Parafrasi e Analisi: "Canto XXX" - Inferno - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XXX dell'Inferno rappresenta uno degli snodi cruciali della narrazione dantesca, in cui si intensifica il tema della degradazione morale e della falsità, esplorato nel contesto della decima bolgia dell'ottavo cerchio, dedicata ai falsari. Qui Dante prosegue la sua indagine sulla corruzione dell'animo umano, affrontando peccati che, pur meno eclatanti rispetto ad altri, rivelano un profondo disordine etico.

Il canto è contraddistinto da un'atmosfera di caos e sofferenza estrema, con immagini vivide che sottolineano la degenerazione fisica e spirituale dei dannati. Attraverso una combinazione di dramma e invettiva, il poeta introduce figure emblematiche della falsità in diversi ambiti – dalla moneta alla parola, dalla persona alle cose – offrendo un'ampia riflessione sulla fragilità della verità e sulla devastazione causata dalla menzogna.

Dante utilizza questo canto per approfondire il rapporto tra colpa e pena, esplorando la corrispondenza tra il peccato della falsificazione e la disgregazione della dignità umana, in una cornice narrativa che intreccia giustizia divina, simbologia e poesia visionaria.


Testo e Parafrasi


Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra 'l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,

Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,

gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli
la leonessa e ' leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli,

prendendo l'un ch'avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annegò con l'altro carco.

E quando la fortuna volse in basso
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
sì che 'nsieme col regno il re fu casso,

Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva

del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,

quant'io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che 'l porco quando del porcil si schiude.

L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l'assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.

E l'Aretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando».

«Oh!», diss'io lui, «se l'altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».

Ed elli a me: «Quell'è l'anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l'altro che là sen va, sostenne,

per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».

E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu' io avea l'occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l'omor che mal converte,
che 'l viso non risponde a la ventraia,

facea lui tener le labbra aperte
come l'etico fa, che per la sete
l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte.

«O voi che sanz'alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss'elli a noi, «guardate e attendete

a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,
e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.

Li ruscelletti che d'i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l'imagine lor vie più m'asciuga
che 'l male ond'io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov'io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.

Ivi è Romena, là dov'io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch'io il corpo sù arso lasciai.

Ma s'io vedessi qui l'anima trista
di Guido o d'Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.

Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c'ho le membra legate?

S'io fossi pur di tanto ancor leggero
ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,

cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch'ella volge undici miglia,
e men d'un mezzo di traverso non ci ha.

Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e' m'indussero a batter li fiorini
ch'avevan tre carati di mondiglia».

E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate 'l verno,
giacendo stretti a' tuoi destri confini?».

«Qui li trovai – e poi volta non dierno –»,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.

L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo;
l'altr'è 'l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».

E l'un di lor, che si recò a noia
forse d'esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l'epa croia.

Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».

Ond'ei rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non l'avei tu così presto;
ma sì e più l'avei quando coniavi».

E l'idropico: «Tu di' ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là 've del ver fosti a Troia richesto».

«S'io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch'alcun altro demonio!».

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel ch'avëa infiata l'epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».

«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia
che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!».

Allora il monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,

tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a 'nvitar molte parole».

Ad ascoltarli er'io del tutto fisso,
quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!».

Quand'io 'l senti' a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch'ancor per la memoria mi si gira.

Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch'è, come non fosse, agogna,

tal mi fec'io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.

«Maggior difetto men vergogna lava»,
disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato;
però d'ogne trestizia ti disgrava.

E fa ragion ch'io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t'accoglia
dove sien genti in simigliante piato:

ché voler ciò udire è bassa voglia».
Nel tempo in cui Giunone era adirata (crucciata)
contro la stirpe (sangue) tebana a causa (per) di Semele, come dimostrò in
due occasioni (una e altra fïata),

Atamante divenne folle (insano) al punto che, vedendo la
moglie con i due figli in braccio (andar carcata da ciascuna
mano),

gridò: «Tendiamo le reti, in modo da poter catturare (sì ch'io
pigli... al varco) la leonessa e i leoncini»; e poi allungò le mani
crudeli (dispietati artigli),

afferrando quello che si chiamava Learco, e lo fece roteare (rotollo)
e lo sfracellò (percosselo) contro una roccia (sasso); e la madre
(quella) si affogò (s'annegò) con l'altro figlio (carco).

E quando la fortuna fece precipitare (volse in basso) la folle
superbia (l'altezza... che tutto ardiva) dei Troiani, tanto che il
regno fu abbattuto (casso) insieme al suo re,

quando Ecuba, infelice (trista), misera e ridotta in schiavitù
(cattiva), dopo che vide morta Polissena, e la sventurata (dolorosa) si
accorse (si fu... accorta) del cadavere di Polidoro

sulla riva del mare, impazzita (forsennata)
latrò come un cane; a tal punto il dolore la
fece uscire di senno (le fé la mente torta).

Ma non si videro mai furie tebane e troiane manifestarsi verso
qualcuno in modo tanto crudele (crude), nel ferire (punger)
non solo bestie, ma anche (nonché) uomini (membra umane),

quanto io vidi (accadere) in due dannati (ombre) esangui
(smorte) e nudi, che correvano dando morsi come fa il porco
quando irrompe fuori (si schiude) dal porcile.

Uno raggiunse (giunse) Capocchio e lo addentò (l'assannò) alla
nuca (nodo del collo), così che, trascinandolo, gli fece strisciare
(grattar) il ventre sul duro terreno della bolgia (fondo sodo).

E l'Aretino che era rimasto lì, mi disse tremando: «Quel
folletto è Gianni Schicchi e, furioso, va conciando in questo
modo i compagni (altrui)».

E io gli dissi: «Oh, possa l'altro non ficcarti i denti addosso,
non ti dispiaccia (non ti sia fatica) dirmi chi è, prima che si
allontani (si spicchi) da qui».

Ed egli: «È l'anima antica della
scellerata Mirra, che divenne concubina (amica)
del padre al di là del lecito (dritto) amore.

Costei giunse a peccare con lui fingendosi (falsificando sé)
un'altra persona (in altrui forma), così come l'altro (peccatore)
laggiù (che là sen va),

il quale, per appropriarsi della miglior cavalla (donna)
dell'armento (torma), osò (sostenne) sostituirsi a Buoso Donati,
facendo (al suo posto) testamento (testando) e dandogli pieno valore legale (norma)».

E dopo che se ne furono andati i due spiriti idrofobi (rabbiosi)
sui quali avevo fissato lo sguardo (l'occhio), lo rivolsi verso
gli altri dannati (mal nati).

Vidi uno fatto a forma (a guisa) di liuto (lëuto), se solo avesse
avuto l'inguine (anguinaia) separato (tronca) dalle
gambe (l'altro che l'uomo ha forcuto).

L'opprimente (grave) idropisia (idropesì), che, a causa dell'umore (omor)
che non converte bene, deforma (dispaia) le membra a tal punto che il
viso risulta del tutto sproporzionato (non risponde) al ventre (ventraia),

gli faceva tenere le labbra aperte come fa il malato di febbre
etica (etico), che per la sete rovescia (rinverte) un labbro in
basso (verso 'l mento) e uno in alto.

«Voi che, non so per quale motivo, siete nell'Inferno (mondo
gramo) non sottoposti ad alcuna pena», disse a noi, «guardate e
prestate attenzione (attendete)

alla misera condizione (miseria) di maestro Adamo; da vivo io
ebbi in abbondanza (assai) quello che desideravo, e ora, povero
me (lasso)!, desidero ardentemente (bramo) una goccia d'acqua.

I ruscelletti che dai (d'i) verdi colli del Casentino, rendendo
(faccendo) i loro alvei (canali) freschi e ricchi di acqua
(molli), si gettano nell'Arno,

mi stanno sempre davanti, e non senza conseguenze (non indarno), perché il loro
ricordo (l'imagine) accresce la mia sete (m'asciuga) molto di più (vie più) della
malattia ('l male) a causa della quale (ond'io) mi assottiglio (mi discarno) in volto.

La rigorosa giustizia che mi tormenta (fruga) per farmi
maggiormente soffrire (a metter più li miei sospiri
in fuga), ha origine (tragge cagion) dal luogo in cui peccai.

Là (Ivi) è Romena, dove io falsificai (falsai) la lega del fiorino,
che su una faccia reca l'immagine (suggellata) del Battista; per
la qual cosa venni bruciato sul rogo (il corpo sù arso lasciai).

Ma se potessi vedere qui l'anima dannata (trista) di Guido o
di Alessandro o del loro fratello, non cambierei questo
piacere di vederli (la vista) nemmeno per Fonte Branda.

Uno di loro è già nell'Inferno (dentro), se gli spiriti rabbiosi
che corrono qui intorno dicono il vero; ma a che mi giova
(val) se ho le membra impedite (legate)?

Se io fossi anche solo un po' più agile (leggero) da poter
avanzare anche solo di un'oncia ogni cent'anni, mi sarei già messo
in cammino (per lo sentiero),

per cercarlo tra questi spiriti deformati (gente sconcia), sebbene
(con tutto che) la bolgia (ella) misuri undici miglia di circonferenza
(volge) e in nessun punto sia larga (di traverso) meno di mezzo miglio.

A causa loro io sono dannato tra simile gente (sì fatta famiglia);
furono loro a indurmi a coniare (batter) fiorini con tre carati
di metallo vile (mondiglia)».

Ed io: «Chi sono i due miseri (tapini) che, addossati tra loro
(stretti) alla tua destra (destri confini), fumano come fanno le
mani bagnate d'inverno (verno)?».

«Li ho trovati qui – e da allora non si sono più mossi (volta
non dienno) -», rispose, «quando caddi (piovvi) in questa bolgia
(greppo), e credo che non si muoveranno più (dieno) per l'eternità.

Una è colei che accusò ingiustamente Giuseppe; l'altro è il
bugiardo Sinone, il greco di Troia: emettono (gittan) simile fetore
(leppo) a causa della febbre alta (aguta)».

E uno di loro, che forse si indispettì (si recò a noia) per essere
stato nominato con tale disprezzo (sì oscuro), gli colpì col
pugno il ventre (epa) gonfio e teso (croia).

E quello risuonò come fosse un tamburo;
e maestro Adamo gli colpì il volto con
un pugno, che non sembrò meno duro,

dicendogli: «Benché (Ancor che) mi sia impedito (tolto) il
movimento degli arti, che sono pesanti (gravi), ho tuttavia il
braccio idoneo (sciolto) a questo scopo (mestiere).

Al che egli rispose: «Quando andavi al rogo (al fuoco),
non l'avevi così veloce (presto); ma l'avevi così e anche più quando
falsificavi le monete (coniavi)».

E l'idropico: «Dici (di') il vero riguardo a ciò (di questo): ma
tu non fosti altrettanto onesto (ver) testimone quando a Troia
(là 've) fosti interrogato (richesto) sulla vera funzione del cavallo (del ver)».

«Se io dissi il falso, tu falsificasti le monete (conio)», disse
Sinone; «e io sono qui per una sola menzogna (un
fallo), mentre tu per molte di più di ogni altro dannato!»

«Ricordati, spergiuro, del cavallo di legno», rispose quello dal
ventre (epa) gonfio (infiata); «e ti sia (sieti) motivo di dolore
(reo) il fatto che tutti lo sanno (sallo)!».

«E a te sia dolorosa (rea)», disse il Greco, «la sete per la quale
ti si screpola (crepa) la lingua, e l'umore marcio che tanto ti
gonfia (t'assiepa) il ventre davanti agli occhi!».

Allora il falsario (monetier): «Così ti si squarcia la bocca a causa
della febbre (mal), ora come sempre (come suole); cosicché, se
io ho sete e l'umore mi gonfia (rinfarcia),

tu hai la febbre (l'arsura) e il mal di testa, e per bere (leccar) un
po' d'acqua (specchio di Narcisso), non avresti bisogno (vorresti)
di molte parole di invito (a 'nvitar)».

Io ero tutto intento (fisso) ad ascoltarli, quando il maestro mi
disse: «Continua pure a guardarli (pur mira), che poco manca
che io litighi (risso) con te!».

Quando lo sentii rivolgersi a me con tono adirato (con ira), mi
voltai verso di lui con tale vergogna, che ancora mi rimane
impressa (mi si gira) nella memoria.

Come chi sogna un fatto per lui dannoso (suo dannaggio), che, pur sognando,
si augura di sognare, in modo da desiderare ardentemente (agogna) ciò che
è già in realtà (il sogno) (quel ch'è), come se non lo fosse,

così divenni io, non trovando parole (non possendo parlare),
poiché desideravo (disïava) scusarmi, e nello stesso tempo
(tuttavia) mi stavo già scusando senza sapere (e nol mi credea) di farlo.

«Una vergogna minore (men vergogna) della tua basta a lavare una colpa
anche più grande (Maggior difetto)», disse il maestro, «di quella commessa
da te; perciò (però) deponi (ti disgrava) ogni rimorso (trestizia).

E fa' conto (fa ragion) di avermi sempre al fianco (allato), se capiterà
ancora (se più avvien) che il caso (fortuna) ti ponga (t'accoglia) in un
luogo dove vi siano dannati (genti) in un simile battibecco (piato):

poiché ascoltare ciò è voglia meschina (bassa).



Riassunto


Furore dei falsificatori di persone (vv. 1-21)
Il tormento dei peccatori nella decima bolgia supera quello del re tebano Atamante, che nella sua follia scambiò moglie e figli per leoni e li uccise, così come quello di Ecuba, la regina di Troia, che impazzì di dolore dopo aver perso la città e i suoi figli.

Gianni Schicchi e Mirra (vv. 22-45)
Ancor più furiosi si mostrano alcuni dannati che corrono mordendo i compagni di pena. Tra questi ci sono Gianni Schicchi, che si sostituì al defunto Buoso Donati per redigere un testamento a suo vantaggio, e Mirra, la quale, spinta da un amore incestuoso verso il padre, si finse un'altra donna per ingannarlo.

I falsificatori di moneta: maestro Adamo (vv. 46-90)
In questa bolgia si trovano anche i falsari di monete, deformati dall'idropisia, una condizione che li gonfia e li sfigura. Tra loro, maestro Adamo spicca per il suo corpo enorme e la bocca spalancata dalla sete. Fu lui a contraffare i fiorini di Firenze, su istigazione dei conti Guidi di Romena.

I falsificatori di parola (vv. 91-99)
Dante, incuriosito, chiede a uno dei dannati l'identità di due spiriti tormentati dalla febbre che giacciono accanto a lui. Sono falsificatori di parola: la moglie di Putifarre, che accusò falsamente Giuseppe di averla violentata, e Sinone, il greco che convinse i Troiani a introdurre il cavallo di legno nella città fingendosi abbandonato dai suoi compagni.

Il diverbio tra maestro Adamo e Sinone (vv. 100-129)
Quando maestro Adamo menziona Sinone con disprezzo, quest'ultimo reagisce colpendolo al ventre. La risposta non tarda: maestro Adamo lo colpisce a sua volta al volto. Ne nasce una lite accesa, con scambi di accuse e insulti reciproci.

Il rimprovero di Virgilio (vv. 130-148)
Virgilio, notando che Dante si sofferma troppo ad assistere alla disputa, lo rimprovera severamente, suscitandone vergogna e pentimento. Infine, lo invita con parole più gentili a non commettere più simili errori in futuro.


Figure Retoriche


v. 1: "Chi poria mai": Anastrofe.
vv. 1-2: "Chi poria mai pur con parole sciolte dicer": Iperbato.
v. 9: "Di Puglia": Sineddoche. La parte per il tutto, di Puglia invece di dire meridione o sud d'Italia.
v. 12: "Come Livio scrive": Anastrofe.
v. 18: "Dove sanz'arme vinse il vecchio Alardo": Anastrofe.
vv. 19-21: "E qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo": Iperbole.
vv. 22-24: "Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com'io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla": Similitudine.
v. 24: "Dal mento infin dove si trulla": Metonimia. L'effetto per la causa, "fino a dove si scorreggia" anziché dire "fino all'ano".
vv. 35-36: "Seminator di scandalo e di scisma fuor vivi": Anastrofe.
v. 61: "L'un piè per girsene sospese": Anastrofe.
v. 64: "Che forata avea la gola": Anastrofe.
v. 65: "E tronco 'l naso": Anastrofe.
v. 79: "Gittati saran": Anastrofe.
v. 85: "Quel traditor che vede pur con l'uno": Perifrasi. Per indicare Malatestino I Malatesta, soprannominato dell'Occhio o il Guercio per il fatto che aveva perso un occhio.
v. 93: "Veduta amara": Sinestesia. Sfera sensoriale della vista e del gusto.
vv. 100-102: "Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curio": Iperbato.
v. 106: "Ricordera'ti": Anastrofe.
v. 111: "Trista e matta": Endiadi.
v. 120: "Greggia": Sineddoche.
v. 126: "Quei sa che sì governa": Perifrasi.


Analisi ed Interpretazioni


Il canto dedicato alla pena dei falsari si caratterizza per un'alternanza tra toni elevati e momenti comico-realistici, in cui Dante descrive con precisione le sofferenze dei dannati e sviluppa un importante discorso poetico. La narrazione combina uno stile aspro e popolare con un linguaggio retoricamente complesso, arricchendo il testo di riferimenti al mondo classico e a elementi di medicina medievale.

L'episodio si apre con la descrizione della furia dei falsari di persona, evocata attraverso due similitudini tratte dalla mitologia classica. La prima riguarda Atamante, che, impazzito, scambia la moglie e i figli per una leonessa con i suoi cuccioli, mentre la seconda ritrae Ecuba, resa folle dalla morte dei figli Polissena e Polidoro dopo la caduta di Troia. Entrambi i riferimenti, ispirati alle Metamorfosi di Ovidio, esaltano la crudeltà e il dramma, evocando il destino tragico di Troia e Tebe, simboli di distruzione epica. Queste immagini introducono solennemente i personaggi di Gianni Schicchi e Mirra, legati a inganni e passioni devianti.

Il tono si abbassa bruscamente quando Gianni Schicchi azzanna Capocchio al collo, trascinandolo con furia animalesca. Griffolino d'Arezzo presenta Schicchi e Mirra con un linguaggio semplice e diretto: il primo è descritto come un "folletto" rabbioso, mentre la seconda, che nutrì un amore incestuoso per il padre, rappresenta un contrasto morale. Schicchi, celebre per essersi finto un morto per dettare un falso testamento, accentua il carattere grottesco della scena. Questo accostamento tra personaggi tanto diversi evidenzia la varietà stilistica del canto.

Successivamente, Dante introduce Mastro Adamo, il falsificatore di monete, descritto con toni ironici. Il ventre gonfio lo fa somigliare a un liuto, mentre le gambe sottili creano un contrasto grottesco con il suo aspetto complessivo. Nel suo monologo, Adamo alterna lirismo e sarcasmo: rievoca con nostalgia i paesaggi del Casentino, con ruscelli freschi e colline verdi, ma poi scivola in un linguaggio crudo e spezzato, esprimendo odio verso i conti Guidi, responsabili della sua rovina. Il riferimento al fiorino d'oro, definito "lega suggellata del Batista", sottolinea il valore simbolico della moneta e la gravità del crimine commesso.

La scena culmina nella rissa tra Mastro Adamo e Sinone, il greco che, nell'Eneide, ingannò i Troiani. Sinone, insieme alla biblica moglie di Putifarre, rappresenta i falsificatori di parola, puniti con una febbre che li consuma. Lo scontro tra i due inizia con pugni e insulti volgari, per poi trasformarsi in una "tenzione" poetica, con versi taglienti e battute ironiche. Dante, incuriosito, osserva la disputa, ma viene rimproverato da Virgilio, che lo ammonisce per la sua "bassa voglia". Questo rimprovero segna un momento chiave nel percorso poetico di Dante: Virgilio lo invita ad abbandonare definitivamente la poesia comico-realistica della sua giovinezza, ritenuta inadatta alla sua missione morale ed estetica.

Nel finale del canto, lo stile si eleva nuovamente. Virgilio usa un linguaggio ricercato per descrivere la rissa come un "piato", innalzando il tono del discorso. Questo contrasto stilistico ribadisce che Dante utilizza la poesia comica solo per rappresentare il mondo ultraterreno, rifiutandola come genere fine a se stesso.

Un altro elemento distintivo di questi canti è l'attenzione ai dettagli medici e anatomici. Dante, forse influenzato da studi effettuati o letture approfondite, mostra una conoscenza accurata della fisiologia umana. Già nella descrizione dei malati degli ospedali di Valdichiana, Maremma e Sardegna, afflitti da malaria, il poeta traccia un quadro realistico: corpi coperti di croste, membra putrescenti e un fetore insopportabile richiamano immagini di scabbia e lebbra, malattie che all'epoca si ritenevano spesso collegate. Analogamente, nel caso di Mastro Adamo, Dante descrive con precisione i sintomi dell'idropisia: il ventre gonfio come un tamburo è attribuito al "liquido che si accumula", seguendo le teorie mediche di Bartolomeo Anglico, il cui manuale De proprietatibus rerum potrebbe essere stata una fonte d'ispirazione. La sete insaziabile e le labbra secche sono invece accostate ai sintomi della tisi.

L'attenzione ai dettagli medici è evidente anche nella IX Bolgia, dove i corpi mutilati dei seminatori di discordia sembrano essere descritti con l'occhio di un anatomista. Dante rappresenta Maometto con un taglio che va dal mento fino all'ano, rivelando gli organi interni come in un'autopsia: cuore, polmoni e stomaco sono descritti con precisione. Pier da Medicina, con la gola squarciata, parla attraverso la "canna" insanguinata, mentre Bertran de Born tiene la propria testa mozzata in mano, affermando che il cervello è staccato dal midollo spinale. Questi dettagli suggeriscono una conoscenza, se non pratica, almeno teorica dell'anatomia umana.

In conclusione, il canto dei falsari rappresenta un intreccio unico di registri stilistici e riferimenti culturali, dalla mitologia classica alla medicina medievale. Dante utilizza sapientemente questi elementi per creare un quadro complesso, in cui la crudezza delle immagini si alterna a momenti di riflessione poetica e morale. Questo approccio riflette la maturazione del poeta, che supera le sperimentazioni giovanili per abbracciare una poetica più alta e consapevole, capace di integrare il comico e il tragico in una rappresentazione profondamente umana del mondo ultraterreno.


Passi Controversi


Il verso 3 fa probabilmente riferimento al fatto che Giunone prima folgorò Semele e successivamente fece impazzire Atamante. L'espressione "una e altra fiata" significa «due volte».

I versi 7-8 seguono da vicino il racconto di Ovidio (Metamorfosi, IV, 513-515), dove si legge: clamat: "Io, comites, his retia tendite silvis! / hic modo cum gemina visa est mihi prole leaena" («grida: "Forza, compagni, piazzate le reti in questi boschi! Poco fa ho avvistato qui una leonessa con i suoi due cuccioli"»).

Nel verso 15, l'aggettivo "cattiva" potrebbe avere il significato di «prigioniera», sebbene in Dante solitamente indichi qualcosa di «vile».

La "donna de la torma" (v. 43) è la cavalla migliore del branco, per la quale Gianni falsificò il testamento di Buoso Donati.

Il termine "etico" (v. 56) i riferisce al tisico, afflitto da una sete che si può paragonare a quella dell'idropico.

Nel verso 70, il verbo "fruga" assume il significato di «tormenta».

La Fonte Branda menzionata nel verso 78 potrebbe essere la celebre fonte di Siena. Tuttavia, alcuni studiosi ritengono che si tratti di una fonte meno nota situata nel castello di Romena, associata alla vicenda di Mastro Adamo che contraffaceva fiorini per conto dei conti Guidi. Non è escluso che i Casentinesi abbiano chiamato la fonte in questo modo basandosi sul passo dantesco.

L'"oncia" (v. 83) è un'antica unità di misura equivalente a un dodicesimo di piede, corrispondente quindi a pochi centimetri.

Alcuni manoscritti riportano, al verso 98, la variante "greco da Troia". La versione a testo suggerisce invece che Sinone, pur essendo greco, era stato accolto come cittadino di Troia da Priamo, rendendo il suo tradimento ancora più odioso.

L'espressione "febbre aguta" (v. 99) non indica necessariamente «febbre alta», ma sembra riferirsi a un tipo specifico di febbre che, secondo le credenze medievali, causava sete intensa e dolore alla testa.

Il verso 115 ricorda i versi 3-4 di un sonetto attribuito a Cecco Angiolieri in risposta a un componimento di Dante, ora perduto: s'i' desno con altrui, e tu vi ceni; / s'io mordo il grasso, e tu vi sughi il lardo. Dante potrebbe aver tratto ispirazione anche da altre tenzoni, oltre a quella nota con Forese Donati.

Infine, alcuni manoscritti riportano al verso 125 la variante "per mal dir" al posto di "per dir mal". Tuttavia, questa lettura è da scartare, poiché Adamo intende sottolineare che la febbre, a causa dell'arsura, sta dilaniando la bocca di Sinone.

Fonti: libri scolastici superiori

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