Parafrasi e Analisi: "Canto XXVII" - Inferno - Divina Commedia - Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XXVII dell'Inferno segna una tappa significativa del viaggio di Dante e Virgilio attraverso l'ottava bolgia dell'ottavo cerchio, dedicata ai consiglieri fraudolenti. Questo canto esplora con straordinaria profondità temi legati all'inganno politico e alla manipolazione delle coscienze, rivelando le complesse dinamiche tra potere, etica e responsabilità personale. Attraverso la voce di un nuovo dannato, Dante affronta questioni morali universali e invita il lettore a riflettere sul confine tra saggezza e astuzia corrotta, tra la capacità di guidare e la volontà di dominare. Lo stile del canto si distingue per la sua potenza espressiva e il tono spesso drammatico, che sottolineano la gravità delle colpe trattate e il tormento eterno di chi, in vita, scelse di piegare la verità al servizio dell'inganno.
Testo e Parafrasi
Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta, quand'un'altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n'uscia. Come 'l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l'avea temperato con sua lima, mugghiava con la voce de l'afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertïan le parole grame. Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio, udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo", perch'io sia giunto forse alquanto tardo, non t'incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo! Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se' di quella dolce terra latina ond'io mia colpa tutta reco, dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch'io fui d'i monti là intra Orbino e 'l giogo di che Tever si diserra». Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: «Parla tu; questi è latino». E io, ch'avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: «O anima che se' là giù nascosta, Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; ma 'n palese nessuna or vi lasciai. Ravenna sta come stata è molt'anni: l'aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni. La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova. E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d'i denti succhio. Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno. E quella cu' il Savio bagna il fianco, così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte, tra tirannia si vive e stato franco. Ora chi se', ti priego che ne conte; non esser duro più ch'altri sia stato, se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte». Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l'aguta punta mosse di qua, di là, e poi diè cotal fiato: «S'i' credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse; ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, sanza tema d'infamia ti rispondo. Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero, se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m'intenda. Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe che la madre mi diè, l'opere mie non furon leonine, ma di volpe. Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch'al fine de la terra il suono uscie. Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte, ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe. Lo principe d'i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei, ché ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri né mercatante in terra di Soldano, né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri. Ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre. E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; finor t'assolvo, e tu m'insegna fare sì come Penestrino in terra getti. Lo ciel poss'io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che 'l mio antecessor non ebbe care". Allor mi pinser li argomenti gravi là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, e dissi: "Padre, da che tu mi lavi di quel peccato ov'io mo cader deggio, lunga promessa con l'attender corto ti farà trïunfar ne l'alto seggio". Francesco venne poi, com'io fu' morto, per me; ma un d'i neri cherubini li disse: "Non portar: non mi far torto. Venir se ne dee giù tra ' miei meschini perché diede 'l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a' crini; ch'assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente". Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch'io löico fossi!". A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse, disse: "Questi è d'i rei del foco furo"; per ch'io là dove vedi son perduto, e sì vestito, andando, mi rancuro». Quand'elli ebbe 'l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo 'l corno aguto. Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio, su per lo scoglio infino in su l'altr'arco che cuopre 'l fosso in che si paga il fio a quei che scommettendo acquistan carco. |
La fiamma era ormai drizzata (dritta) in alto e ferma (queta) perché aveva finito di parlare (per non dir più), e già si allontanava (sen gia) col consenso (licenza) di Virgilio (dolce poeta), quando un'altra fiamma, che veniva dietro a quella, ci (ne) fece rivolgere lo sguardo verso la sua cima a causa di un sibilo (suon) indistinto (confuso) che ne fuoriusciva. Come il bue siciliano (cicilian), che la prima volta (prima) muggì (mugghiò) – e ciò fu giusto (dritto) –, col lamento (pianto) di colui che l'aveva fabbricato (temperato) con la sua opera (lima), emetteva muggiti (mugghiava) con le parole (voce) dei condannati che vi erano rinchiusi (de l'afflitto), così che, per quanto (tutto che) fosse di rame, sembrava anch'esso (pur el) tormentato (trafitto) dal dolore; così, per il fatto di (per) non trovare (aver) dapprima (dal principio) né uscita (via) né apertura (forame) nel fuoco, le sue misere (grame) parole si trasformavano (si convertian) nel linguaggio del fuoco (in suo linguaggio). Ma dopo che ebbero trovato (colto) la via d'uscita (lor vïaggio) verso (su per) la punta, dandole quella vibrazione (guizzo) che aveva dato la lingua al loro passaggio, udimmo dire: «Tu a cui io rivolgo (drizzo) la voce e che ora (mo) parlavi in lingua lombarda dicendo: "Ora (Istra) vattene (ten va), non ti esorto (t'adizzo) più (a parlare), benché (perch'io) sia forse giunto un po' in ritardo (alquanto tardo), non ti dispiaccia (non t'incresca) di restare a parlare con me (meco); vedi che non dispiace a me, eppure (e) io brucio (ardo)! Se tu sei caduto solo ora (pur mo) nell'Inferno (mondo cieco) da quella dolce terra italiana (latina) dalla quale io (ond'io) porto (reco) tutte le mie colpe, dimmi se i Romagnoli sono ora in pace o in guerra; dal momento che sono nativo (fui) di quella zona montuosa (de' monti) situata tra Urbino e la catena (giogo) da cui nasce (si diserra) il Tevere». Io ero ancora proteso (attento) e chinato (chino) verso il basso (in giuso), quando la mia guida mi toccò (tentò) nel fianco (di costa) dicendo: «Parla tu; costui è italiano». E io, che avevo già la risposta pronta, cominciai a parlare senza indugio: «O anima che sei chiusa nella fiamma (nascosta) laggiù, la tua Romagna non è, e non è mai stata, senza guerra nell'animo (ne' cuor) dei suoi signori (tiranni), ma in questo momento (or) non ne ho lasciata nessuna apertamente dichiarata ('n palese). Ravenna è nelle condizioni (sta) in cui si trova da lungo tempo (come stata è molt'anni): l'aquila (aguglia) dei Da Polenta la tiene sotto di sé (la si cova), in modo da estendere (ricuopre) le proprie ali (vanni) fino a Cervia. La città (terra) che già sostenne (fé) il lungo assedio (prova) e fece strage (sanguinoso mucchio) dei Francesi, si trova sotto i verdi artigli degli Ordelaffi (branche). Malatesta (il mastin) il Vecchio da Verrucchio e Malatestino ('l nuovo), che straziarono crudelmente (fecer... il malgoverno) Montagna, sbranano [i loro nemici] (fan d'i denti succhio) nel luogo in cui l'han sempre fatto (là dove soglion). L'insegna del leone (lïoncel) in campo (nido) bianco, che cambia fazione (parte) rapidamente (da la state al verno), governa (conduce) le città di Faenza (Lamone) e di Imola (Santerno). E la città di Cesena (quella), cui il fiume Savio bagna il fianco, così come giace (sie') tra la pianura e il monte, oscilla (si vive) tra tirannia e condizione (stato) di città libera (franco). Ora ti prego di manifestarci (ne conte) chi sei; non essere restio (duro) più di quanto io sia stato con te, possa (se) il tuo nome essere ricordato a lungo sulla terra (nel mondo tegna fronte)». Dopo che il fuoco ebbe un po' ruggito (rugghiato) alla sua maniera, la cima acuta della fiamma (l'aguta punta) si mosse di qua e di là, quindi emise tale suono (diè cotal fiato): «Se io credessi che la mia risposta fosse rivolta (fosse) a una persona che prima o poi (mai) facesse ritorno sulla terra, questa fiamma starebbe (staria) immobile (sanza più scosse); ma dal momento che (però che), se sono ben informato (s'i' odo il vero), nessuno è mai tornato vivo dall'Inferno (questo fondo), ti rispondo senza timore (tema) di restare disonorato (d'infamia). Sono stato un condottiero (uom d'arme) e poi mi feci francescano (cordigliero), credendo, col cingermi del cordone da frate (sì cinto), di fare ammenda delle mie colpe; e certo quanto pensavo (il creder mio) si sarebbe avverato (venìa intero), se non fosse intervenuto (se non fosse) il papa (gran prete), possa venirgli un accidente (a cui mal prenda)!, che mi fece ricadere (mi rimise) nel peccato (prime colpe); e come e perché (quare) voglio che tu sappia bene (m'intenda). Finché fui vivo (forma fui), fatto di carne (polpe) e d'ossa che la madre mi diede (diè), le mie azioni non furono valorose (leonine), ma astute (di volpe). Conobbi (seppi) tutti gli stratagemmi (accorgimenti) e le frodi (coperte vie) ed esercitai le loro tecniche (menai lor arte) a tal punto che la fama (della mia astuzia) (suono) si diffuse (uscie) dovunque (al fine de la terra). Quando raggiunsi (mi vidi giunto) quella fase (parte) della vita (etade) in cui (ove) ciascuno dovrebbe ammainare (calar) le vele e raccogliere le corde (sarte), allora cominciai a rinnegare (m'increbbe) ciò che prima amavo (mi piacëa) e, pentitomi (pentuto) e confessatomi (confesso), mi feci frate (mi rendei); ah povero me (misero lasso)! e ciò avrebbe potuto salvarmi (giovato sarebbe). Papa Bonifacio VIII (principe d'i novi Farisei), avendo un dissidio (guerra) nella stessa Roma (presso a Laterano), e non contro Saraceni e Giudei, dal momento che tutti i suoi nemici erano cristiani e nessuno di essi era stato all'assedio (a vincer) di Acri né a mercanteggiare (mercatante) in terra musulmana (di Soldano), non ebbe riguardo (guardò), verso di sé (in sé), della sua dignità di pontefice (sommo officio) né della sua carica di sacerdote (ordini sacri), e neppure, nei confronti miei (in me), di quel cordone francescano (capestro) che un tempo era solito (solea) rendere più magri (fare... più macri) coloro che lo portavano (i suoi cinti). Allo stesso modo in cui Costantino mandò a chiamare (chiese) Silvestro nella grotta del monte Soratte (d'entro Siratti) affinché lo guarisse (a guerir) dalla lebbra (lebbre), così costui mi fece chiamare in qualità di medico (per maestro) affinché lo guarissi dalla sua febbre di superbia; mi chiese (domandommi) consiglio, ma (e) io non glielo diedi (tacetti) perché le sue parole mi sembrarono deliranti (ebbre). Egli (E') allora aggiunse: "Il tuo animo non tema (non sospetti); ti assolvo fin da ora (finor), ma tu insegnami il modo (fare sì) di espugnare (in terra getti) Palestrina (Penestrino). Come sai, io posso aprire (diserrare) e chiudere (serrare) le porte del Cielo; per questo (però) sono due le chiavi che il mio predecessore disprezzò (non ebbe care)". Allora, le gravi e minacciose parole (li argomenti gravi) mi spinsero (pinser) al punto in cui (là 've) il silenzio ('l tacer) mi parve (mi fu avviso) la cosa peggiore ('l peggio), e dissi: "Padre, dal momento che (da che) tu mi assolvi (lavi) da quel peccato in cui (ov') io ora (mo) sono costretto (deggio) a cadere, promettere molto (lunga promessa) e mantenere poco (l'attender corto) ti faranno trionfare (dei nemici) nel trono pontificio (alto seggio)". Poi, quando morii, venne a prendermi san Francesco; ma un diavolo (un d'i neri cherubini) gli disse: "Non portarlo via; non farmi torto. Costui deve (dee) venire all'Inferno (giù) tra i miei servi (meschini), poiché diede il consiglio fraudolento, dopo il quale (dal quale in qua) io gli sono sempre stato alle costole (a' crini); poiché non si può assolvere chi non si pente e non si può (puossi) pentirsi (pentere) e allo stesso tempo (insieme) commettere il peccato (volere) in quanto logicamente inammissibile (per la contradizion che nol consente). Misero (dolente) me! Come mi risvegliai (dalla mia certezza) (riscossi) quando mi afferrò dicendomi: "Forse tu non pensavi che io fossi un esperto in logica (löico)!» Mi condusse davanti a Minosse; e questi attorcigliò (attorse) otto volto alla dura schiena (dosso) la coda, e dopo averla morsa in segno di grande ira (rabbia), esclamò: "Costui è tra i dannati destinati (de' rei) al fuoco ladro (furo); per cui io sono dannato in eterno (perduto) nel luogo in cui mi vedi, e sempre mi dolgo (mi rancuro) andando così avvolto dalla fiamma (sì vestito)». Quando egli ebbe così terminato il proprio discorso (suo dir), la fiamma si allontanò (si partio) gemendo (dolorando), torcendo e agitando (dibattendo) la cima appuntita (corno aguto). Io e la mia guida procedemmo oltre, lungo il ponticello (scoglio) fino al ponte successivo (l'altr'arco) che sovrasta (cuopre) la bolgia (fosso) in cui sono puniti (si paga il fio) coloro che si caricano di colpa (acquistan carco) seminando discordie (scommettendo). |
Riassunto
Incontro con Guido da Montefeltro (vv. 1-30)
Mentre la fiamma che avvolge Ulisse e Diomede si allontana, un'altra si avvicina, facendo intuire, attraverso un suono indistinto, il desiderio di comunicare. Al suo interno si cela lo spirito di Guido da Montefeltro, un nobile romagnolo, che chiede aggiornamenti sulla situazione politica della sua terra natale.
Le condizioni della Romagna (vv. 31-54)
Su incoraggiamento di Virgilio, Dante descrive lo scenario della Romagna. Pur apparendo calma in superficie, la regione è in realtà attraversata da tensioni e discordie tra i signori locali. Dante elenca brevemente le condizioni delle principali città, come Ravenna, Forlì, Rimini, Faenza, Imola e Cesena, prima di sollecitare l'interlocutore a rivelare la propria identità.
La confessione di Guido e la sua conversione (vv. 55-84)
Guido, credendo di parlare con un'anima dannata come lui, si presenta come un uomo famoso per la sua astuzia più che per il valore in battaglia. In vecchiaia, pentito dei suoi trascorsi, abbracciò la vita religiosa entrando nell'ordine francescano, scelta che avrebbe potuto salvarlo se non fosse intervenuto papa Bonifacio VIII a spingerlo nuovamente verso il peccato.
L'inganno di Bonifacio VIII (vv. 85-111)
Bonifacio VIII, nel tentativo di sconfiggere i Colonnesi asserragliati a Palestrina, chiese a Guido un consiglio su come superarli con l'inganno, promettendogli anticipatamente l'assoluzione dai peccati. Convinto dalle rassicurazioni del pontefice, Guido suggerì di fare grandi promesse ai Colonna per poi non mantenerle, tradendoli con una strategia subdola.
Il diavolo logico e la condanna di Guido (vv. 112-136)
Alla morte di Guido, san Francesco si presentò per accoglierlo, ma un diavolo intervenne reclamando la sua anima. Con un ragionamento ineccepibile, il demonio dimostrò che Guido, morendo in stato di peccato, gli apparteneva. Condotto davanti a Minosse, fu destinato all'ottavo cerchio, tra i consiglieri fraudolenti. Terminato il racconto, la fiamma di Guido si allontana contorcendosi per il dolore, mentre Dante e Virgilio proseguono fino al ponte che sovrasta la nona bolgia.
Figure Retoriche
v. 1: "Dritta e queta": Endiadi.
v. 3: "Dolce poeta": Perifrasi. Per indicare Virgilio.
v. 4: "Che dietro a lei venia": Anastrofe.
v. 6: "Confuso suon": Anastrofe.
vv. 7-15: "Come 'l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l'avea temperato con sua lima, mugghiava con la voce de l'afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertian le parole grame": Similitudine.
v. 35: "Sanza indugio a parlare incominciai": Anastrofe.
vv. 53-54: "Così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte tra tirannia si vive e stato franco": Similitudine.
v. 59: "L'aguta punta": Anastrofe.
v. 63: "Staria sanza più scosse": Litote. Invece di dire che "resterebbe quieta".
vv. 66: "Sanza tema d'infamia ti rispondo": Anastrofe.
v. 70: "Il gran prete": Perifrasi. Per indicare "papa Bonifacio VIII".
v. 75: "Non furon leonine, ma di volpe": Metonimia. Il concreto per l'astratto, leonine invece di violenza, volpe invece di astuzia.
vv. 76-77: "Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte": Anastrofe.
vv. 79-80: "Quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele": Perifrasi.
v. 85: "Lo principe d'i novi Farisei": Perifrasi. Per indicare Bonifacio VIII.
vv. 94-97: "Come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir de la lebbre; così mi chiese questi per maestro a guerir de la sua superba febbre": Similitudine.
v. 97: "Superba febbre": Perifrasi. Perché non è la classica febbre, bensì la malattia del potere.
v. 98: "Domandommi consiglio, e io tacetti": Antitesi. Il consiglio è qualcosa che si dà a voce, il tacere è qualcosa che non si dà (a voce).
v. 103: "Lo ciel poss'io serrare e diserrare": Metonimia.
v. 109: "Cader deggio": Anastrofe.
v. 123: "Loico fossi": Anastrofe.
v. 132: "Torcendo e dibattendo": Endiadi.
Analisi ed Interpretazioni
Nel XXVII canto dell'Inferno, Dante incontra un altro grande personaggio, Guido da Montefeltro, che rappresenta l'esempio moderno dei consiglieri fraudolenti, in contrapposizione all'antico Ulisse. Guido fu una figura centrale nelle lotte politiche della sua epoca, due volte scomunicato e altrettante riconciliatosi con la Chiesa, fino a convertirsi nel 1296 entrando nell'Ordine francescano, dove morì due anni dopo in fama di santità. Tuttavia, Dante, che nel Convivio aveva elogiato la sua conversione, modifica qui il proprio giudizio, probabilmente alla luce di nuove informazioni tratte dalle cronache, come le Historiae di Riccobaldo da Ferrara, che rivelano il consiglio fraudolento dato da Guido a Bonifacio VIII per ingannare e sconfiggere la famiglia Colonna.
Il canto si sviluppa in tre sezioni principali: l'incontro con Guido (vv. 1-33), un'analisi geopolitica della Romagna (vv. 36-54) e la narrazione delle colpe di Guido (vv. 61-129). Guido, avvolto in una fiamma che richiama il terribile bue di Falaride, si rivolge ai visitatori, incuriosito dalla loro presenza. Virgilio esorta Dante a rispondergli, sottolineando la differenza tra questo incontro e quello con Ulisse, che parlava greco. Guido, scambiando Dante per un altro dannato, confessa le sue colpe, credendo che ciò non possa nuocere alla sua reputazione terrena.
Dante descrive Guido con toni cortesi e rispettosi, ricordando il suo amore per la patria e la sua intelligenza. Tuttavia, emerge il dramma della sua dannazione: pur essendo stato un astuto stratega, capace di ingannare gli altri, Guido si lascia sedurre dalle false promesse di assoluzione anticipata fattegli da Bonifacio VIII, un papa descritto come il "principe dei nuovi Farisei". Qui Dante condanna non solo Guido, che si era illuso che l'abito francescano bastasse a salvarlo, ma anche Bonifacio, simbolo della corruzione ecclesiastica. Quest'ultimo promette a Guido il perdono per un peccato non ancora commesso, in cambio del consiglio per espugnare la rocca di Palestrina. L'errore di Guido sta nel credere che l'assoluzione papale possa annullare la necessità di un sincero pentimento, come sottolinea il diavolo che, in punto di morte, lo strappa a san Francesco con la logica inoppugnabile: "pentirsi e voler peccare al tempo stesso è impossibile".
Questo episodio, parallelo alla vicenda del figlio di Guido, Buonconte da Montefeltro, salvato per un sincero pentimento in extremis (Purg. V), ribadisce il tema centrale: la salvezza non dipende dalla fama, dalle azioni esteriori o dal potere della Chiesa, ma dalla genuina conversione dell'anima. Guido rappresenta così un tragico esempio di come l'intelligenza e l'astuzia, se non sostenute dalla fede, possano condurre alla rovina eterna.
Passi Controversi
I versi 7-12 si riferiscono alla leggenda secondo cui Falaride, tiranno di Agrigento, avrebbe commissionato all'artigiano Perillo un bue di rame utilizzato per eseguire condanne a morte. I condannati venivano rinchiusi all'interno del bue, sotto il quale si accendeva una fiamma; le loro urla di dolore, risuonando all'esterno, somigliavano al muggito di un animale. Si narra che Falaride abbia inaugurato questa invenzione sullo stesso Perillo. Dante potrebbe aver tratto questa storia da Ovidio (Tristia, III, 11) o da Orosio (Adversus Paganos, I, 20).
Guido, parlando con Virgilio, afferma di utilizzare il lombardo, una variante del volgare italiano. Dante riteneva che gli antichi Romani non usassero il latino ma un volgare simile a quello del suo tempo (cfr. De Vulgari Eloquentia, I, 1). È curioso notare che Virgilio si rivolga a un greco come Ulisse in un volgare nostrano, in netto contrasto con lo stile elevato del canto precedente. Alcuni studiosi ipotizzano che Virgilio abbia addirittura parlato in greco a Ulisse. Il termine istra significa "adesso" ed è tipico del dialetto lucchese e di altre aree dell'Italia settentrionale, mentre adizzo vuol dire "stimolo".
L'espressione dolce terra latina (vv. 26-27) si riferisce all'Italia, mentre il giogo da cui nasce il Tevere è il Monte Coronaro. Nei versi 43-45, si menziona Forlì, che resistette a un lungo assedio (1281-83) delle truppe guelfe inviate da Martino IV, infliggendo una pesante sconfitta alle truppe francesi intervenute in aiuto degli assedianti. La città, al tempo, era governata dagli Ordelaffi, il cui stemma araldico raffigurava un leone verde rampante su sfondo dorato. Guido si distinse in questo evento per le sue eccezionali doti militari.
I mastini, padre e figlio, Malatesta il Vecchio e Malatestino, sono menzionati nei versi 46-48. Il secondo, fratello di Paolo e Gianciotto, viene descritto come particolarmente spietato. Il leone azzurro in campo bianco (v. 50) rappresenta Maghinardo Pagani, signore di Faenza e Imola, noto per il suo atteggiamento ambiguo tra Guelfi e Ghibellini.
Il termine cordigliero (v. 67) allude ai frati francescani, riconoscibili per il cordone che portavano. L'espressione al verso 78, di matrice biblica (Salmi XVIII, 4), riecheggia anche le parole di Martino IV nel bandire la crociata contro i Ghibellini forlivesi guidati da Guido. Al verso 81 si percepisce un'eco delle parole che Dante dedica a Guido nel Convivio (IV, 28, 8).
I versi 89-90 sottolineano che i cristiani osteggiati da Bonifacio VIII, ossia i Colonna, non avevano partecipato all'assedio di San Giovanni d'Acri nel 1291, né avevano collaborato con i musulmani in Terrasanta. Il verso 93 ironizza sul fatto che, sebbene il cordone francescano fosse originariamente un simbolo di austerità, l'ordine nel Trecento era spesso corrotto.
Il consiglio dato da Guido al papa (vv. 110-111) riflette un famoso detto riportato da Riccobaldo da Ferrara: "Promettete molto, mantenete poco." Bonifacio VIII, infatti, promise il perdono ai suoi nemici per convincerli a lasciare la rocca di Palestrina, che poi fece distruggere.
Le fiamme che avvolgono i dannati sono descritte come foco furo (v. 127), cioè "ladro", poiché nascondono le anime alla vista e impediscono loro di osservare ciò che accade all'esterno. Infine, l'espressione quei che scommettendo acquistan carco (v. 136) si riferisce ai seminatori di discordie, che accumulano peccati dividendo le persone.
Fonti: libri scolastici superiori