Parafrasi e Analisi: "Canto XXIX" - Inferno - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XXIX dell'Inferno di Dante Alighieri si colloca nella nona bolgia dell'ottavo cerchio, un luogo che racchiude pene terribili per coloro che in vita hanno commesso gravi colpe contro il prossimo attraverso l'inganno e la frode. Questo canto è caratterizzato da una potente riflessione morale e da una dettagliata descrizione delle sofferenze inflitte ai dannati, evidenziando la giustizia divina che bilancia il peccato e la pena. Dante, accompagnato da Virgilio, esplora temi complessi legati alla colpa, al castigo e al peso della memoria storica e personale, sottolineando ancora una volta la profonda connessione tra l'ordine morale e il disegno divino. La narrazione, densa di simbolismi e rimandi culturali, pone l'accento su questioni etiche e sociali di grande rilevanza.
Testo e Parafrasi
La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, che de lo stare a piangere eran vaghe. Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge là giù tra l'ombre triste smozzicate? Tu non hai fatto sì a l'altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge. E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n'è concesso, e altro è da veder che tu non vedi». «Se tu avessi», rispuos'io appresso, «atteso a la cagion perch'io guardava, forse m'avresti ancor lo star dimesso». Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: «Dentro a quella cava dov'io tenea or li occhi sì a posta, credo ch'un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa». Allor disse 'l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr'ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; ch'io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, e udi' 'l nominar Geri del Bello. Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito». «O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor», diss'io, «per alcun che de l'onta sia consorte, fece lui disdegnoso; ond'el sen gio sanza parlarmi, sì com'ïo estimo: e in ciò m'ha el fatto a sé più pio». Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l'altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo. Quando noi fummo sor l'ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra, lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond'io li orecchi con le man copersi. Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti 'nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n'usciva qual suol venir de le marcite membre. Noi discendemmo in su l'ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva giù ver' lo fondo, la 've la ministra de l'alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra. Non credo ch'a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l'aere sì pien di malizia, che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche; ch'era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche. Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle l'un de l'altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle. Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone. Io vidi due sedere a sé poggiati, com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati; e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia come ciascun menava spesso il morso de l'unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso; e sì traevan giù l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d'altro pesce che più larghe l'abbia. «O tu che con le dita ti dismaglie», cominciò 'l duca mio a l'un di loro, «e che fai d'esse talvolta tanaglie, dinne s'alcun Latino è tra costoro che son quinc'entro, se l'unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro». «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue», rispuose l'un piangendo; «ma tu chi se' che di noi dimandasti?». E 'l duca disse: «I' son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo 'nferno a lui intendo». Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l'udiron di rimbalzo. Lo buon maestro a me tutto s'accolse, dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»; e io incominciai, poscia ch'ei volse: «Se la vostra memoria non s'imboli nel primo mondo da l'umane menti, ma s'ella viva sotto molti soli, ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi». «Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena», rispuose l'un, «mi fé mettere al foco; ma quel per ch'io mori' qui non mi mena. Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco: "I' mi saprei levar per l'aere a volo"; e quei, ch'avea vaghezza e senno poco, volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo perch'io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l'avea per figliuolo. Ma ne l'ultima bolgia de le diece me per l'alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece». E io dissi al poeta: «Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d'assai!». Onde l'altro lebbroso, che m'intese, rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca che seppe far le temperate spese, e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l'orto dove tal seme s'appicca; e tra'ne la brigata in che disperse Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda, e l'Abbagliato suo senno proferse. Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda: sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l'alchìmia; e te dee ricordar, se ben t'adocchio, com'io fui di natura buona scimia». |
I numerosi dannati (molta gente) e gli insoliti (diverse) tormenti (piaghe) avevano riempito di lacrime (inebrïate) i miei occhi (luci) al punto da renderli desiderosi (vaghe) di piangere. Ma Virgilio mi disse: «Che cosa seguiti a guardare tanto intensamente (pur guate)? perché il tuo sguardo (vista) continua a soffermarsi (si soffolge) laggiù sui peccatori (l'ombre triste) mutilati (smozzicate)? Non ti sei comportato così nelle altre bolge; pensa che, se ritieni di doverli contare (annoverar) tutti, la bolgia (valle) ha una circonferenza (volge) di ventidue miglia. E la luna è già sotto i nostri piedi; il tempo che ci è concesso è ormai poco e rimangono da vedere cose ben più terribili di quelle che stai guardando (che tu non vedi)». «Se tu», risposi immediatamente, «avessi ben considerato (atteso) il motivo (cagion) per cui guardavo, probabilmente mi avresti permesso (dimesso) di continuare a guardare (lo star)». E intanto (Parte) la mia guida se ne andava (sen giva), mentre io lo seguivo (retro li andava) rispondendo (già faccendo la risposta) e aggiungendo (soggiugnendo): «Dentro a quella bolgia (cava) nella quale io tenevo gli occhi così fissi (a posta), credo che uno spirito della mia stirpe (sangue) stia pagando (pianga) la colpa che procura laggiù così atroci tormenti (cotanto costa)». Allora il maestro disse: «D'ora innanzi il tuo pensiero non si interrompa (Non si franga) su di lui (sovr'ello). Pensa (Attendi) ad altro e quello se ne stia pure laggiù; poiché io l'ho visto sotto (a piè) il ponticello indicarti (mostrarti) col dito e imprecare minacciosamente, e ho udito che lo chiamavano (nominar) Geri del Bello. Tu eri in quel momento (allor) tutto concentrato (impedito) su colui che fu signore (che già tenne) di Altaforte, così che non hai guardato in quella direzione e così (sì) egli se ne andò (fu partito)». «Mio signore, la sua morte violenta, che ancora non è stata vendicata», dissi, «da chi (per alcun) sia partecipe (consorte) dell'offesa (onta) (per legami di sangue), lo ha reso sdegnoso; per la qual cosa ritengo (estimo) che egli si sia allontanato (sen gio) senza rivolgermi la parola: e proprio per questo (in ciò) mi ha reso più pietoso (pio) nei suoi confronti (a sé)». Così parlammo fino al primo punto (loco) del ponte (scoglio) da cui, se vi fosse più luce, si potrebbe vedere la bolgia successiva (l'altra valle) fino al fondo (tutto ad imo). Quando giungemmo sopra (sor) l'ultimo fossato (chiostra) di Malebolge, in modo tale che i suoi abitanti (conversi) potevano apparire (parere) al nostro sguardo (veduta), mi colpirono (saettaron) terribili (diversi) lamenti, che mi ferivano a pietà come frecce (strali) dalla punta di ferro (ferrati); per cui mi chiusi (copersi) gli orecchi con le mani. Gli stessi (Qual) lamenti (dolor) che ci sarebbero (fora) se d'estate (tra 'l luglio e 'l settembre) i malati (mali) degli ospedali di Valdichiana, di Maremma e di Sardegna fossero riuniti insieme ('nsembre) in un solo luogo (in una fossa) si trovavano in questa bolgia (tal era quivi), e ne usciva un fetore (puzzo) simile a quello che di solito (suol) emana (venir) dalla carne in decomposizione (marcite membra). Scendemmo sull'ultimo argine (riva) del lungo ponte, sempre (pur) da sinistra, e allora potei vedere meglio (fu la mia vista più viva) verso il fondo della bolgia, dove l'infallibile giustizia, ministra di Dio (alto Sire), punisce i falsari (falsador) che essa registra nel suo libro quando peccano sulla terra (qui). Non credo che fosse più triste spettacolo (maggior tristizia) a vedersi il popolo appestato (tutto infermo) di Egina, quando l'aria fu tanto pregna di influssi pestilenziali (malizia) che gli esseri viventi (animali), fino al più piccolo insetto (vermo), morirono (cascaron) tutti, e quindi i primi abitatori (genti antiche), stando a (secondo che) quanto affermano (hanno per fermo) i poeti, rinacquero (si ristorar) dalla stirpe (di seme) delle formiche, di quanto (ch'era) fosse atroce vedere gli spiriti languire, disposti in diversi mucchi (biche), in quella oscura bolgia (valle). Alcuni giacevano sopra il ventre dell'altro, alcuni sopra le spalle, altri si trascinavano (si trasmutava) carponi sul fondo della bolgia (tristo calle). Andavamo adagio (Passo passo) senza parlare (sanza sermone) guardando e ascoltando i peccatori colpiti da varie malattie (ammalati), che non potevano alzarsi (levar le lor persone). Vidi due stare seduti appoggiati l'uno all'altro, come si accostano a scaldare due tegami (tegghia a tegghia), chiazzati (macolati) da capo a piedi di croste (schianze); e non ho mai visto passare (menare) così velocemente la striglia (stregghia) da un garzone di stalla (ragazzo) quando è atteso dal suo padrone (segnorso), né da uno stalliere che contro voglia deve vegliare (vegghia) (per terminare il lavoro), come ciascuno di quelli continuamente si grattava (menava spesso il morso de l'unghie sopra sé) a causa del grande fastidio (rabbia) del prurito, che non ha altro sollievo (soccorso); e così le unghie raschiavano (traevan giù) le croste di scabbia, come il coltello le scaglie della scardova o di altro pesce con scaglie più larghe. «Tu che ti stai staccando le croste (dismaglie) con le dita», disse il maestro a uno di loro, «e che a volte le usi (fai d'esse) come tenaglie, dicci (dinne) se tra coloro che stanno in questa bolgia (quinc'entro) vi è qualche Italiano (Latino), possano le tue unghie bastarti in eterno per questa fatica (lavoro)». «Noi, che tu vedi così ridotti (guasti), siamo entrambi italiani», rispose uno dei due piangendo; «ma tu, che hai chiesto di noi, chi sei?». E il maestro disse: «Sto scendendo di cerchio (balzo) in cerchio con questa persona viva, e intendo mostrargli l'Inferno». Allora venne meno (si ruppe) il reciproco appoggio (comun rincalzo); e ciascuno di loro, intimorito (tremando), si rivolse a me insieme ad altri che avevano ascoltato indirettamente (di rimbalzo). Il buon maestro si accostò strettamente (s'accolse) a me, dicendo: «Chiedi loro ciò che vuoi (vuoli)»; e io, avendo egli acconsentito (poscia ch'ei volse), cominciai: «Voglia il cielo (Se) che il ricordo di voi non scompaia (s'imboli) dalla mente degli uomini sulla terra (primo mondo), ma possa durare (viva) per molti anni (sotto molti soli), ditemi chi siete e di quale luogo d'origine (genti); la vostra pena deturpante (sconcia) e repulsiva (fastidiosa) non vi impedisca (spaventi) di manifestarvi (palesarvi) a me». «Io fui nativo di Arezzo», rispose uno, «e Alberto da Siena mi fece mandare al rogo (mi fé mettere al foco); ma il motivo (quel) per cui io sono morto non è quello che mi ha condotto (mi mena) in questa bolgia (qui). È pur vero che io, parlando per scherzo (a gioco), gli dissi: "Io sono in grado (mi saprei) di volare"; e quegli, che aveva curioso desiderio (vaghezza) ma poco senno, volle che io gli insegnassi il modo di volare (l'arte); e solo per il fatto che io non lo trasformai (feci) in Dedalo, mi fece condurre al rogo da uno (a tal) che lo considerava (l'avea) come un figlio. Ma Minosse, a cui non è consentito (non lece) sbagliare (fallar), condannò me all'ultima delle dieci bolge a causa dell'alchimia alla quale feci ricorso (usai) in terra». E io dissi al poeta: «Vi è mai stato un popolo più fatuo (vano) di quello senese? Certo non così tanto (sì d'assai) quello francese (francesca)!». Per cui l'altro lebbroso, che mi aveva sentito, rispose alle mie parole (detto): «Escludi dal numero (tra'mene) Stricca, che seppe spendere con parsimonia (far le temperate spese), e Niccolò, che per primo (prima) introdusse (discoverse) l'uso (costuma) costoso (ricca) del chiodo di garofano nell'orto (a Siena) in cui questo seme attecchisce (s'appicca); ed escludine (tra'ne) anche la compagnia (brigata) insieme alla quale Caccia d'Asciano sperperò i suoi vigneti e i suoi poderi (la gran fonda), e l'Abbagliato diede prova (proferse) della sua saggezza (senno). Ma affinché tu sappia (sappi) chi è colui che ti asseconda in quello che dici (sì ti seconda) contro i Senesi, concentra (aguzza) lo sguardo su di me, in modo che la mia faccia ti riveli chi sono (ben ti risponda): riconoscerai così che io sono l'anima di Capocchio, che falsificai i metalli con l'alchimia; e tu ti devi (te dee) ricordare, se ti ho ben riconosciuto (t'adocchio), come io sono stato abile imitatore (buona scimia) delle cose di natura». |
Riassunto
vv 1-12: Il Richiamo di Virgilio
Dante si attarda ancora nella bolgia, e Virgilio lo richiama all'ordine, spronandolo a riprendere il cammino. Il tempo scorre e ci sono ancora molte visioni da affrontare nel loro viaggio.
vv 13-39: Geri del Bello
Dante spiega a Virgilio il motivo della sua esitazione: crede che nella bolgia si trovi un suo parente, ucciso in passato e mai vendicato. Virgilio gli racconta di aver notato un dannato che lo minacciava e che altri chiamavano Geri del Bello. Tuttavia, Dante, distratto dal dialogo con Bertran de Born, non si era accorto di lui, e così il parente si era allontanato. Nel frattempo, i due poeti raggiungono il ponte che sovrasta la decima bolgia.
vv 40-72: La Decima Bolgia e i Falsificatori di Metalli
Un assordante coro di lamenti colpisce Dante, che si tappa le orecchie per il dolore. L'orrore e il fetore della bolgia sono tali da richiamare alla mente le più gravi epidemie. Qui vengono puniti i falsari, afflitti da malattie terribili: alcuni giacciono a terra, altri si sostengono tra loro, mentre altri ancora si trascinano a fatica.
vv 73-120: Griffolino D'Arezzo
Due anime, poste schiena contro schiena, si grattano con foga per il prurito provocato dalle croste che li ricoprono. Virgilio chiede loro se ci siano italiani tra i dannati, e uno risponde affermativamente. Si tratta di Griffolino da Arezzo, un alchimista che fu arso vivo per non essere riuscito a insegnare ad Albero di Siena l'arte di volare.
vv 121-139: Capocchio
Dante commenta con ironia la vanità dei Senesi, e l'altro dannato prende la parola, presentandosi come Capocchio. Dante lo conosceva in vita; anche lui fu condannato al rogo nel 1293 per pratiche alchemiche.
Figure Retoriche
v. 9: "Miglia ventidue": Anastrofe.
v. 10: "E già la luna": Anastrofe.
v. 10: "La luna è sotto i nostri piedi": Metafora.
v. 16: "Retro li andava": Anastrofe.
vv. 16-17: "Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca": Iperbato.
v. 26: "Mostrarti, e minacciar forte, col dito": Iperbato.
v. 32: "Che non li è vendicata ancor": Anastrofe.
vv. 40-41: "Chiostra / di Malebolge": Enjambement.
v. 43: "Lamenti saettaron me diversi": Iperbato.
vv. 46-51: "Qual dolor fora, se de li spedali, di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti 'nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n'usciva qual suol venir de le marcite membre": Similitudine.
v. 56: "De l'alto Sire infallibil giustizia": Anastrofe.
vv. 58-59: "Non credo ch'a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo": Similitudine.
vv. 76-81: "E non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l'unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso": Similitudine.
vv. 82-83: "E sì traevan giù l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie": Similitudine.
v. 84: "Che più larghe l'abbia": Anastrofe.
v. 87: "E che fai d'esse talvolta tanaglie": Metafora.
v. 104: "Umane menti": Anastrofe.
v. 107: "Sconcia e fastidiosa": Endiadi.
v. 114: "Senno poco": Anastrofe.
v. 120: "A cui fallar non lece": Anastrofe.
v. 125: "Al detto mio": Anastrofe.
v. 126: "Temperate spese": Anastrofe.
v. 134: "Aguzza ver me l'occhio": Sineddoche. Singolare per il plurale.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto XXIX dell'Inferno si divide in due sezioni principali. Nella prima parte, più breve, Dante e Virgilio sono ancora nella IX Bolgia, dove si trovano i seminatori di discordia. Dante si sofferma particolarmente per cercare di individuare Geri del Bello, un lontano parente, fatto che suscita il rimprovero del maestro. Virgilio, con tono perentorio, gli ricorda la necessità di proseguire il viaggio, senza curarsi di Geri, che appare solo indirettamente, descritto attraverso il racconto di Virgilio: il dannato, infatti, manifesta disprezzo verso Dante, accusando la sua famiglia di non aver vendicato la sua uccisione. Questo episodio richiama il tema delle vendette familiari, che Dante rifiuta in quanto contrarie ai principi cristiani. Nonostante ciò, il poeta comprende il risentimento del congiunto, radicato nelle consuetudini del tempo, dove la vendetta privata era considerata un dovere morale. Tuttavia, attraverso Virgilio, Dante riafferma la superiorità delle leggi divine rispetto alle tradizioni umane.
La seconda parte del Canto introduce la X e ultima Bolgia dell'VIII Cerchio, riservata ai falsari, qui rappresentati da alchimisti colpiti da terribili malattie. L'ambiente descritto è putrido e opprimente: dai corpi malati dei dannati si leva un fetore insopportabile, accompagnato da lamenti strazianti. La descrizione di Dante è ricca di dettagli sensoriali: il poeta alterna riferimenti al mondo contemporaneo, come gli ospedali delle aree paludose infestate dalla malaria, e al mito classico, richiamando la pestilenza che colpì Egina per vendetta di Giunone. Le immagini utilizzate sono crude e realistiche, ma lasciano spazio a momenti di ironia e comicità, come nel dialogo tra Dante, Griffolino d'Arezzo e Capocchio. I due dannati si grattano con foga per alleviare il prurito, un gesto che il poeta paragona al lavoro dello stalliere che striglia i cavalli o al coltello che rimuove le squame della scardova. Questo tono comico-realistico caratterizza anche le loro parole, intrise di sarcasmo, mentre rievocano le vicende che li hanno condotti alla condanna eterna.
Griffolino racconta come la sua passione per l'alchimia lo abbia reso vittima di un nobile sciocco, Albero da Siena, che lo fece condannare al rogo per una burla ingenua. Capocchio, invece, ironizza sulla vanità dei Senesi, citando personaggi noti per la loro superficialità, tra cui membri della «brigata spendereccia», famigerata per aver dilapidato immense fortune in breve tempo. Questa critica si ricollega al tema della cupidigia e dell'avarizia, vizi che Dante condanna con decisione, poiché corrosivi della società comunale. Gli alchimisti vengono puniti non solo per aver cercato di alterare i metalli, ma soprattutto per aver ingannato il prossimo a scopo di lucro, sfruttando fraudolentemente una disciplina dalle origini nobili.
Il tono del Canto è duplice: da un lato, il dramma delle punizioni infernali, dall'altro la leggerezza delle ironie e delle scene quotidiane. Questo equilibrio di registri culminerà nel volgare litigio tra Sinone e Mastro Adamo nel successivo Canto XXX, a completare il quadro di un'umanità corrotta e priva di etica.
Passi Controversi
Il termine inebriate (v. 2) potrebbe significare «colme di lacrime» ed è probabilmente un richiamo biblico (Is., XVI, 9: inebriabo te lacrima mea). Per quanto riguarda il verbo si soffolge (v. 5), il suo significato è dibattuto, ma è possibile che voglia dire «persiste» o «continua», forse derivando dal latino suffulcire («sostenere» o «puntellare»).
Al verso 10, Virgilio indica che la luna si trova sotto i piedi, il che implica che il sole è allo zenit, sul meridiano di Gerusalemme; dato che il plenilunio è avvenuto due giorni prima (Inf., XX, 127), l'orario dovrebbe essere intorno alle due del pomeriggio del Sabato Santo. L'intero viaggio nell'Inferno dura circa 24 ore.
Nel verso 28, il termine impedito si traduce con «impegnato», riferendosi all'attenzione rivolta a Bertran de Born, che fu signore del castello di Hautefort (Altaforte). La Valdichiana, la Maremma e la Sardegna (vv. 46-48) erano, nel Medioevo, aree paludose soggette alla malaria, particolarmente aggressiva nei mesi estivi.
Al verso 57 si legge che la giustizia divina registra nel suo libro i peccati dei falsari commessi sulla Terra. La similitudine dei versi 58-66 proviene dalle Metamorfosi di Ovidio (VII, 523 ss.) e descrive la pestilenza inviata da Giunone sull'isola di Egina per gelosia verso la ninfa amata da Giove. L'unico sopravvissuto fu il re Eaco, che chiese a Giove di ripopolare l'isola trasformando le formiche in uomini, detti poi Mirmidoni.
Le schianze che ricoprono i due dannati (v. 75) sono le croste della scabbia. La scardova è un pesce d'acqua dolce con squame grandi e robuste. Quanto alla vanità dei senesi (vv. 121-123), questa sembra essere stata così nota da essere menzionata anche da Sapìa nel Purgatorio (XIII, 151-153).
I versi 127-129 fanno riferimento all'uso dei chiodi di garofano per insaporire la carne arrostita, introdotto a Siena da Niccolò dei Salimbeni, il quale, secondo alcune fonti, arrivava persino a cuocere la selvaggina su brace ottenuta da questa costosa spezia. Con il termine orto si allude probabilmente a Siena, dove si afferma che questa pianta abbia trovato terreno fertile.
Alcuni manoscritti riportano fronda al verso 131, che rappresenta una lezione più semplice rispetto alla versione fonda presente nel testo. Quest'ultima potrebbe significare «terreno arato» o «borsa». Infine, al verso 139, l'espressione di natura è interpretata come «della natura», suggerendo che Capocchio fosse un abile imitatore di essa; altri propendono per il significato «per natura».
Fonti: libri scolastici superiori