Parafrasi e Analisi: "Canto I" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto I del Paradiso segna l'inizio del viaggio di Dante attraverso il regno celeste, dove la luce divina e l'armonia universale dominano ogni cosa. Questo canto introduttivo è profondamente carico di temi teologici e filosofici, offrendo una riflessione sull'ineffabilità dell'esperienza divina e sull'incapacità umana di comprenderla appieno senza l'aiuto della grazia. Dante invoca Apollo, simbolo della poesia ispirata e della conoscenza elevata, chiedendo sostegno per raccontare il viaggio che si appresta a intraprendere, consapevole della difficoltà di esprimere con parole mortali le verità eterne. Il canto pone dunque le basi per l'intero Paradiso, stabilendo il tono elevato e spirituale dell'opera e anticipando l'esplorazione della beatitudine e della perfetta comunione con Dio.
Testo e Parafrasi
La gloria di colui che tutto move per l'universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove. Nel ciel che più de la sua luce prende fu' io, e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire. Veramente quant' io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto. O buono Appollo, a l'ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso, come dimandi a dar l'amato alloro. Infino a qui l'un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsïa traesti de la vagina de le membra sue. O divina virtù, se mi ti presti tanto che l'ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, vedra'mi al piè del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. Sì rade volte, padre, se ne coglie per trïunfare o cesare o poeta, colpa e vergogna de l'umane voglie, che parturir letizia in su la lieta delfica deïtà dovria la fronda peneia, quando alcun di sé asseta. Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci si pregherà perché Cirra risponda. Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, con miglior corso e con migliore stella esce congiunta, e la mondana cera più a suo modo tempera e suggella. Fatto avea di là mane e di qua sera tal foce, e quasi tutto era là bianco quello emisperio, e l'altra parte nera, quando Beatrice in sul sinistro fianco vidi rivolta e riguardar nel sole: aguglia sì non li s'affisse unquanco. E sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole, così de l'atto suo, per li occhi infuso ne l'imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso. Molto è licito là, che qui non lece a le nostre virtù, mercé del loco fatto per proprio de l'umana spece. Io nol soffersi molto, né sì poco, ch'io nol vedessi sfavillar dintorno, com' ferro che bogliente esce del foco; e di sùbito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d'un altro sole addorno. Beatrice tutta ne l'etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote. Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fé Glauco nel gustar de l'erba che 'l fé consorto in mar de li altri dèi. Trasumanar significar per verba non si poria; però l'essemplo basti a cui esperïenza grazia serba. S'i' era sol di me quel che creasti novellamente, amor che 'l ciel governi, tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti. Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso con l'armonia che temperi e discerni, parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. La novità del suono e 'l grande lume di lor cagion m'accesero un disio mai non sentito di cotanto acume. Ond' ella, che vedea me sì com' io, a quïetarmi l'animo commosso, pria ch'io a dimandar, la bocca aprio e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso col falso imaginar, sì che non vedi ciò che vedresti se l'avessi scosso. Tu non se' in terra, sì come tu credi; ma folgore, fuggendo il proprio sito, non corse come tu ch'ad esso riedi». S'io fui del primo dubbio disvestito per le sorrise parolette brevi, dentro ad un nuovo più fu' inretito e dissi: «Già contento requïevi di grande ammirazion; ma ora ammiro com' io trascenda questi corpi levi». Ond' ella, appresso d'un pïo sospiro, li occhi drizzò ver' me con quel sembiante che madre fa sovra figlio deliro, e cominciò: «Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l'universo a Dio fa simigliante. Qui veggion l'alte creature l'orma de l'etterno valore, il qual è fine al quale è fatta la toccata norma. Ne l'ordine ch'io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, più al principio loro e men vicine; onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l'essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti. Questi ne porta il foco inver' la luna; questi ne' cor mortali è permotore; questi la terra in sé stringe e aduna; né pur le creature che son fore d'intelligenza quest' arco saetta, ma quelle c'hanno intelletto e amore. La provedenza, che cotanto assetta, del suo lume fa 'l ciel sempre quïeto nel qual si volge quel c'ha maggior fretta; e ora lì, come a sito decreto, cen porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto. Vero è che, come forma non s'accorda molte fïate a l'intenzion de l'arte, perch' a risponder la materia è sorda, così da questo corso si diparte talor la creatura, c'ha podere di piegar, così pinta, in altra parte; e sì come veder si può cadere foco di nube, sì l'impeto primo l'atterra torto da falso piacere. Non dei più ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d'un rivo se d'alto monte scende giuso ad imo. Maraviglia sarebbe in te se, privo d'impedimento, giù ti fossi assiso, com' a terra quïete in foco vivo». Quinci rivolse inver' lo cielo il viso. |
La gloria di Dio, che tutto muove, si diffonde in tutto l'universo, risplendendo in alcuni luoghi di più ed in altri di meno. Nel cielo Empireo, che riceve più intensamente la luce divina, arrivai a quel punto, e vidi là cose che raccontare non sa né può chi da lassù scende sulla terra; perché avvicinandosi tanto all'oggetto del proprio desiderio, la nostra mente si addentra tanto nel mistero di Dio, da non poter essere seguita dalla memoria. In ogni caso, quanto del regno di Dio riuscii a raccogliere allora nella mia memoria, sarà ora argomento di questa nuova cantica . Oh grande Apollo, affinché possa compiere questa ultima fatica, rendimi capace di riceve tanto del tuo valore, l'abilità poetica, quanta ne richiedi per offrire la tanto desiderata corona d'alloro. Fino a questo punto l'aiuto delle Muse, che abitano una cima del monte Parnaso, mi è stato più che sufficiente; ma ora è bene che affronti con entrambi gli aiuti la prova ancora da superare. Entra nel mio petto, nel mio cuore, ed ispirami con quella potenza con cui Marsia, da te sconfitto nel canto, denudasti poi delle sua stessa pelle. Oh virtù divina, se mi sostieni tanto che l'immagine del regno dei beati, rimasta impressa nella mia memoria, possa descrivere, mi vedrai quindi arrivare ai piedi del tuo sacro alloro, ed incoronarmi con le foglie delle quali mi renderanno degno l'argomento trattato e tu stesso. Sono così rare le volte, Apollo, in cui si colgono dei rami dalla tua pianta per celebrare il trionfo di un imperatore o di un poeta, per colpa dei vergognosi desideri umani, tanto che dovrebbe dare felicità al sereno dio di Delfi, il fatto che il ramo di alloro sia tanto desiderato da qualcuno. Talvolta una piccola scintilla genera un grande incendio: forse dopo di me, sul mio esempio, molti poeti più meritevoli invocheranno il soccorso di Apollo, che abita l'altra cima, Cirra, del monte Parnaso. Sorge sulla gente mortale da diversi punti, a seconda della stagione, il Sole, luce del mondo; ma quando sorge da quel punto, ad oriente, in cui si congiungono i quattro cerchi dell'equatore, durante gli equinozi, formando tre croci, da una migliore stagione e da costellazioni più favorevoli è allora accompagnato, e la Terra, come fosse cera, plasma e segna nella maniera più efficace. Da quella parte, sul Purgatorio, era sorto il mattino mentre sulla Terra era calata la sera, quasi completamente illuminato era quell'emisfero mentre l'altro era ormai buio, quando vidi Beatrice, rivolta alla sua sinistra, guardare verso il sole: nessuna aquila lo fissò mai tanto intensamente. E così come un raggio riflesso deriva necessariamente da quello originario e risale verso l'alto, come un falco pellegrino che vuole tornare in quota dopo la picchiata, allo stesso modo, dal gesto di Beatrice, penetrato nella mia fantasia attraverso gli occhi, derivò un mio eguale gesto, e fissai quindi anche io lo sguardo al sole, oltre ogni possibilità umana. Molte cose sono là consentite che qui invece non sono permesse alle nostre facoltà, in grazia di quel luogo creato da Dio come dimora propria dell'umanità. Io non resistetti molto alla luce, ma non così poco da non vedere il sole mandare intorno scintille infuocate, come il ferro quando viene tolto ancora incandescente dal fuoco; ed subito mi sembrò che l'intensità della luce del giorno raddoppiasse, come se Dio, che tutto può, avesse fatto dono al cielo di un altro sole. Beatrice teneva fissi al cielo i propri occhi; ed io nei suoi fissai i miei, dopo aver distolto lo sguardo dal sole. Guardandola provai dentro di me una sensazione simile a quella che provò Glauco mentre assaporava l'erba che lo rese un Dio, compagno delle altre divinità marine. L'atto di elevarsi sopra i limiti umani non può essere descritto con le parole; basti perciò l'esempio di Glauco a coloro ai quali la grazia divina concederà di provare tale esperienza. Se in quel momento ero solamente anima (creata dopo l'organismo), oh Dio che regni nei cieli, lo sai tu, dal momento che sei stato tu ad innalzarmi al cielo con la tua luce. Quando il moto circolare dei cieli, che rendi perpetuo con il desiderio di te, ebbe richiamato su di sé la mia attenzione con quella sua musica che tu regoli e moduli, mi sembrò che la luce del sole accendesse una parte del cielo ben più grande di quella occupata da qualsiasi lago, formato dalla pioggia o da un fiume. La novità della musica che sentivo e l'intensa luce suscitarono in me un forte desiderio di conoscerne la ragione, più forte di quanto avessi mai provato. Per cui Beatrice, che capiva i miei pensieri così come me stesso, per calmare il mio animo turbato, prima ancora che io potessi domandare, aprì la bocca ed iniziò a spiegare: "Tu stesso ti rendi chiuso verso la comprensione con false supposizioni, così da non riuscire poi a vedere ciò che vedresti senza quel pensiero sbagliato. Non ti trovi in questo momento sulla Terra, così come credi; ma un fulmine, allontanandosi dal suo punto di origine, non si mosse mai tanto velocemente quanto tu ti stai movendo adesso verso il Paradiso." Se fui allora liberato dal primo dubbio, grazie a quelle poche parole pronunciate da una sorridente Beatrice, fui però successivamente colto da un nuovo dubbio e dissi quindi: "Sono ormai soddisfatto rispetto alla mia più grande perplessità; ma mi stupisco ora di come possa, con ancora il peso del corpo, levarmi attraverso questi corpi leggeri." Per cui lei, dopo un lungo sospiro di pietà, alzò i propri occhi verso di me con uno sguardo simile a quello con cui una madre si rivolge al proprio figlio colto dalla febbre, cominciò quindi a dire: "Tutte le cose esistenti sono sottoposte ad un ordine, che è il principio che rende l'universo somigliante a Dio. In quell'ordine le creature superiori vedono l'impronta, il segno, della potenza di Dio, che è anche il fine ultimo a cui aspira l'ordine stesso a cui accenno. In questo universo ordinato del quale parlo, ricevono una certa predisposizione tutte le creature, a seconda delle loro diverse condizioni, più o meno vicine al loro creatore, a Dio; perciò esse si dirigono verso destinazioni differenti, attraverso il grande mare della vita, ciascuna creatura guidata dall'istinto a lei assegnato. Quest'ordine spinge il fuoco a salire verso il cielo della luna; che regola le funzioni vitali negli esseri privi di ragione; che tiene unita e compatta la terra; ma non soltanto le creature prive di ragione sono spinte da quest'ordine verso il loro fine, ma anche le creature dotate di intelligenza e di volontà. La provvidenza divina, che è ha capo di questo ordine, con la propria luce rende appagato il cielo dell'Empireo, nel quale ruota la più veloce delle sfere celesti; ed ora lì, nell'Empireo, luogo ordinato come nostro fine, che ci porta la potenza di quella predisposizione, di quell'ordine provvidenziale, che indirizza ogni creatura verso il proprio fine, che sarà per essa fonte di gioia. È comunque vero che il risultato non corrisponde molte volte a quella che era l'intenzione dell'artefice, perché la materia non è disposta a comprenderla, e così a volte si allontana da questo ordine naturale l'uomo, avendo il potere di rivolgersi altrove, pur essendo stato indirizzato verso il bene; e così come è possibile vedere cadere il fuoco in forma di saetta da una nube, allo stesso modo l'inclinazione naturale rivolge verso terra l'uomo, naturalmente spinto verso il cielo, quando è traviato una falsa immagine del bene. Non devi quindi meravigliarti, come credo tu faccio, del fatto che stai salendo al cielo, più di quanto tu possa farlo per il fatto che un fiume scenda dall'alto di un monte fino a valle. Ti saresti dovuto piuttosto meravigliare se, libero da ogni impedimento, tu fossi rimasto inchiodato giù, come un fuoco vivo che rimane quieta a terra." Detto questo, rivolse quindi al cielo il proprio viso. |
Riassunto
I primi 36 versi del Canto I del Paradiso introducono il tema centrale della terza cantica della Divina Commedia attraverso un proemio e un'invocazione ad Apollo, entrambi ispirati alla tradizione retorica classica. Dante preannuncia che il suo canto sarà dedicato a ciò che è riuscito a comprendere e custodire nella mente del regno celeste: "Veramente quant'io del regno santo | ne la mia mente potei far tesoro, | sarà ora materia del mio canto" (vv. 10-12). Tuttavia, emerge fin da subito la difficoltà di esprimere l'esperienza ultraterrena vissuta, con il tema dell'ineffabilità che attraversa tutta la cantica: "vidi cose che ridire | né sa né può chi di là sù discende" (vv. 5-6). Più avanti, questa impossibilità di descrivere l'oltre umano è ribadita: "Trasumanar significar per verba | non si poria" (vv. 70-71).
L'invocazione ad Apollo, che prende avvio dal v. 13, rappresenta una novità rispetto alle precedenti cantiche, dove Dante aveva invocato le Muse. In questo contesto, il poeta evidenzia sia il decadimento culturale del suo tempo, in cui la gloria letteraria e politica simboleggiata dall'alloro è poco ambita, sia la consapevolezza dell'impresa straordinaria che sta intraprendendo. Un chiaro riferimento all'autoconsacrazione poetica emerge nei vv. 26-27, mentre nei vv. 34-36 Dante si paragona a una scintilla destinata a ispirare futuri poeti: "Poca favilla gran fiamma seconda: | forse di retro a me con miglior voci | si pregherà perché Cirra risponda". Qui allude a Cirra, un luogo legato al monte Parnaso e al dio Apollo.
Dopo il proemio, il canto entra nel vivo dell'azione (vv. 37-81) con l'ascesa celeste di Dante e Beatrice. Il sorgere del sole primaverile è descritto attraverso una perifrasi (vv. 37-42) che prepara l'immagine di Beatrice intenta a fissare direttamente l'astro. Dante, seguendo il suo esempio, riesce a sostenere lo sguardo verso il sole più di quanto sia consentito agli esseri umani, grazie al fatto di trovarsi nel Paradiso Terrestre, un luogo pensato per l'umanità e dove "molto è licito là, che qui non lece | a le nostre virtù, mercé del loco | fatto per proprio de l'umana spece" (vv. 55-57).
A un certo punto, il poeta avverte un aumento improvviso di luce e si sente trasformare, vivendo un'esperienza paragonabile a quella di Glauco, personaggio mitologico che, dopo aver mangiato un'erba magica, diventò una divinità marina con capacità profetiche (vv. 67-72). Questo passaggio segna il suo ingresso nel Paradiso, un momento che Dante riesce a descrivere solo introducendo il neologismo "trasumanar". La straordinarietà della nuova dimensione è ulteriormente rafforzata dal suono celestiale e dal lago di luce in cui si ritrova, che suscitano nel poeta il desiderio di comprendere cosa stia accadendo, ignaro ancora di essere effettivamente in Paradiso (vv. 82-84).
Beatrice, consapevole dei pensieri di Dante, lo informa che non si trova più sulla Terra, sottolineando la velocità straordinaria con cui è tornato al luogo naturale della sua anima: "Tu non se' in terra, sì come tu credi; | ma folgore, fuggendo il proprio sito, | non corse come tu ch'ad esso riedi" (vv. 91-93). Questa spiegazione, però, genera in Dante nuovi interrogativi, in particolare su come il suo corpo fisico sia riuscito a superare l'aria e il fuoco.
Beatrice allora offre una spiegazione teologica articolata (vv. 94-142), basata sulle concezioni aristotelico-tomistiche. Tutto nell'universo è ordinato armoniosamente, essendo stato creato da Dio, fonte di suprema armonia. I sette cieli, ciascuno governato da un astro, seguono un movimento circolare perfetto, mentre il Primo Mobile, che avvolge l'Empireo, trasmette il moto agli altri cieli. L'Empireo, immobile, è il luogo a cui l'uomo tende naturalmente, sebbene il libero arbitrio spesso lo porti a smarrirsi tra i beni materiali, fino a corrompersi e cadere nell'Inferno. Tuttavia, Dante, avendo purificato la sua anima e liberato la sua natura terrena attraverso il viaggio nell'Inferno e nel Purgatorio, è ora pronto per ascendere. Concluso il discorso, Beatrice volge di nuovo il suo sguardo verso il cielo, simbolo della dimensione divina.
Figure Retoriche
v. 1: "Colui che tutto move": Perifrasi. Per indicare Dio.
v. 5: "Fu' io": Anastrofe.
v. 7: "Al suo disire": Perifrasi.
v. 14: "Fammi del tuo valor sì fatto vaso": Metafora.
vv. 14-15: "Fammi del tuo valor sì fatto vaso, come dimandi a dar l'amato alloro": Similitudine.
v. 16: "L'un giogo di Parnaso": Metonimia.
v. 17: "Assai mi fu": Anastrofe.
v. 19: "Petto mio": Anastrofe.
vv. 19-21: "Spira tue sì come quando Marsia traesti de la vagina de le membra sue": Similitudine.
vv. 20-21: "Traesti / de la vagina": Enjambement.
v. 21: "Le membra sue": Anastrofe.
v. 22: "O divina virtù": Apostrofe.
vv. 25-26: "Al piè del tuo diletto legno / venire": Enjambement.
v. 25: "Legno": Metonimia. La materia per l'oggetto, legno anziché albero.
vv. 31-32: "Lieta / delfica deità": Enjambement.
vv. 32-33: "La fronda / peneia": Enjambement.
vv. 35-36: "Con miglior voci / si pregherà": Enjambement.
v. 36: "Cirra": Metonimia. La sede per il dio Apollo.
v. 38: "La lucerna del mondo": Perifrasi. Per indicare il Sole.
v. 42: "Tempera e suggella": Endiadi.
v. 43: "Fatto avea": Anastrofe.
v. 48: "Aguglia sì non li s'affisse unquanco": Similitudine.
vv. 49-54: "E sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole, così de l'atto suo, per li occhi infuso ne l'imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr'uso": Similitudine.
vv. 49-50: "Suole / uscir": Enjambement.
v. 51: "Tornar vuole": Anastrofe.
v. 52: "De l'atto suo": Anastrofe.
v. 53: "Ne l'imagine mia": Anastrofe.
v. 57: "L'umana spece": Anastrofe.
vv. 59-60: "Sfavillar dintorno, com'ferro che bogliente esce del foco": Similitudine.
vv. 61-63: "Parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d'un altro sole addorno": Similitudine.
v. 62: "Quei che puote": Perifrasi.
vv. 67-69: "Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fé Glauco nel gustar de l'erba che 'l fé consorto in mar de li altri dèi": Similitudine.
vv. 73-74: "Creasti novellamente": Enjambement.
v. 78: "Temperi e discerni": Endiadi.
vv. 79-81: "Parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso": Similitudine.
v. 85: "Vedea me sì com'io": Similitudine.
vv. 92-93: "Folgore, fuggendo il proprio sito, non corse come tu ch'ad esso riedi": Similitudine.
vv. 101-102: "Li occhi drizzò ver' me con quel sembiante che madre fa sovra figlio deliro": Similitudine.
vv. 118-119: "Fore / d'intelligenza": Enjambement.
vv. 127-132: "Vero è che, come forma non s'accorda molte fiate a l'intenzion de l'arte, perch'a risponder la materia è sorda, così da questo corso si diparte talor la creatura, c'ha podere di piegar, così pinta, in altra parte": Similitudine.
vv. 133-135: "E sì come veder si può cadere foco di nube, sì l'impeto primo l'atterra torto da falso piacere": Similitudine.
vv. 136-138: "Non dei più ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d'un rivo se d'alto monte scende giuso ad imo": Similitudine.
vv. 139-140: "Privo / d'impedimento": Enjambement.
vv. 140-141: "Giù ti fossi assiso, com'a terra quiete in foco vivo": Similitudine.
v. 142: "Lo cielo il viso": Anastrofe.
Analisi ed Interpretazioni
Nel primo canto del Paradiso, Dante introduce la terza cantica con un proemio straordinariamente lungo, esteso per ben 36 versi. Questo risulta essere tre volte più ampio rispetto all'introduzione del Purgatorio (12 versi) e quattro volte rispetto a quella dell'Inferno (9 versi). Tale estensione riflette l'importanza della materia trattata, poiché Dante si appresta a descrivere il regno celeste, affrontando una sfida senza precedenti: rappresentare ciò che è complesso persino da ricordare. Questo tema dell'indicibile, centrale nella cantica, giustifica anche l'invocazione di Apollo, oltre alle Muse, affinché il dio – simbolo dell'ispirazione divina – lo sostenga nell'arduo compito di cantare il sacro. Dante richiama l'episodio mitologico in cui Apollo sconfigge Marsia per sottolineare la necessità di una poesia ispirata dall'alto e non presuntuosamente umana. Inoltre, egli esprime il desiderio di essere incoronato con l'alloro poetico, non come ambizione personale, ma per ispirare altri poeti a seguire il suo esempio, pur dichiarando umilmente la difficoltà dell'impresa.
Successivamente, attraverso un dettagliato passaggio astronomico, Dante colloca l'azione in una stagione primaverile e intorno al mezzogiorno. In questo contesto, osserva Beatrice fissare il sole e la imita, sperimentando un'acuta percezione dei sensi. Questo segna l'inizio della loro ascesa verso la sfera del fuoco, che separa il mondo terreno dal Cielo della Luna. Tuttavia, il poeta inizialmente non si rende conto di essere già in viaggio verso il regno celeste, percependo solo un'intensa luminosità. Egli descrive questa esperienza con il termine trasumanar, un processo che va oltre i confini umani. Per illustrare questo concetto, Dante si rifà al mito di Glauco, un pastore trasformato in creatura marina, usando frequentemente similitudini mitologiche per rappresentare realtà ultraterrene.
La crescente luce e l'armonioso suono delle sfere celesti suscitano in Dante il desiderio di comprendere ciò che sta accadendo. Beatrice, con il suo atteggiamento didattico, gli spiega che stanno ascendendo al Cielo, come un fulmine che, invertendo il suo corso naturale, si muove verso l'alto. Questo porta Dante a domandarsi come sia possibile che il suo corpo, fatto di carne e ossa, superi la gravità. La risposta di Beatrice si sposta dal piano fisico a quello metafisico, spiegando come ogni creatura dell'universo, razionale o meno, tenda verso il proprio fine naturale, determinato da Dio. Mentre il fuoco tende per sua natura verso l'alto e la terra verso il centro, le anime razionali, dotate di libero arbitrio, si orientano verso Dio. Dante, avendo purificato la sua anima durante il viaggio attraverso Inferno e Purgatorio, è naturalmente attratto verso l'Empireo, così come un fiume scorre verso il mare o una fiamma si dirige verso l'alto.
Beatrice utilizza più volte l'immagine del fuoco per spiegare il movimento di Dante. Prima, lo paragona a un fulmine che, contrariamente alla sua natura, è costretto a scendere; poi, descrive il fuoco che si eleva verso il Cielo della Luna; infine, accenna al fuoco che, per una forza contraria, sarebbe costretto a restare a terra, così come un'anima può essere attratta dai beni terreni. La luce è il simbolo dominante in tutto il canto, rappresentando il passaggio di Dante dal mondo terreno a quello celeste. Questo viaggio verso la luce riflette il cammino del poeta verso Dio, richiamando i versi iniziali in cui la gloria divina si riflette in tutto l'universo e dove si anticipa l'arrivo nell'Empireo, il regno di pura luce e armonia.
Passi Controversi
Il Parnaso, menzionato al verso 16, è un monte situato nella Grecia centrale, noto nella mitologia come dimora di Apollo. Questo monte è caratterizzato da una doppia cima. Durante il Medioevo si diffuse un'errata convinzione, documentata da Isidoro di Siviglia (Etymologiae, XIV, 8), secondo cui le due cime rappresentassero il Citerone e l'Elicona, rispettivamente abitati da Apollo e dalle Muse. In realtà, l'Elicona è un monte distinto. Dante potrebbe essere stato influenzato da questa confusione, identificando una cima con il Citerone e l'altra con l'Elicona.
Il satiro Marsia, evocato nei versi 20-21, è una figura del mito narrata da Ovidio (Metamorfosi, VI, 382 e seguenti). Secondo la storia, Marsia sfidò Apollo in una competizione musicale. Sconfitto, fu scorticato vivo dal dio. Apollo, definito delfica deità al verso 32, richiama il culto che gli antichi gli riservavano a Delfi. L'alloro, descritto come fronda peneia, rimanda al mito di Dafne, figlia del dio fluviale Peneo, trasformata in alloro per sfuggire all'amore di Apollo (Metamorfosi, I, 452 e seguenti). Al verso 36 viene citata Cirra, una città vicina a Delfi, spesso usata per alludere ad Apollo.
La complessa descrizione astronomica dei versi 37-42 ha generato molte interpretazioni, ma sembra indicare l'equinozio di primavera, quando il Sole è in congiunzione con la costellazione dell'Ariete. I quattro cerchi potrebbero rappresentare l'Equatore, l'Eclittica, il Coluro equinoziale e l'orizzonte di Gerusalemme e del Purgatorio, che si intersecano formando tre croci non perfettamente perpendicolari. I versi 43-45 suggeriscono probabilmente che sia mezzogiorno, come confermato nel canto XXXIII del Purgatorio (v. 104), escludendo così l'ipotesi dell'alba. Nell'emisfero meridionale, infatti, è pieno giorno, mentre nell'emisfero opposto è notte.
Il termine pelegrin al verso 51 può riferirsi sia a un pellegrino che fa ritorno in patria, sia al falco pellegrino. Nei versi 61-63, l'incremento della luce indica che Dante si sta avvicinando alla sfera del fuoco, la quale separa l'atmosfera terrestre dal Primo Cielo. La similitudine dei versi 67-69 deriva dalle Metamorfosi (XIII, 898 e seguenti) e si riferisce al mito di Glauco, un pescatore della Beozia. Secondo la leggenda, Glauco notò che i pesci che mangiavano una particolare erba tornavano a vivere e si lanciavano in acqua. Imitando i pesci, Glauco consumò l'erba e si trasformò in una creatura marina, immergendosi nell'oceano.
Al verso 92, il sito da cui fugge la folgore rappresenta la sfera del fuoco, verso cui Dante si dirige. Il ciel citato nel verso 122 si riferisce all'Empireo, il cielo più alto e immobile, all'interno del quale ruota con estrema velocità il Primo Mobile.
Fonti: libri scolastici superiori