Parafrasi e Analisi: "Canto VI" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto VI del Paradiso di Dante Alighieri rappresenta un momento di grande rilievo all'interno del percorso dell'autore tra i cieli della beatitudine. Si tratta dell'unico canto dell'ultima cantica in cui a parlare è un'unica anima, un tratto che lo distingue e lo carica di un significato particolare. Il tema centrale è la riflessione sulla giustizia divina e sul ruolo della provvidenza nella storia umana, con un'attenzione specifica alla figura dell'Impero.
Attraverso un'ampia visione storica e politica, il canto si collega idealmente ai due precedenti canti sesti dell'Inferno e del Purgatorio, dove erano state affrontate le problematiche legate alla città di Firenze e all'Italia. Qui, invece, il discorso si allarga a una prospettiva universale, ponendo l'Impero come strumento della volontà divina, chiamato a garantire ordine e giustizia nel mondo terreno. L'argomento trattato offre quindi una profonda riflessione sul rapporto tra autorità spirituale e temporale, un tema fondamentale nella visione dantesca della politica e della storia.
Testo e Parafrasi
«Poscia che Costantin l'aquila volse contr' al corso del ciel, ch'ella seguio dietro a l'antico che Lavina tolse, cento e cent' anni e più l'uccel di Dio ne lo stremo d'Europa si ritenne, vicino a' monti de' quai prima uscìo; e sotto l'ombra de le sacre penne governò 'l mondo lì di mano in mano, e, sì cangiando, in su la mia pervenne. Cesare fui e son Iustinïano, che, per voler del primo amor ch'i' sento, d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano. E prima ch'io a l'ovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non più e, credea, e di tal fede era contento; ma 'l benedetto Agapito, che fue sommo pastore, a la fede sincera mi dirizzò con le parole sue. Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era, vegg' io or chiaro sì, come tu vedi ogni contradizione e falsa e vera. Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi l'alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi; e al mio Belisar commendai l'armi, cui la destra del ciel fu sì congiunta, che segno fu ch'i' dovessi posarmi. Or qui a la question prima s'appunta la mia risposta; ma sua condizione mi stringe a seguitare alcuna giunta, perché tu veggi con quanta ragione si move contr' al sacrosanto segno e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone. Vedi quanta virtù l'ha fatto degno di reverenza; e cominciò da l'ora che Pallante morì per darli regno. Tu sai ch'el fece in Alba sua dimora per trecento anni e oltre, infino al fine che i tre a' tre pugnar per lui ancora. E sai ch'el fé dal mal de le Sabine al dolor di Lucrezia in sette regi, vincendo intorno le genti vicine. Sai quel ch'el fé portato da li egregi Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, incontro a li altri principi e collegi; onde Torquato e Quinzio, che dal cirro negletto fu nomato, i Deci e ' Fabi ebber la fama che volontier mirro. Esso atterrò l'orgoglio de li Aràbi che di retro ad Anibale passaro l'alpestre rocce, Po, di che tu labi. Sott' esso giovanetti trïunfaro Scipïone e Pompeo; e a quel colle sotto 'l qual tu nascesti parve amaro. Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volle redur lo mondo a suo modo sereno, Cesare per voler di Roma il tolle. E quel che fé da Varo infino a Reno, Isara vide ed Era e vide Senna e ogne valle onde Rodano è pieno. Quel che fé poi ch'elli uscì di Ravenna e saltò Rubicon, fu di tal volo, che nol seguiteria lingua né penna. Inver' la Spagna rivolse lo stuolo, poi ver' Durazzo, e Farsalia percosse sì ch'al Nil caldo si sentì del duolo. Antandro e Simeonta, onde si mosse, rivide e là dov' Ettore si cuba; e mal per Tolomeo poscia si scosse. Da indi scese folgorando a Iuba; onde si volse nel vostro occidente, ove sentia la pompeana tuba. Di quel che fé col baiulo seguente, Bruto con Cassio ne l'inferno latra, e Modena e Perugia fu dolente. Piangene ancor la trista Cleopatra, che, fuggendoli innanzi, dal colubro la morte prese subitana e atra. Con costui corse infino al lito rubro; con costui puose il mondo in tanta pace, che fu serrato a Giano il suo delubro. Ma ciò che 'l segno che parlar mi face fatto avea prima e poi era fatturo per lo regno mortal ch'a lui soggiace, diventa in apparenza poco e scuro, se in mano al terzo Cesare si mira con occhio chiaro e con affetto puro; ché la viva giustizia che mi spira, li concedette, in mano a quel ch'i' dico, gloria di far vendetta a la sua ira. Or qui t'ammira in ciò ch'io ti replìco: poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico. E quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse. Omai puoi giudicar di quei cotali ch'io accusai di sopra e di lor falli, che son cagion di tutti vostri mali. L'uno al pubblico segno i gigli gialli oppone, e l'altro appropria quello a parte, sì ch'è forte a veder chi più si falli. Faccian li Ghibellin, faccian lor arte sott' altro segno, ché mal segue quello sempre chi la giustizia e lui diparte; e non l'abbatta esto Carlo novello coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli ch'a più alto leon trasser lo vello. Molte fïate già pianser li figli per la colpa del padre, e non si creda che Dio trasmuti l'armi per suoi gigli! Questa picciola stella si correda d'i buoni spirti che son stati attivi perché onore e fama li succeda: e quando li disiri poggian quivi, sì disvïando, pur convien che i raggi del vero amore in sù poggin men vivi. Ma nel commensurar d'i nostri gaggi col merto è parte di nostra letizia, perché non li vedem minor né maggi. Quindi addolcisce la viva giustizia in noi l'affetto sì, che non si puote torcer già mai ad alcuna nequizia. Diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote. E dentro a la presente margarita luce la luce di Romeo, di cui fu l'ovra grande e bella mal gradita. Ma i Provenzai che fecer contra lui non hanno riso; e però mal cammina qual si fa danno del ben fare altrui. Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, Ramondo Beringhiere, e ciò li fece Romeo, persona umìle e peregrina. E poi il mosser le parole biece a dimandar ragione a questo giusto, che li assegnò sette e cinque per diece, indi partissi povero e vetusto; e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe mendicando sua vita a frusto a frusto, assai lo loda, e più lo loderebbe». |
"Dopo che Costantino portò le insegne dell'impero da occidente ad oriente, in direzione contraria al moto del sole e di quella che avevano già seguito ai tempi in cui Enea prese in moglie Lavinia, per più di cento anni l'aquila dell'impero si stabilì all'estremità orientale dell'Europa, vicino alle montagne dalle quali era a quel tempo partita; ed all'ombra delle sue sacre penne, essa governò il mondo di mano in mano, fino a ché, così cambiando, giunse a me. Sono stato imperatore, sono Giustiniano, e per amore, ancora vivo, nei confronti dello Spirito Santo, eliminai dalle leggi tutto ciò che era eccessivo e superfluo. E prima che cominciassi a dedicarmi a questa opera, credevo esistesse una sola natura di Cristo, non più d'una, che Dio non fosse anche uomo, e mi compiacevo di una simile dottrina; ma San Agapito, che fu santo pontefice, verso la vera fede mi indirizzò con le sue parole. Io credetti ai suoi insegnamenti; e ciò che allora accettavo sulla fiducia nella sua autorità, lo vedo ora così chiaramente come tu puoi vedere che tra due affermazioni contrapposte, l'una sarà vera e l'altra falsa. Non appena incominciai a seguire i principi della Chiesa, a Dio piacque di stimolarmi, con la sua grazia, a compiere quel grande lavoro, ed ad esso mi dedicai completamente; affidai il comando dell'esercito al mio fedele generale Belisario, le cui imprese trovarono un così alto favore del cielo, che fu evidente che era arrivato per me il momento di occuparmi della pace. Con queste parole si conclude la mia risposta alla prima parte della tua domanda; ma l'argomento mi costringere a proseguire aggiungendo ancora qualcosa, così che tu possa vedere chiaramente quanto ingiustamente agisca contro le insegne dell'impero sia chi se ne appropria (i Ghibellini) sia chi vi si oppone (Guelfi). Considera quanti uomini valorosi hanno reso l'impero degno di rispetto; a cominciare dal tempo in cui Pallante morì per aiutare Enea a porre le basi della potenza di Roma. Sai quindi bene che l'insegna imperiale si insediò quindi ad Alba Longa per oltre trecento anni, fino a che i tre fratelli Orazi non combatterono contro i tre fratelli Curiazi per il suo possesso. E sai bene ciò che fece dal ratto delle Sabine al suicidio di Lucrezia sotto i sette suoi re, combattendo e sconfiggendo i popoli circostanti. Conosci anche le mirabili imprese compiute quando fu portato dai nobili Romani contro i Galli di Breno, contro Pirro e contro gli altri principati e le altre repubbliche; dalle quali Torquato e Quinzio, chiamato Cincinnato per il suo ciuffo arruffato, ed anche i Deci ed i Fabi, ottenere quella fama che io onoro molto volentieri. Esso, lo stendardo imperiale, atterrò l'orgoglio dei Cartaginesi che al seguito di Annibale oltrepassarono le Alpi Occidentali, dalle quali discende il Po. Sotto di lui trionfarono ancora in giovane età Scipione l'Africano e Pompeo; ed alle colline sotto le quali tu sei nato, di Fiesole, risultò invece amaro, doloroso. Successivamente, con l'avvicinarsi del tempo in cui a Dio piacque che tutto il mondo fosse condotto all'ordine, alla serenità delle sfere celesti, per la volontà del popolo romano l'insegna dell'aquila fu presa da Cesare. Le imprese compiute dal fiume Varo fino al Reno, le poterono vedere anche i fiumi Isère, Loira e Senna, ad anche ogni valle in cui scorre il fiume Rodano. Quello che fece dopo che Cesare uscì da Ravenna ed attraversò il Rubicone, fu talmente rapido e di tale entità che sarebbe impossibile stargli dietro con le parole o con gli scritti. Verso la Spagna rivolse poi il suo esercito, poi verso Durazzo, ed a Farsalò colpì Pompeo tanto duramente che se ne sentirono gli echi fino alle rive del caldo Nilo. Rivide quindi il porto di Antandro ed il fiume Simoenta, verso i quali si era mosso, ed anche la tomba di Ettore; ed in seguito, rimosso Tolomeo a favore di Cleopatra, si allontanò dall'Egitto. Da lì scese come fosse un fulmine su Giuba; da cui fece poi rotta verso occidente, da dove sentiva provenire la voce dei sostenitori di Pompeo. Le imprese che lo stendardo ottenne con il successivo portatore, Ottaviano, erede di Cesare, fanno ancora lamentare nel profondo inferno Bruto e Cassio, e furono dolorose per le città di Modena e Perugia. Le piange ancora la triste Cleopatra che, fuggendo dinnanzi ad esso, con il morso di un serpente velenoso si dette una morte istantanea ed atroce. Con Ottaviano corse e si espanse fino al mar Rosso; con costui stabilì nel mondo una pace tale che vennero serrate le porte del tempio di Giano. Ma ciò che l'Aquila imperiale, in nome della quale ti sto parlando, aveva compiuto prima e avrebbe compiuto poi su tutta la terra, regno dei mortali, che sottostava ad essa diventa poca cosa e di poca fama, se si guarda a ciò che essa compì quando venne sostenuta dal terzo imperatore, Tiberio, se si guarda con occhi liberi da pregiudizi e cuore puro; poiché la giustizia divina, che ispira le mie parole, concesse all'insegna imperiale, quando fu nelle sue mani, la gloria di poter vendicare l'ira di Dio, di punire il peccato originale, la colpa di Adamo, con il sacrificio di Cristo. Meravigliati dunque di quello che ti dirò adesso: in seguito si recò a Gerusalemme insieme a Tito per vendicare la vendetta che si era allora compiuta nei confronti del peccato originale. E quando i Longobardi attaccarono la Santa Chiesa, protetto dall'Aquila Carlo Magno le venne in soccorso, sconfiggendoli. A questo punto puoi meglio giudicare coloro che ho prima accusato, i Guelfi ed i Ghibellini, ed anche i loro errori, che sono la ragione di tutti i vostri mali attuali. I Guelfi contrappongono all'insegna universale dell'Impero i gigli d'oro degli Angioini, i Ghibellini invece se ne appropria, rendendola simbolo di una fazione politica, così che è difficile dire chi dei due commetta l'errore più grave. Compiano i Ghibellini le loro azioni sotto un altro simbolo, perché ne è un cattivo seguace colui che lo divide, divide l'Aquila, dalla giustizia; e non si illuda di poterlo abbattere questo nuovo Carlo, II d'Angiò, insieme ai suoi amici Guelfi, ma tema invece i suoi artigli che domarono in passato sovrani ben più potenti di lui. Già molte volte i figli hanno dovuto piangere, riparare le colpe dei propri padri, e non ci si illuda che Dio si disposto a cambiare la propria insegna con i gigli della casa di Francia! Il cielo di questo piccolo pianeta, Mercurio, è adornato dalle anime sante che in vita si sono impegnati affinché l'onore e la fama sopravvivessero alla loro morte: e quando i desideri umani sono rivolti verso questo intento, deviando così dal sommo Bene, conseguenza inevitabile è che lo slancio del vero Amore, che ci innalza al cielo, abbia meno vigore. Ma in questa perfetta corrispondenza tra il premio ed il nostro effettivo merito deriva una parte della nostra felicità, perché non lo vediamo né superiore né inferiore alla giusta misura. Con questa consapevolezza, la giustizia divina mitiga tanto i nostri sentimenti che essi non possono essere deviati verso nulla di diverso dalla felicità. Così come voci di diversa qualità danno vita ad una musica piacevole; allo stesso modo i diversi gradi di Beatitudine presenti nel Paradiso producono una armonia concorde di sentimenti tra i diversi suoi cieli. Ed all'interno di questo prezioso cielo brilla la luce di Romeo, Romée de Villeneuve, la cui considerevole e magnifica opera fu male giudicata. Ma i signori della Provenza che lo perseguitarono non hanno avuto poi da ridere; si vede quindi come percorra una strada pericolosa chi reputa di avere ricevuto un danno dal bene compiuto da una altra persona. Raimondo Berengario ebbe quattro figlie ed ognuna di esse divenne regina, e questo grazie all'opera di Romeo, che era straniero e di umili origini. Ma in seguito le calunnie mosse contro Romeo spinsero Raimondo a chiedere conto della sua amministrazione a questo uomo giusto, che mostrò di aver ottenuto dodici da un dieci iniziale, di avere accresciuto il patrimonio del suo signore. Partì da là povero ed ormai vecchio; e se il mondo sapesse la forza d'animo che egli mostrò nel vivere di elemosina, lo loderebbe ancora di più di quanto già lo loda." |
Riassunto
Come nelle altre due cantiche, anche nel Paradiso il sesto canto è dedicato a temi politici. Tuttavia, questo canto si distingue per la sua struttura particolare: è interamente dominato dalla voce di Giustiniano, senza interventi né di Dante né di Beatrice.
Il discorso di Giustiniano
Il canto si apre con l'imperatore Giustiniano che racconta la propria vita. Nato oltre duecento anni dopo il trasferimento della capitale da Roma a Costantinopoli, inizialmente aderì alla dottrina monofisita, ma grazie all'influenza di papa Agapito si convertì al cattolicesimo. Dopo la conversione, si dedicò alla riforma legislativa dell'Impero, affidando le campagne militari al generale Belisario.
Il simbolo dell'aquila e la storia dell'Impero
Giustiniano non si limita a raccontare la propria esperienza, ma intraprende un'ampia riflessione sul significato dell'aquila imperiale. Ne ripercorre la storia dall'epoca di Enea fino a Carlo Magno, sottolineando il ruolo dell'Impero come guida dell'umanità.
Critica a Guelfi e Ghibellini
Dopo la digressione storica, il discorso torna al presente con un'invettiva contro le fazioni politiche del tempo. I Guelfi, ostili all'Impero, tentano di sostituirne l'autorità con quella della casata angioina, mentre i Ghibellini lo sfruttano per fini di parte, tradendo il suo ideale di giustizia.
Gli spiriti del cielo di Mercurio
Giustiniano spiega poi che nel cielo di Mercurio si trovano le anime di coloro che, pur avendo operato per il bene, hanno cercato la gloria terrena più che l'amore divino. Pur non soffrendo, la loro beatitudine è minore rispetto a quella degli spiriti più vicini a Dio.
La vicenda di Romeo di Villanova
Il canto si conclude con il racconto della vita di Romeo di Villanova, uomo di fiducia del conte Raimondo Berengario di Provenza. Nonostante la sua lealtà e abilità politica, fu vittima di invidie e ingiuste accuse di corruzione, finendo in povertà.
Conclusione
Il Canto VI del Paradiso rappresenta l'ultima riflessione politica della Divina Commedia. Dopo aver trattato i problemi di Firenze nell'Inferno e quelli dell'Italia nel Purgatorio, qui Dante amplia la prospettiva all'intera storia dell'Impero, affidando la sua lezione all'autorità di un sovrano giusto e illuminato.
Figure Retoriche
v. 1: "L'aquila volse": Anastrofe.
v. 1: "Aquila": Allegoria.
vv. 1-2: "Volse / contr'al corso del ciel": Enjambement.
v. 2: "Contr' al corso del ciel": Allitterazione della C.
v. 3: "L'antico che Lavina tolse": Perifrasi. Per indicare Enea.
v. 4: "Cento e cent'anni e più": Iperbole.
v. 4: "L'uccel di Dio": Perifrasi.
v. 6: "Vicino a' monti de' quai prima uscìo": Perifrasi. I monti citati sono quelli della Troade.
v. 8: "'l mondo lì di mano in mano": Allitterazione della M e della N.
v. 10: "Cesare fui e son Iustiniano": Chiasmo.
v. 10: "Cesare fui": Anastrofe.
v. 11: "Del primo amor ch'i' sento": Perifrasi. Per indicare lo spirito santo o Dio.
v. 12: "Il troppo e 'l vano": Endiadi.
vv. 16-17: "Che fue / sommo pastore": Enjambement.
v. 17: "Sommo pastore": Perifrasi. Per indicare la carica di papa.
v. 18: "Parole sue": Anastrofe.
v. 19: "'n sua fede era": Anastrofe.
v. 20: "Vegg'io or chiaro sì, come tu vedi": Chiasmo.
vv. 20-21: "Come tu vedi / ogni contradizione e falsa e vera": Similitudine.
v. 24: "L'alto lavoro": Perifrasi. Per indicare il Corpus iuris civilis.
v. 25: "Commendai l'armi": Metonimia.
v. 26: "La destra del ciel": Metafora.
v. 27: "Che segno fu": Anastrofe.
v. 28: "La question prima": Anastrofe.
vv. 28-29: "S'appunta / la mia risposta": Enjambement.
v. 31: "Con quanta ragione": Ironia.
v. 32: "Sacrosanto segno": Perifrasi. Per indicare l'impero.
v. 33: "E chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone": Perifrasi. Per indicare i Ghibellini e i Guelfi.
vv. 34-35: "Degno / di reverenza": Enjambement.
v. 37 e v. 40: "Tu sai ch'el fece / E sai ch'el fè": Anafora.
vv. 43-44: "Egregi / Romani": Enjambement.
vv. 46-47: "Cirro / negletto": Enjambement.
v. 48: "Mirro": Neologismo.
v. 49: "Aràbi": Anacronismo. Invece di dire Cartaginesi.
vv. 52-53: "Triunfaro / Scipione e Pompeo": Enjambement.
vv. 53-54: "Quel colle sotto 'l qual tu nascesti": Perifrasi.
vv. 55-56: "'l ciel volle / redur lo mondo": Enjambement.
v. 86: "Fu di tal volo": Metafora.
v. 63: "Che nol seguiteria lingua né penna": Iperbole.
v. 63: "Lingua": Metonimia. Per indicare la parola, il concreto per l'astratto.
v. 63: "Penna": Metonimia. Per indicare la scrittura, il concreto per l'astratto.
v. 70: "Scese folgorando a Iuba": Similitudine.
v. 72: "Pompeana tuba": Metonimia.
v. 78: "La morte prese": Anastrofe.
v. 83: "Fatto avea": Anastrofe.
v. 86: "Terzo Cesare": Perifrasi. Per indicare il terzo imperatore Tiberio.
vv. 86-87: "Si mira / con occhio chiaro": Enjambement.
v. 89: "Quel ch'i' dico": Perifrasi. Per indicare Tiberio.
v. 92: "A far vendetta corse": Anastrofe.
v. 93: "Peccato antico": Anastrofe.
v. 94: "Il dente longobardo": Metafora.
vv. 94-95: "Morse la Santa Chiesa": Enjambement.
vv. 100-101: "Gigli gialli / oppone": Enjambement.
v. 107: "Coi Guelfi suoi": Anastrofe.
vv. 107-108: "Ma tema de li artigli ch'a più alto leon trasser lo vello": Metafora.
vv. 116-117: "I raggi / del vero amore": Enjambement.
vv. 122-123: "Non si puote torcer": Enjambement.
vv. 124-126: "Diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote": Similitudine.
v. 127: "La presente margarita": Metafora.
v. 128: "Luce la luce": Polittoto.
v. 128: "Luce la luce": Allitterazione della L.
v. 137: "A questo giusto": Perifrasi. Per indicare Romeo.
v. 139: "Povero e vetusto": Endiadi.
Analisi ed Interpretazioni
Il discorso di Giustiniano e il tema dell'Impero
Questo canto è caratterizzato interamente dal discorso dell'imperatore Giustiniano, un caso unico nell'intera Commedia. Rispondendo alle domande che Dante gli aveva posto nel canto precedente, egli rivela la propria identità e spiega la condizione degli spiriti che abitano il secondo cielo. Dopo aver risposto alla prima domanda, Giustiniano introduce una lunga digressione sulla storia dell'Impero romano e sul suo ruolo provvidenziale. Questo inserto conferma il carattere politico del canto, in linea con i canti sesti delle altre due Cantiche, che trattano rispettivamente la situazione di Firenze (Inferno), dell'Italia (Purgatorio) e qui dell'Impero.
La ragione di questa ampia digressione è denunciare il comportamento di Guelfi e Ghibellini nei confronti dell'aquila imperiale: i primi si oppongono all'Impero, mentre i secondi lo strumentalizzano per i propri interessi. Entrambe le fazioni sono quindi responsabili del disordine politico che affligge l'Italia e l'Europa. La soluzione, secondo Dante, risiede nell'autorità di un Impero universale, garante della giustizia e dell'ordine, in contrapposizione all'anarchia politica del tempo. Questa idea emerge anche nel Purgatorio VI, dove si critica la mancata applicazione delle leggi emanate dallo stesso Giustiniano.
Dante sceglie Giustiniano come portavoce della celebrazione dell'Impero nonostante fosse un sovrano dell'Impero d'Oriente, con sede a Costantinopoli e non a Roma. La sua figura è rilevante perché fu colui che raccolse e riformò il diritto romano nel Corpus iuris civilis, base della legislazione medievale. Inoltre, cercò di restaurare l'unità dell'Impero, riconquistando Roma e l'Italia. Probabilmente, Dante critica Costantino per aver spostato la capitale a Bisanzio, andando contro il corso naturale della storia e contribuendo ai mali della Chiesa con la presunta Donazione di Costantino. Tuttavia, va notato che Costantino appare tra i beati nel Cielo di Giove, il che indica che la sua condanna non è assoluta.
La visione della storia imperiale
Giustiniano pronuncia un solenne discorso, presentandosi come colui che riformò le leggi e portò a termine la riconquista dell'Occidente grazie al generale Belisario (senza però menzionare i loro conflitti). Egli afferma che entrambe le sue opere furono guidate dal volere divino, attribuendo addirittura l'ispirazione del Corpus iuris civilis allo Spirito Santo.
Segue quindi una ricostruzione della storia dell'Impero attraverso il simbolo dell'aquila, emblema del dominio romano. Il racconto parte dalle origini mitiche troiane, con riferimento a Enea e alla morte di Pallante, passando per la monarchia e la Repubblica, con la menzione di figure storiche tratte da Livio. Il culmine di questo processo è l'istituzione del principato con Cesare e Augusto, voluta da Dio per unificare il mondo sotto un'unica legge e preparare la venuta di Cristo.
Dante celebra i primi due imperatori, ma dedica particolare attenzione a Tiberio, sotto il cui regno Cristo fu crocifisso, evento centrale della storia umana che rappresenta la punizione del peccato originale. Questa punizione viene a sua volta vendicata da Tito, artefice della distruzione di Gerusalemme (anche se storicamente ciò avvenne sotto Vespasiano, un errore che Dante chiarirà nel canto successivo).
Dopo questo periodo, l'Impero inizia un lento declino, culminato con lo spostamento della capitale a Bisanzio e la divisione tra Oriente e Occidente. Giustiniano tentò di restaurare l'unità imperiale, seppur temporaneamente, e Dante prosegue il racconto con Carlo Magno, visto come legittimo erede dell'Impero, poiché difensore della Chiesa contro i Longobardi. Il poeta ribadisce così la legittimità dell'Impero germanico come erede diretto di Roma, con il diritto di esercitare la sua autorità su tutto il mondo, concetto centrale anche nel trattato Monarchia.
Critica politica e la figura di Romeo di Villanova
Dalla celebrazione dell'Impero, il discorso si sposta su una dura critica a Guelfi e Ghibellini, accusati di aver tradito il simbolo imperiale e di aver contribuito al caos politico. L'invettiva si concentra su Carlo II d'Angiò, già duramente criticato da Dante in altri passi della Commedia, e si estende alla monarchia francese, che Dante riteneva non potesse sostituire l'autorità imperiale.
La risposta alla seconda domanda di Dante, riguardante la condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena, offre a Giustiniano l'occasione di menzionare un'altra anima del secondo cielo: Romeo di Villanova. Ministro del conte Raimondo Berengario di Provenza, Romeo fu vittima di calunnie e costretto ad abbandonare la corte in povertà. Questo episodio non è solo un esempio di cristiana rassegnazione, ma ha anche una valenza politica collegata al tema del canto.
Il destino di Romeo richiama quello dello stesso Dante, esiliato e costretto a lasciare Firenze nonostante i suoi meriti. Il poeta suggerisce che i Fiorentini, come i Provenzali, si pentiranno di aver allontanato un uomo giusto, finendo sotto il dominio degli Angioini. Inoltre, alcuni studiosi vedono in questo riferimento un tentativo di Giustiniano di riscattarsi per il trattamento riservato a Belisario, anche se questa interpretazione non è certa.
L'immagine di Romeo, ridotto a mendicare, richiama infine quella di Provenzan Salvani nel Purgatorio XI, prefigurando la stessa umiliazione che Dante dovrà affrontare durante il suo esilio. Il tema centrale del canto emerge con forza: senza un potere imperiale che garantisca giustizia e ordine, il mondo resta in balìa dell'ingiustizia e della corruzione.
Passi Controversi
Nei primi versi si fa riferimento allo spostamento della capitale dell'Impero da Roma a Bisanzio per volere di Costantino, evento che segnò il trasferimento del simbolo imperiale, l'aquila, dall'Occidente all'Oriente. Questo percorso si contrappone a quello di Enea, che da Troia giunse nel Lazio prendendo in sposa Lavinia. Alcuni studiosi hanno interpretato questa inversione come una critica implicita a Costantino. Tra questo evento e l'incoronazione di Giustiniano trascorsero meno di due secoli (v. 4), ma Dante, basandosi probabilmente sulla cronologia del Trésor di Brunetto Latini, indica le date del 333 e del 539, risultando in un intervallo di 206 anni.
I monti menzionati nel v. 6 si trovano nella regione della Troade. Nel v. 10, Giustiniano si presenta con un raffinato chiasmo (Cesare fui... son Iustiniano), accompagnato da una differenziazione nei tempi verbali: il passato si riferisce alla carica imperiale, mentre il presente riguarda la sua identità personale, in modo simile a quanto avviene nel Purgatorio (V, 88: Io fui di Montefeltro, io son Bonconte).
L'amor primo citato nel v. 11, che spinse Giustiniano a intraprendere la sua opera legislativa, si riferisce allo Spirito Santo. Il papa Agapito (v. 16), in carica tra il 533 e il 536, si recò a Costantinopoli per trattare la pace con i Goti e, secondo le fonti riportate nel Trésor, avrebbe convinto Giustiniano a rivedere le sue posizioni sul monofisismo.
Nel v. 21, Giustiniano afferma di percepire la verità della fede con la stessa chiarezza con cui si distingue la falsità e la verità in un ragionamento contraddittorio. Questo richiama il principio aristotelico di non contraddizione: se si afferma che Socrate o è vivo o è morto, una delle due affermazioni deve essere vera e l'altra falsa, senza possibilità di una terza alternativa (tertium non datur). Significativo è l'uso insistito della parola fede, ripetuta tre volte nei vv. 15, 17 e 19.
Nella lunga riflessione sull'Impero (vv. 34-96), il soggetto principale è l'aquila, simbolo della sovranità imperiale. Il v. 39 fa riferimento alla vicenda degli Orazi e dei Curiazi, narrata da Livio, in cui tre guerrieri per parte combatterono per determinare l'esito della guerra tra Roma e Alba Longa.
I vv. 43-45 menzionano alcune delle principali guerre combattute da Roma: la resistenza contro i Galli guidati da Brenno nel 387 a.C., la lotta contro Pirro (282-272 a.C.) e i conflitti con altre città e regni della penisola italiana.
Nel v. 46 compaiono due figure esemplari della storia romana: T. Manlio Torquato, noto per le sue vittorie su Galli e Latini, e L. Quinzio Cincinnato, vincitore degli Equi. Quest'ultimo è chiamato Quinzio per la sua capigliatura riccia, ma un'errata interpretazione successiva ha portato alcuni a credere che il nome derivasse da una chioma trascurata (cirro negletto), un errore ripreso anche da Petrarca.
Al v. 49, i Cartaginesi guidati da Annibale vengono anacronisticamente definiti Aràbi, un uso simile a quello con cui Dante chiama Lombardi i genitori di Virgilio (Inf., I, 68).
Il colle citato nel v. 53 è Fiesole, che secondo la leggenda sarebbe stata distrutta dai Romani, tra i quali si pensava erroneamente ci fosse anche Pompeo (in realtà impegnato in Oriente).
I fiumi citati nei vv. 58-60 sono quelli della Gallia, attraversati dalle campagne di Cesare: il Varo e il Reno segnavano rispettivamente i confini occidentale e settentrionale, mentre l'Isara corrisponde all'Isère e l'Era probabilmente alla Loira (o forse alla Saône, nota in latino come Arar).
Nei vv. 67-69 si accenna a un presunto passaggio di Cesare nella Troade per visitare la tomba di Ettore mentre inseguiva Pompeo in Egitto. Antandro e Simeonta (Simoenta) erano rispettivamente il porto da cui salpò Enea e il fiume vicino alla città di Troia.
Al v. 73, bàiulo è un latinismo che significa portatore.
Il lito rubro del v. 79 si riferisce al Mar Rosso, con un richiamo alla conquista dell'Egitto da parte di Ottaviano.
Il terzo Cesare (v. 86) è Tiberio, considerato da Dante il terzo imperatore, dopo Cesare e Augusto.
Nei vv. 91-93 si fa riferimento alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte di Tito, interpretata nella tradizione medievale come una punizione per la crocifissione di Cristo. Tuttavia, va notato che all'epoca della distruzione Tito non era ancora imperatore, poiché il trono era occupato da suo padre Vespasiano.
Nel v. 106, Carlo novello è Carlo II d'Angiò, successore di Carlo I. I vv. 109-110 risultano ambigui, poiché Dante nutriva stima per i figli di Carlo II, in particolare per Carlo Martello, suo amico. Non è chiaro se qui si preannuncino disgrazie per loro come punizione per le colpe del padre o se la sentenza abbia un valore più generale.
Al v. 118, gaggi significa premi o riconoscimenti, un francesismo.
Le quattro figlie di Raimondo Berengario IV menzionate nel v. 133 sono Margherita, moglie di Luigi IX di Francia; Eleonora, sposata con Enrico III d'Inghilterra; Sancia, unita a Riccardo di Cornovaglia, re dei Romani nel 1257; e Beatrice, moglie di Carlo I d'Angiò. Dante si rifà alla tradizione secondo cui questi matrimoni furono orchestrati da Romeo di Villanova.
L'espressione a frusto a frusto (v. 141) si traduce con a pezzo a pezzo, evocando l'immagine di Romeo che, ingiustamente caduto in disgrazia, fu costretto a vivere di elemosina.
Fonti: libri scolastici superiori