Parafrasi e Analisi: "Canto III" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Nel Canto III del Paradiso, Dante prosegue il suo viaggio attraverso i cieli della beatitudine e giunge nella sfera della Luna, il primo dei cieli del Paradiso. Qui il poeta inizia a esplorare il concetto di felicità celeste e la diversa partecipazione delle anime alla gloria divina. Il canto si concentra su un tema centrale della visione teologica medievale: la corrispondenza tra merito e beatitudine, mostrando come ogni anima occupi il proprio posto nel Paradiso secondo la giustizia divina. Attraverso il dialogo con le anime beate, Dante riflette sulla relazione tra libero arbitrio, voti religiosi e la volontà divina, approfondendo il rapporto tra le imperfezioni terrene e la perfezione dell'ordine celeste. Questo canto segna l'inizio di una riflessione più ampia sulla struttura del Paradiso e sulla condizione delle anime nella loro eterna beatitudine.


Testo e Parafrasi


Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto,
di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;

e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva' il capo a proferer più erto;

ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,

tornan d'i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;

tali vid' io più facce a parlar pronte;
per ch'io dentro a l'error contrario corsi
a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte.

Sùbito sì com' io di lor m'accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;

e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.

«Non ti maravigliar perch' io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
poi sopra 'l vero ancor lo piè non fida,

ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.

Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi».

E io a l'ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza'mi, e cominciai,
quasi com' uom cui troppa voglia smaga:

«O ben creato spirito, che a' rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s'intende mai,

grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond' ella, pronta e con occhi ridenti:

«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.

I' fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l'esser più bella,

ma riconoscerai ch'i' son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.

Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.

E questa sorte che par giù cotanto,
però n'è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».

Ond' io a lei: «Ne' mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da' primi concetti:

però non fui a rimembrar festino;
ma or m'aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m'è più latino.

Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».

Con quelle altr' ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch'arder parea d'amor nel primo foco:

«Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta.

Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;

che vedrai non capere in questi giri,
s'essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.

Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch'una fansi nostre voglie stesse;

sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com' a lo re che 'n suo voler ne 'nvoglia.

E 'n la sua volontade è nostra pace:
ell' è quel mare al qual tutto si move
ciò ch'ella crïa o che natura face».

Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d'un modo non vi piove.

Ma sì com' elli avvien, s'un cibo sazia
e d'un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,

così fec' io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.

«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,

perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch'ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.

Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi'mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.

Uomini poi, a mal più ch'a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.

E quest' altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s'accende
di tutto il lume de la spera nostra,

ciò ch'io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l'ombra de le sacre bende.

Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.

Quest' è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò 'l terzo e l'ultima possanza».

Così parlommi, e poi cominciò 'Ave,
Maria' cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.

La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,

e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;

e ciò mi fece a dimandar più tardo.
Beatrice, quel sole che un tempo mi aveva scaldato il
cuore d'amore, mi aveva svelato,
con dimostrazioni e confutazioni, il volto bellissimo della verità;

ed io, per dimostrare di aver corretto il mio sbaglio e di essermi
convinto dei suoi argomenti, solo quanto mi era consentito
per rispetto, alzai il capo per parlare più eretto;

ma poi apparve una cosa che attirò tanto
a sé la mia attenzione, spingendomi a guardarla,
che mi dimenticai di quanto stavo per dire.

Come attraverso vetri trasparenti e puliti,
o attraverso specchi d'acqua chiari e tranquilli,
non tanto profondi che non si possa intravederne il fondo,

vengono riflesse le immagini dei nostri volti,
in modo così debole che una perla su una fronte bianca
non sarebbe meno distinguibile dai nostri occhi;

vidi io i volti di più anime, altrettanto tenui, pronti per parlare;
per cui io credei fossero immagini riflesse, e commisi quindi
l'errore opposto a quello di Narciso, che si innamorò della propria immagine riflessa nell'acqua.

Non appena mi fui accorto di loro,
ritenendo essere quelle delle immagini riflesse,
mi voltai indietro per vedere chi fossero quelle anime;

ma non vidi nulla e mi rigirai quindi nuovamente,
fissando il mio sguardo nella mia amata guida, Beatrice,
alla quale, sorridendo, brillavano gli occhi.

"Non ti sorprendere del fatto che io sorrida",
mi disse, "per il tuo atteggiamento infantile,
poiché esso non ha ancora il piede saldo sulla verità,

ma ti fa invece ancora girare a vuoto, come è solito fare:
quelle che tu vedi sono anime reali, non immagini,
relegate in questo luogo per essere venute meno ai loro voti.

Perciò parla con loro, ascolta e credi alle loro parole;
perché la luce di Dio, che appaga i loro desideri, non li lascia
allontanare in nessun modo da sé stessa, dalla verità."

Io mi rivolsi quindi all'anima beata che mi sembrava più
desiderosa di parlare, e cominciai a dire,
come farebbe un uomo consumato da un gran desiderio:

"Oh anima destinata alla beatitudine, che dei raggi
della vita eterna puoi sentire quella dolcezza,
che se non provata non può essere mai compresa,

mi sarebbe cosa gradita se tu mi rendessi noti
il tuo nome e la sorte di tutte voi." Quindi quell'anima,
pronta a rispondere e con lo sguardo sorridente, disse:

"Il nostro spirito di carità ci invoglia a non rifiutare
nessuna giusta preghiera, proprio come la carità divina,
che vuole tutta la corte di anime del Paradiso simile a sé stessa.

Durante la mia vita mortale sono stata una monaca;
e se la tua memoria riesce a farti ricordare bene,
il fatto che io sia ora più bella non ti impedirà di riconoscermi,

e scoprirai quindi da solo che io sono Piccarda,
e che, beata, sono stata posta insieme a queste altre anime
nel cielo della Luna, quello che ruota più lentamente.

I nostri sentimenti, che sono accesi soltanto
dal piacere per lo Spirito Santo, per la carità divina,
gioiscono perché sono stati così predisposti dall'ordine divino.

E questa nostra condizione di beatitudine, che può sembrare
tanto umile, ci è stato data perché non furono mantenuti i voti
pronunciati in vita e rimasero incompiuti in alcuni loro aspetti."

Dissi quindi io a lei: "Nel vostro meraviglioso aspetto
brilla una luce sovrannaturale che vi rende irriconoscibili,
alterando le vostre sembianze originali, che ricorda di voi chi vi conobbe sulla terra:

per questo non sono stato pronto nel riconoscerti;
ma ciò che mi hai detto mi aiuta ora a ricordare,
cosicché mi è più facile riconoscerti.

Ma dimmi: voi beati che vi trovate in questo cielo,
non desiderate poter salire più in alto nel Paradiso, per poter
contemplare più da vicino Dio ed entrare quindi con lui in un rapporto più stretto?"

Con queste mie parole, elle sorrise prima un poco insieme ad altre anime;
quindi mi rispose con tanta gioia
che mostrava bene di ardere dell'amore di Dio:

"Fratello, ogni nostro desiderio e completamente appagato
dallo spirito di carità, spingendoci a desiderare solamente ciò
che già abbiamo, e non sentiamo il bisogno d'altro.

Se desiderassimo trovarci più in alto nel Paradiso,
questo desiderio sarebbe in contrasto
con quello di colui, Dio, che ci ha assegnato a questo cielo;

ti renderai conto che ciò non è possibile in queste sfere celesti,
se è vero che qui è necessario vivere in carità
e se consideri bene la natura della carità stessa.

Anzi, al contrario, è essenziale a questo stato di beatitudine
il fatto di attenersi alla volontà divina, grazie alla quale i nostri
desideri diventano una cosa sola e coincidono con essa stessa;

cosicché il modo in cui noi anime beate siamo destinate in
questo regno, a seconda del nostro grado, è gradito a tutte le
anime del Paradiso, così come è gradito al nostro re, che ci invoglia ad uniformarci alla sua volontà.

E nella sua volontà noi troviamo la nostra pace:
lui, Dio, è come un mare al quale tende ogni creatura
da lui generata ed anche quelle generate dalla natura."

Capii allora come ogni luogo
in cielo è ugualmente Paradiso, sebbene la Grazia
divina è distribuita in misura diversa in ognuno di essi.

Ma così come accade quando un cibo ci rende sazi
ma di un'altro ci rimane ancora la gola, la voglia di assaporarlo,
dell'uno se ne ne chiede ancora mentre dell'altro si ringrazia per quanto già ricevuto,

così feci io, spinto dalla curiosità di sapere altro, con gesti
e con parole, per sapere da lei quale fosse la tela, il voto,
che non portò a compimento.

"Una vite di perfezione ed alti meriti acquisiti collocano più
in alto nel cielo una donna, santa Chiara", mi disse, "secondo le
cui regole si indossano l'abito ed il velo monacali (l'ordine delle Clarisse)

promettendo fedeltà, di giorno e notte, fino alla propria morte,
a quello sposo, Cristo, che accoglie ogni voto, promessa,
che il vero senso di carità rende conforme al suo volere.

Per seguire i suoi insegnamenti, in giovane età,
mi allontanai dalla vita mondana ed indossai la sua veste,
mi chiusi in convento, promettendo di seguire la sua regola.

Ma poi degli uomini, più propensi a fare del male che a fare del
bene, mi rapirono, mi fecero uscire con la forza dall'amato
convento: sa solo Dio quale fu poi la mia vita.

E quest'altra luce, che vedi
alla mia destra e che brilla
di tutto lo splendore del nostro cielo,

può ritenere valido anche per sé stessa ciò io ti ho detto
riguardo a me; in vita è stata una suora e come a me le è stato
strappato dal campo il velo monacale.

Ma anche dopo essere stata ricondotta alla vita mondana,
contro la propria volontà e contro ogni buona norma morale,
in cuore suo non si separò comunque mai dal velo.

Questa di cui parlo è la luce, l'anima, della nobile Costanza,
che del secondo imperatore della casa di Svevia
diede alla luce il terzo ed ultimo erede."

Così mi parlò e cominciò poi a cantare
'Ave Maria', e cantando scomparve
come scompare nell'acqua profonda un oggetto pesante.

Il mio sguardo la seguì fintanto
che riuscì a farlo, e dopo averla persa di vista
si volse verso l'oggetto del mio più intenso desiderio,

concentrandosi perciò tutto su Beatrice;
ma lei brillò ai miei occhi di una luce tanto abbagliante,
che all'inizio non riuscii a sopportarne la vista;

e ciò mi rallentò nel rivolgerle la domanda.



Riassunto


Il III Canto del Paradiso è caratterizzato dall'incontro tra Dante e Piccarda Donati, una nobildonna fiorentina che il poeta aveva conosciuto in vita. La conferma di questo legame emerge nei versi 61-63, in cui Dante ammette di aver finalmente riconosciuto la donna.

Lo smarrimento di Dante di fronte agli spiriti della Luna
L'ingresso di Piccarda è preceduto da una lunga descrizione (vv. 10-18) in cui Dante esprime il proprio disorientamento davanti a figure evanescenti, gli spiriti che abitano il Cielo della Luna. Il poeta paragona la loro apparizione a immagini riflesse su vetri o superfici d'acqua (vv. 10-13) e, con un'immagine più raffinata, alla pallida lucentezza di una perla sulla fronte di una dama. Questo dettaglio richiama un'usanza tipica delle giovani nobili dell'epoca, tra cui la stessa Piccarda. Convinto di trovarsi di fronte a semplici riflessi, Dante si volta per cercare le vere figure dietro di sé, cadendo così nell'errore opposto a quello di Narciso, il mitologico cacciatore che, scambiando il proprio riflesso per una figura reale, finì per affogare nel tentativo di abbracciarlo. Confuso, il poeta si rivolge a Beatrice, che gli chiarisce la vera natura di quelle apparizioni.

Il dialogo con Piccarda Donati
A questo punto prende avvio il dialogo con Piccarda (v. 49), che si sviluppa in due momenti distinti. Nella prima parte (vv. 34-57), la donna si presenta a Dante, spiegandogli di essere stata, in vita, una monaca. Tuttavia, non avendo rispettato pienamente i voti, è stata assegnata al Cielo più basso. Nonostante ciò, né lei né le altre anime in quella condizione provano alcun rimpianto, poiché godono comunque della beatitudine divina.

La spiegazione dei gradi di beatitudine
Nella seconda parte della conversazione (vv. 58-90), Dante, incuriosito, chiede a Piccarda perché non desideri ascendere a un cielo più alto, così da poter godere di una maggiore vicinanza a Dio. La donna gli spiega che le anime beate, pervase dalla carità divina, non desiderano nulla di diverso da ciò che è stato stabilito per loro, perché la vera beatitudine consiste nell'essere in perfetta armonia con la volontà di Dio.

La violazione dei voti di Piccarda e Costanza d'Altavilla
Dante, però, vuole sapere quali siano i voti che Piccarda non ha potuto mantenere (vv. 91-120). Lei gli racconta di aver deciso, in giovane età, di seguire la regola dell'ordine di Santa Chiara, che però fu costretta ad abbandonare quando uomini malvagi la rapirono e la costrinsero a un'altra vita. Un destino simile, aggiunge, era toccato a Costanza d'Altavilla, moglie dell'imperatore Enrico VI di Svevia e madre di Federico II, la cui anima si trova accanto a lei.

La conclusione del canto
Dopo queste rivelazioni, l'anima di Piccarda scompare cantando l'Ave Maria, paragonata da Dante a un sasso che si immerge nell'acqua (v. 123). Il poeta, ancora pieno di domande, si volta verso Beatrice, ma la donna lo fulmina con lo sguardo, segnando così la fine del canto (vv. 121-130).

Il Canto III del Paradiso può dunque essere suddiviso in cinque sezioni principali:

Versi 1-33 – L'apparizione di Piccarda Donati;
Versi 34-57 – La presentazione di Piccarda e la sua condizione nel Paradiso;
Versi 58-90 – La spiegazione sulla beatitudine e la volontà divina;
Versi 91-120 – Il racconto della violazione dei voti di Piccarda e Costanza d'Altavilla;
Versi 121-130 – La scomparsa delle due anime e la conclusione del canto.


Figure Retoriche


v. 1: "Quel sol": Perifrasi. Per indicare Beatrice.
v. 1: "'l petto": Sineddoche. Il tutto per la parte, il petto anziché il cuore.
v. 1: "Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto": Metafora.
vv. 10-13: "Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non sì profonde che i fondi sien persi, tornan d'i nostri visi le postille": Similitudine.
v. 10: "Trasparenti e tersi": Endiadi.
v. 13: "D'i nostri visi le postille": Anastrofe.
vv. 14-16: "Debili sì, che perla in bianca fronte non vien men forte a le nostre pupille; tali vid'io più facce a parlar pronte": Similitudine.
v. 16: "A parlar pronte": Anastrofe.
v. 18: "Amor tra l'omo e 'l fonte": Perifrasi. Per indicare Narciso e la sua immagine specchiata nell'acqua.
v. 19: "Di lor m'accorsi": Anastrofe.
v. 20: "Quelle stimando": Anastrofe.
v. 28 e v. 30: "Vòto-voto": Paronomasia.
v. 29: "Vere sustanze": Anastrofe.
v. 33: "Da sé non lascia lor torcer li piedi": Metafora.
vv. 34-35: "Vaga / di ragionar": Enjambement.
v. 36: "Quasi com'uom cui troppa voglia smaga": Similitudine.
vv. 37-38: "Rai / di vita etterna": Enjambement.
v. 38: "La dolcezza senti": Anastrofe.
v. 41: "Nome tuo": Anastrofe.
v. 40: "Grazioso mi fia": Anastrofe.
vv. 43-45: "La nostra carità non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sé tutta sua corte": Similitudine.
vv. 43-44: "Non serra porte / a giusta voglia": Enjambement.
v. 45: "Sua corte": Analogia. Riferimento al Paradiso.
v. 47: "La mente tua": Anastrofe.
vv. 50-51: "Beati-beata": Paronomasia.
vv. 56-57: "Fuor negletti / li nostri voti": Enjambement.
v. 57: "Voti-vòti": Paronomasia.
vv. 58-59: "Mirabili aspetti / vostri": Enjambement.
v. 61: "A rimembrar festino": Anastrofe.
vv. 68-69: "Tanto lieta, ch'arder parea d'amor nel primo foco": Similitudine.
v. 75: "Dal voler di colui che qui ne cerne": Perifrasi. Per indicare Dio.
v. 80: "Divina voglia": Anastrofe.
v. 84: "Lo re": Perifrasi. Per indicare Dio.
vv. 86-87: "Ell'è quel mare al qual tutto si move ciò ch'ella cria o che natura face": Metafora. Per spiegare cosa è la volontà di Dio.
vv. 89-90: "La grazia / del sommo ben": Enjambement.
vv. 91-96: "Ma sì com'elli avvien, s'un cibo sazia e d'un altro rimane ancor la gola, che quel si chere e di quel si ringrazia, così fec'io con atto e con parola, per apprender da lei qual fu la tela onde non trasse infino a co la spuola": Similitudine.
v. 97: "Inciela": Dantismo.
v. 98: "Donna più sù": Perifrasi. Per indicare Santa Chiara d'Assisi.
vv. 98-99: "La cui norma / nel vostro mondo": Enjambement.
v. 101: "Con quello sposo": Perifrasi. Per indicare Dio.
v. 101: "Ch'ogne voto accetta": Anastrofe.
v. 113: "Sorella fu": Anastrofe.
v. 117: "Non fu dal vel del cor già mai disciolta": Metafora.
vv. 121-122: "Ave, / Maria": Enjambement.
vv. 122-123: "Vanio come per acqua cupa cosa grave": Similitudine.
v. 124: "La vista mia": Anastrofe.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto III del Paradiso introduce la prima schiera di beati che Dante incontra nel Cielo della Luna, tra cui spicca Piccarda Donati. La giovane spiega al poeta le ragioni per cui lei e le altre anime si trovano in questo cielo e il principio che regola la distribuzione dei beati nei vari gradi di beatitudine.

La presenza di Piccarda in questo luogo era già stata anticipata dal fratello Forese nel Purgatorio (XXIV, 13-15), dove la descrive come una donna che ha già raggiunto la gloria celeste, in netto contrasto con il destino dannato di Corso Donati. Dante, pur avendola conosciuta in vita, inizialmente non la riconosce, giustificandosi con il fatto che le anime beate appaiono in una forma diversa da quella terrena. In effetti, gli spiriti del Cielo della Luna, detti "difettivi" perché non hanno portato a compimento i loro voti, si manifestano con un aspetto evanescente, simile a un riflesso nell'acqua. Per rendere questa immagine più suggestiva, Dante utilizza due raffinate similitudini: la prima paragona le anime a volti riflessi su un vetro o in uno specchio d'acqua, mentre la seconda richiama la tradizione delle giovani nobili dell'epoca di indossare perle sulla fronte, aggiungendo così un tocco di eleganza alla descrizione.

Il tema dell'acqua è una metafora ricorrente nel Paradiso: il viaggio di Dante verso la conoscenza è spesso descritto come una navigazione in mare aperto, e più avanti la scomparsa di Piccarda sarà paragonata a un sasso che sprofonda nell'acqua. Beatrice chiarisce che questi spiriti si trovano nel Cielo della Luna perché non hanno rispettato i voti pronunciati in vita. Tuttavia, nel corso del Paradiso verrà precisato che i beati risiedono tutti nell'Empireo e che le loro apparizioni nei diversi cieli rappresentano simbolicamente l'influenza ricevuta da quei corpi celesti durante la loro esistenza terrena.

Dante, incuriosito, chiede a Piccarda se le anime in questo cielo desiderino una beatitudine maggiore. La sua domanda suscita un sorriso nelle anime, poiché il desiderio di qualcosa di diverso da ciò che Dio ha disposto sarebbe incompatibile con la loro condizione di beatitudine. Piccarda spiega che, essendo completamente pervasi dalla carità, i beati accettano la volontà divina senza alcun contrasto. Questo concetto, derivato dalla filosofia scolastica, sottolinea che l'amore assoluto per Dio porta naturalmente all'adesione perfetta alla sua volontà.

Nell'ultima parte del canto, Piccarda racconta la sua storia personale. Racconta di essere stata rapita dal convento per volere del fratello Corso Donati, che la costrinse a sposarsi contro la sua volontà, impedendole così di rispettare il voto di castità preso entrando nell'ordine di Santa Chiara. Tuttavia, Piccarda parla del suo passato con sereno distacco, senza rancore per l'ingiustizia subita, limitandosi a dire: "Iddio si sa qual poi mia vita fusi" ("Dio sa com'è finita la mia vita"). Questo verso enigmatico è stato accostato ad altre celebri chiuse di personaggi danteschi, come Ulisse e il conte Ugolino, e ha ispirato in seguito anche il celebre passo manzoniano sulla monaca di Monza.

Piccarda indica poi un'altra anima al suo fianco: si tratta di Costanza d'Altavilla, madre di Federico II, anch'essa costretta ad abbandonare la vita monastica per volere della famiglia. Dante accoglie la leggenda secondo cui Costanza sarebbe stata obbligata a sposare Enrico VI, da cui nacque Federico II, figura controversa e spesso accusata dalla propaganda guelfa di essere l'Anticristo. Nonostante l'infondatezza storica di questa diceria, Dante colloca Costanza in Paradiso, ribadendo che la salvezza dell'anima non dipende necessariamente dal giudizio della Chiesa, un tema che tornerà più volte nel Paradiso.

Il canto si conclude con Dante che, colpito dalla spiegazione di Piccarda, rimane con due nuovi dubbi: uno sull'inadempienza del voto e uno sulla reale collocazione dei beati in Paradiso. Tuttavia, prima che possa formulare le sue domande a Beatrice, la luce intensa della sua guida lo lascia esitante, rimandando le risposte ai canti successivi.


Passi Controversi


Al v. 1 il sole è naturalmente Beatrice, in quanto primo amore di Dante e luce in grado di chiarire i suoi dubbi in materia di fede.

I verbi provando e riprovando (v. 3) sono tecnicismi della Scolastica, poiché indicano i due momenti dell'argomentazione di Beatrice del Canto precedente («riprovare» significa confutare, «provare» vuol dire portare argomenti a favore della propria tesi).

Al v. 13 le postille sono le immagini riflesse sull'acqua.

Il v. 14 allude alla moda femminile del Due-Trecento di portare in fronte una perla appesa a una coroncina o a una reticella.

I vv. 17-18 ricordano il mito di Narciso, che vedendo la propria immagine riflessa nell'acqua se ne innamorò credendola reale (Dante incorre nello sbaglio opposto, poiché crede immagini riflesse quelle reali). La fonte è Ovidio, Met., III, 407 ss.

Al v. 26 coto deriva da «cotare», «cogitare» e vuol dire «pensiero».

La spera più tarda (v. 51) è il Cielo della Luna, che è il più vicino alla Terra e quello che ha minor raggio, quindi ruota più lento.

Al v. 57 è presente il bisticcio vóti / vòti, ovvero «voti» / «vuoti» (nel senso di non compiuti).

Al v. 63 latino significa «chiaro», «facile a intendersi» ed è attestato nella lingua del tempo.

Il primo foco del v. 69 è certamente lo Spirito Santo, cioè Dio in quanto primo amore; altri hanno pensato al primo amore per cui arde una donna, ma sembra immagine poco adatta a raffigurare una beata.

Capére (v. 76) significa «aver luogo» ed è termine della Scolastica che deriva dal lat. capere.

Ai vv. 95-96 il voto non portato a termine è paragonato a una tela non finita di tessere.

Al v. 97 inciela («colloca in cielo») è neologismo dantesco con quest'unica occorrenza nel poema.

Lo sposo citato al v. 101 è naturalmente Cristo, poiché la donna che diventava monaca si sposava con Lui (la metafora delle nozze mistiche deriva dalle Scritture ed è largamente usata dagli scrittori della letteratura religiosa del Due-Trecento).

Il secondo vento di Soave (v. 119) è Enrico VI, secondo imperatore della casa sveva, mentre il terzo e ultimo è Federico II. Il termine vento è stato interpretato come «gloria», «potenza» e anche «superbia».

Fonti: libri scolastici superiori

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