 75, v. 86, vv. 90-91, v. 92, v. 119: "questo vagar mio breve", "dare al sole", "supremo/ scolorar del sembiante", "frutto", "l'ardore", "facelle", "stanza/ smisurata e superba", "innumerabile famiglia", "uno spron quasi mi punge".

Ossimori: v. 40, v. 143: "è rischio di morte il nascimento", "è funesto a chi nasce il dì natale".

Iperbole: vv. 35-36: "abisso orrido, immenso/ ov'ei precipitando il tutto obblia".

Adynaton: v. 128, vv. 133-138: "Se tu parlar sapessi, io chiederei", "Forse s'avess'io l'ale... più felice sarei".

Allegoria: v. 21: "Vecchierel bianco infermo" (occupa l'intera strofa).

Personificazione: vv. 61-62, v. 80, v. 99: "solinga, eterna peregrina,/ che sì pensosa sei", "muta", "giovinetta immortal".

Antitesi: vv. 17-18, vv. 19-20, vv. 57-59, vv. 98-100, vv. 103-104, vv. 113-117, vv. 124-126, vv. 129-132: "al pastor la sua vita/ la vostra vita a voi", "questo vagar mio breve/ il tuo corso immortale", "tale/ è lo stato mortale./ Ma tu mortal non sei", "Ma tu per certo,/ giovinetta immortal, conosci il tutto./ Questo io conosco e sento", "qualche bene o contento/ avrà fors'altri; a me la vita è male", "Quando tu siedi all'ombra .../ ed io pur seggo sovra l'erbe all'ombra", "Quel che tu goda o quanto/ non so già dir.../ ed io godo ancor poco", "giacendo/ a bell'agio, ozioso,/ s'appaga ogni animale;/ me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale".

Similitudini: vv. 9-10: "Somiglia alla tua vita / la vita del pastore".

Zeugma: vv. 18-20, vv. 59-60, vv. 98-104, vv. 139-143: "ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?", "Ma tu mortal non sei, / e forse del mio dir poco ti cale.", "Ma tu per certo, / giovinetta immortal, conosci il tutto. / Questo io conosco e sento, / che degli eterni giri, / che dell'esser mio frale, / qualche bene o contento / avrá fors'altri; a me la vita è male.", "O forse erra dal vero, / mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: / forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dí natale".

Epifrasi: vv. 77-78, v. 143: "Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore.", "è funesto a chi nasce il dí natale".

Prosopopea: vv. 129-132: "— Dimmi: perché giacendo / a bell'agio, ozioso, / s'appaga ogni animale; / me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?".


Analisi e Commento


Storico-letterario

Canto notturno di un pastore errante dall'Asia è uno dei più conosciuti componimenti di Giacomo Leopardi ed è parte dei cosiddetti "grandi idilli" o "canti pisano-recanatesi" (dai luoghi in cui furono composti), gruppo di liriche scritte da Leopardi tra il 1828 e il 1831, ed è incluso nella prima edizione dei suoi celebri Canti (la cosiddetta Piatti del 1831), destinati ad essere ampliati in una nuova edizione nel 1836 e poi pubblicati postumi in forma completa nel 1845.

Il periodo dei "grandi idilli" rappresenta per Leopardi un ritorno alla poesia dopo l'intervallo di sei anni dedicato alla prosa delle Operette morali. Queste poesie, a differenza dei "piccoli idilli" giovanili, sono pervase dalla consapevolezza dell'"arido vero", causata dalla "strage delle illusioni", ossia la fine di tutte le gioie possibili da provare per l'essere umano, derivate dalle speranze nel futuro e dalla facoltà dell'immaginazione. Se nel periodo della sua gioventù Leopardi considerava l'infelicità come una condizione esclusivamente personale dovuta alle circostanze e soprattutto alle infermità che lo tormentarono durante tutto il corso della sua esistenza, maturando il poeta arriva ad affermare che lo stato di miseria è proprio di tutto il genere umano. Nelle edizioni successive dei Canti, il pensiero mai domo di Leopardi conoscerà una nuova evoluzione: l'unica forma di resistenza contro la crudeltà della natura matrigna è la "social catena" formata dall'alleanza di tutti gli uomini, come si afferma in La ginestra, o il fiore del deserto, il più importante dei componimenti leopardiani della stagione immediatamente precedente alla sua morte.

Proprio Canto notturno di un pastore errante dall'Asia può essere considerata la poesia in cui fra tutte Leopardi riflette più sull'evoluzione del suo pensiero, documentato comunque in prosa nello Zibaldone, il diario di pensieri che egli compilò durante gran parte della sua vita. Lo spunto per la composizione di questa lirica venne dalla lettura di un articolo su una rivista del 1826 riguardante le abitudini e i canti malinconici dei pastori asiatici. Partendo da tale suggestione, nella sua poesia più filosofica, Leopardi non parla in prima persona, come avviene solitamente ma affida le sue riflessioni a un pastore, un uomo semplice e ingenuo proveniente da una terra lontana e non ben definita, il quale analizza filosoficamente la sua infelicità e quella universale, facendosi portavoce del tedio e dello sgomento provati da ogni uomo di fronte a un'esistenza dolorosa di cui non si comprende il significato.

Tematico

La scelta, singolare all'interno dei Canti, di affidare un discorso filosofico di ampia portata a uomo umile e proveniente da terre lontane fa sì che gli interrogativi posti da Leopardi acquistino una forza particolare, primordiale e assoluta, e l'infelicità si configuri come una caratteristica tipica dell'uomo di ogni tempo e di ogni condizione.

Formalmente, la poesia è quindi un dialogo tra il pastore e la luna, invocata già dai primi versi con un'apostrofe e una interrogativa retorica ("Che fai tu, luna, in ciel?"). L'astro notturno è un tipico interlocutore di Leopardi, così vicino da invitare al dialogo (come in Alla luna, uno dei piccoli idilli giovanili) ma anche simbolo di una natura distante, gelida e muta. Il dialogo è, infatti, unidirezionale: la luna non risponde mai agli angosciosi interrogativi retorici (vv.15-20) posti dal pastore sul senso della vita degli elementi cosmici, eterna e immutabile, rispetto a quella dell'uomo impotente che si rivolge a lei.

La seconda strofa è interamente occupata da un'allegoria (vv. 21-38) in cui Leopardi descrive alla luna la vita dei mortali come la corsa faticosissima di un "vecchierel bianco infermo" che compie un viaggio folle e inutile verso il nulla, un abisso sconfinato in cui precipita, a rappresentare la morte. L'elemento dell'"abisso orrido immenso" notturno con elementi esotici e l'aura di mistero e l'interrogativo sul significato della vita, si apre alla poetica romantica.

Nella terza strofa, il ragionamento filosofico del pastore entra nel vivo descrivendo le pene che gli esseri umani provano sin dal momento della nascita e l'affannarsi dei genitori, costretti quasi a scusarsi e consolare i figli di averli messi al mondo. Di nuovo il pastore cerca risposte dalla luna, finché non sembra accorgersi della sua totale indifferenza. È a questo punto che ha spazio, in chiusura di strofa, la palinodia (vv. 59-60 "Ma tu mortal non sei, / e forse del mio dir poco ti cale."). Questa figura, tipica dello stile leopardiano, pone appunto il dubbio sulla validità del discorso filosofico posto dal poeta, in quanto la natura sembra disinteressarsi alla condizione umana. In tal maniera, essa appare totalmente indifferente alle sofferenze dell'uomo.

Nella lunga quarta strofa (vv.60-104) il discorso del pastore è portato sugli interrogativi posti alla luna sulla natura dei corpi celesti, delle leggi fisiche che reggono l'universo, dello scorrere del tempo e delle stagioni e delle ragioni – filosofiche, scientifiche e religiose – che reggono il tutto. Constatata la propria ignoranza, il pastore pone con un'altra, celeberrima, palinodia (vv. 98-104 "Ma tu per certo, / giovinetta immortal, conosci il tutto. / Questo io conosco e sento, / che degli eterni giri, / che dell'esser mio frale, / qualche bene o contento / avrá fors'altri; a me la vita è male."), la problematica dell'infelicità individuale o universale. Dopo aver affermato per gran parte del componimento che l'uomo è per sua stessa natura portato all'infelicità (il concetto leopardiano definito pessimismo "cosmico"), il poeta ritorna ai principi dei suoi componimenti giovanili, affermando il suo pessimismo "storico" e "individuale". A soffrire non sono tutti gli esseri viventi ma solo egli stesso e il suo alter-ego in questa lirica, il pastore.

Per tale ragione, il pastore cambia interlocutore e si rivolge direttamente al suo gregge chiedendogli come mai non provi tedio quando giace in riposo sull'erba, mentre lui, che lo accompagna e vi si siede accanto, sia costantemente tormentato dal tarlo del pensiero che lo porta a incuriosirsi sul destino dell'uomo, della natura e dell'universo. Si apre quindi lo scenario sul concetto di "tedio", che, secondo Leopardi, è un sentimento che nobilita l'uomo in quanto dotato di ragione e lo distingue dagli animali, anche se gli impedisce di sentirsi appagato. Nell'ultima strofa, l'immaginazione, con un meraviglioso adynaton (vv. 133-138: "Forse s'avess'io l'ale... più felice sarei"), sembra dispiegare il cuore del pastore in un viaggio meraviglioso che lo porta a esplorare le stelle e l'universo raggiungendo la felicità (il "dolce naufragar" nel mare dell'Infinito, come avveniva nella sua famosissima lirica giovanile) ma il componimento si richiude con una nuova e amarissima palinodia (vv. 139-143 "O forse erra dal vero, / mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: / forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dí natale.") conclusa dalla celebre epifrasi del proverbiale verso finale, che smentisce le flebili speranze alimentate nella strofa precedente e che vede il pastore, e con lui Leopardi, sciogliere il dubbio su ogni possibile speranza di felicità, per se stesso come per ogni altro essere umano. Nella fase dei "grandi idilli" si è ormai passati definitivamente al pessimismo "cosmico": al termine del componimento emerge che non solo per l'uomo la vita è fonte di sofferenza ma per qualunque creatura vivente venga al mondo. L'universo resta un enigma indecifrabile, in cui l'unico elemento certo è la morte.

Stilistico

Dal punto di vista metrico Canto notturno di un pastore errante dall'Asia è una canzone di strofe libere (dalla lunghezza irregolare) di endecasillabi e settenari sciolti, ossia privi di uno schema rimico fisso, sebbene la rima sia un artificio a cui Leopardi fa spesso ricorso per conferire musicalità al testo.

La particolarità che vede il discorso in prima persona di un personaggio, il pastore, che parla dall'inizio alla fine rivolgendosi attraverso delle apostrofi (v. 1: "luna"; v. 2: "silenziosa luna"; v. 16: "o luna"; v. 37: "vergine luna"; v. 57: "intatta luna"; v. 61: "solinga, eterna peregrina"; v. 99: "giovinetta immortal"; v. 105, 127: "o greggia mia"; v. 137: "dolce mia greggia"; v. 138: "candida luna") e delle domande retoriche (vv. 1-2: "che fai tu, luna...?"; vv. 5-6: "Ancor non sei tu paga... calli?"; vv. 7-8: "Ancor non prendi a schivo... valli?"; vv. 16-18: "Dimmi, o luna... a voi?"; vv. 18-20: "dimmi: ove tende... immortale?"; vv. 52-54: "Ma perché dare al sole .... Consolar convenga?"; vv. 55-56: "Se la vita ...si dura?"; v. 86: "A che tante facelle?"; vv. 87-88: "Che fa l'aria infinita ...infinito seren?"; vv. 88-89: "che vuol dir... immensa? Ed io che sono?"; vv. 129-132: "dimmi: perché giacendo / ... il tedio assale?") a degli interlocutori che non possono rispondergli (la luna e il gregge che lo accompagna) rende il testo molto simile a un monologo interiore o a una riflessione filosofica posta dal pastore e da Leopardi stesso, che si identifica ovviamente nel suo personaggio.

L'andamento filosofico del discorso non porta però a una rinuncia alla creazione di un'atmosfera profondamente malinconica legata agli ideali della poesia romantica e all'ideologia di cui si fa protagonista il pensiero complesso di Leopardi. L'enfasi emotiva è resa dal poeta attraverso il frequente utilizzo di figure di ripetizione quali l'anafora (vv. 5,7: "ancor"; vv. 16, 18: "dimmi"; vv. 52-53, 56: "perché"; vv. 101-102: "che"; vv. 137-138: "più felice sarei"; vv. 133, 139, 141: "forse"), l'anadiplosi (vv. 9-10: "alla tua vita/ la vita"; vv. 17-18: "la sua vita/ la vostra vita"; vv. 64-65: "che sia;/ che sia") e l'adynaton (v. 128: "Se tu parlar sapessi, io chiederei"; vv. 133-138: "Forse s'avess'io l'ale... più felice sarei").

Altro campo di figure retoriche fondamentali in questo componimento sono quelle legate al concetto di "tedio", il dubbio esistenziale che tormenta Leopardi e il pastore e che li costringe a rimettere continuamente in discussione i propri ragionamenti. Legate a questo campo semantico sono le numerose antitesi, epifrasi e soprattutto le palinodie. In particolar modo queste ultime sono tipiche della poesia e del pensiero leopardiano, sempre volto a ridiscutere le proprie affermazioni in una continua lotta – e tormento – tra il crollo di ogni speranza e la ricerca inesauribile di spiragli verso una possibile felicità.


Confronti


Canto notturno di un pastore errante dall'Asia, proprio a causa della natura dei concetti posti in discussione da Leopardi in relazione alla propria evoluzione di uomo, filosofo e poeta, pone moltissimi elementi di raffronto con tutta la produzione leopardiana.

Rispetto alle idee giovanili, la luna cambia profondamente aspetto. In Alla luna, uno dei piccoli idilli recanatesi del 1819-21, il corpo celeste era il simbolo della memoria che poteva portare giovamento nei momenti di infelicità. Il dialogo notturno del pastore vede invece un astro muto e impassibile, che conosce i segreti dell'universo ma si guarda bene dal rivelarli e che non si accorge nemmeno del grido di dolore di una creatura che le si rivolge in cerca di aiuto. La memoria non è più, per il Leopardi dei "grandi idilli" una delle illusioni a cui rivolgersi per scampare all'"arido vero" che condanna l'uomo all'infelicità.

Lo stesso si può dire dell'immaginazione. Il viaggio del pastore tra le stelle e i monti assomiglia molto al vagare del pensiero del giovane Leopardi oltre la siepe de L'infinito. In età giovanile, il poeta, già malato e solitario, raddolciva la sua esistenza sperdendosi tra infiniti mondi e "sovrumani silenzi", che lo catturavano e lo lasciavano "naufragare" dolcemente in un mare d'immaginazione. Per il pastore errante, il viaggio cosmico si conclude in una riflessione che lo riporta amaramente a un pessimismo dato dalla consapevolezza delle sofferenze della vita e lo fa tornare sulla terra a maledire la propria condizione e quella di tutti gli esseri umani.

Mai come in questa lirica la malinconia e il tedio di Leopardi si avvicinano al tormento interiore descritto da Francesco Petrarca nel suo Canzoniere. L'allegoria della seconda strofa di Canto notturno di un pastore errante dall'Asia prende spunto dal sonetto petrarchesco Movesi il vechierel canuto et biancho, rivisitandone i concetti in chiave ancora più tragica. Petrarca paragonava l'ultimo viaggio di un vecchio pellegrino che affrontava pericoli e infermità per raggiungere Roma prima di morire alla forza del suo desiderio amoroso per Laura. Leopardi utilizza la stessa metafora per descrivere la vita umana, ma alla fine dell'affannoso viaggio del vecchio non ci sono Roma e la salvezza, ma un precipizio orrido e ignoto dove l'uomo cade dimenticandosi di se stesso e delle sue sofferenze. Inoltre, la riflessione amarissima del pastore, per alcuni elementi stilistici (v. 90 "Cosí meco ragiono"; v. 98 "indovinar non so") e per l'insistenza sui dubbi che egli pone sulla propria conoscenza di sé e dell'universo, ricorda fortemente le tematiche del celebre sonetto petrarchesco Solo et pensoso, in cui il poeta toscano descriveva il tormento che provava isolandosi per terreni deserti cercando di scampare dal "tedio" datogli dall'amore per Laura ("Ma pur sì aspre vie né sì selvagge / cercar non so ch'Amor non venga sempre / ragionando con meco, et io co·llui"). Leopardi elimina ovviamente il discorso amoroso di Petrarca ma crea la stessa forma di tormento nel pastore che si interroga sui misteri dell'esistenza e dell'universo.


Domande e Risposte


Di che opera leopardiana fa parte la lirica?
La lirica compare nella prima e nelle successive edizioni dei Canti (1831-45).

Di quale periodo poetico leopardiano è parte il componimento?
Il componimento è uno dei "grandi idilli" o "canti pisano-recanatesi" del 1828-31.

Qual è il tema principale della lirica?
Il tema principale della lirica è una riflessione filosofica sulla tragicità della vita umana e l'impassibilità della natura.

A chi è rivolto il canto del pastore?
Il canto del pastore è rivolto principalmente alla luna, che non gli risponde mai.

Qual è la forma metrica del componimento?
Canto notturno di un pastore errante dall'Asia è una canzone di strofe libere (dalla lunghezza irregolare) di endecasillabi e settenari sciolti, ossia privi di uno schema rimico fisso.

Quale figura retorica è realizzata celeberrima formula "giovinetta immortal" riferita alla luna?
La figura retorica realizzata è una personificazione.

Fonti: libri scolastici superiori

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