Parafrasi e Analisi: "Canto XVI" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Nel Canto XVI del Paradiso, Dante affronta un tema di grande rilievo per la sua visione del mondo: la decadenza morale e politica di Firenze. Immerso nella sfera di Marte, luogo destinato agli spiriti combattenti per la fede, il poeta si confronta con il senso dell'identità civica e con il contrasto tra la nobiltà d'animo del passato e la corruzione del presente. Attraverso il dialogo con un illustre antenato, emerge una riflessione profonda sulla trasformazione della società fiorentina e sulla perdita dei valori che un tempo ne costituivano il fondamento. Questo canto si distingue per il suo tono nostalgico e per l'amara consapevolezza del cambiamento, che si inserisce in una più ampia meditazione sulla storia, sulla giustizia e sul ruolo dell'uomo nella costruzione di una comunità virtuosa.


Testo e Parafrasi


O poca nostra nobiltà di sangue,
se glorïar di te la gente fai
qua giù dove l'affetto nostro langue,

mirabil cosa non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai.

Ben se' tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s'appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.

Dal 'voi' che prima a Roma s'offerie,
in che la sua famiglia men persevra,
ricominciaron le parole mie;

onde Beatrice, ch'era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossio
al primo fallo scritto di Ginevra.

Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sì, ch'i' son più ch'io.

Per tanti rivi s'empie d'allegrezza
la mente mia, che di sé fa letizia
perché può sostener che non si spezza.

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra püerizia;

ditemi de l'ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni».

Come s'avviva a lo spirar d'i venti
carbone in fiamma, così vid' io quella
luce risplendere a' miei blandimenti;

e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
ma non con questa moderna favella,

dissemi: «Da quel dì che fu detto 'Ave'
al parto in che mia madre, ch'è or santa,
s'allevïò di me ond' era grave,

al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l'ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.

Basti d'i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.

Tutti color ch'a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e 'l Batista,
eran il quinto di quei ch'or son vivi.

Ma la cittadinanza, ch'è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l'ultimo artista.

Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch'io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d'Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l'occhio aguzzo!

Se la gente ch'al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l'avolo a la cerca;

sariesi Montemurlo ancor de' Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d'Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s'appone;

e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.

Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.

E come 'l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:

per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch'io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;

e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l'Arca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

Sovra la porta ch'al presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,

erano i Ravignani, ond' è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de l'alto Bellincione ha poscia preso.

Quel de la Pressa sapeva già come
regger si vuole, e avea Galigaio
dorata in casa sua già l'elsa e 'l pome.

Grand' era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei ch'arrossan per lo staio.

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
a le curule Sizii e Arrigucci.

Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l'oro
fiorian Fiorenza in tutt' i suoi gran fatti.

Così facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a consistoro.

L'oltracotata schiatta che s'indraca
dietro a chi fugge, e a chi mostra 'l dente
o ver la borsa, com' agnel si placa,

già venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
che poï il suocero il fé lor parente.

Già era 'l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era
buon cittadino Giuda e Infangato.

Io dirò cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio s'entrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.

Ciascun che de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e 'l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,

da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.

Già eran Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo più quïeto,
se di novi vicin fosser digiuni.

La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v'ha morti
e puose fine al vostro viver lieto,

era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze süe per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t'avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch'a città venisti.

Ma conveniesi, a quella pietra scema
che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.

Con queste genti, e con altre con esse,
vid' io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.

Con queste genti vid' io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che 'l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,

né per divisïon fatto vermiglio».
Oh nostra piccola nobiltà di stirpe,
se fai vantare di te gli uomini della terra,
dove i nostri sentimenti sono attirati da falsi beni,

ciò non potrai mai meravigliarmi:
perché là su in paradiso, dove i desideri sono si allontanano
mai dal giusto, fu per me un motivo di vanto.

Tu, nobiltà di stirpe, sei come un mantello che si accorcia
presto: così che, se non si aggiunge altra stoffa di giorno in
giorno, il tempo alla fine ti consuma tutta con le sue forbici.

Usando quel "voi" che fu introdotto per la prima volta a Roma,
dove ora è molto meno utilizzato,
ripresi io a parlare con Cacciaguida;

per cui Beatrice, che era un poco distante,
sorridendo, si comportò come quella dama che tossendo
volle avvertire del fatto che conosceva la colpa di Ginevra.

Io cominciai a dire: "Voi siete mio padre;
voi mi date coraggio nel parlare; voi mi date
tanta dignità da farmi sentire superiore persino a me stesso.

Per tanti motivi si riempie di felicità
la mia mente, che si compiace quindi
di riuscire a contenerla senza spezzarsi.

Ditemi dunque, mio caro capostipite,
chi furono i vostri antenati ed in quale epoca
si svolse la vostra fanciullezza;

ditemi, nell'ovile di San Giovanni, quanto fosse allora
numeroso il gregge dei fiorentini, e chi fossero
in esso le persone degne dei più alti onori."

Come si ravviva quando viene alimentato dal soffio del vento
un pezzo di carbone acceso, così vidi quella luce risplendere
sempre più sentendo le mie parole affettuose;

e come ai miei occhi diventò più viva, così anche
nella voce diventò più dolce e delicata, e con una lingua
più antica di quella che ora uso per riportare le sue parole,

mi disse: "Dal giorno dell'Annunciazione, in cui l'arcangelo
Gabriele disse "Ave", al giorno in cui mia madre,
ora tra i beati in Paradiso, mi partorì,

sotto il segno del Leone per ben cinquecentottanta
volte ritornò il pianeta Marte
a risplendere (passarono 1091 anni).

I miei antenati ed io stesso nascemmo nel luogo di Firenze
in cui si trova l'ultimo sestiere
di quelli che corrono il vostro palio annuale di San Giovanni.

Dei miei antenati ti basti sapere questo:
chi essi fossero e da dove giunsero poi a Firenze,
è più opportuno tacerlo.

A quel tempo, tutti quelli che a Firenze, tra la statua di Marte
sul Ponte Vecchio ed il Battistero, era buoni per le armi,
erano complessivamente solo un quinto di quelli di adesso.

Ma la cittadinanza, che ora è mischiata con genti
di Campi Bisenzio, di Certaldo e di Figline Valdarno,
allora l'avresti potuta vedere pura fino al più umile artigiano.

Oh quanto sarebbe meglio poter avere solo come vicini
quelle genti che ho appena nominato, ed avere i confini della
città in corrispondenza delle borgate Trespiano e Galluzzo,

piuttosto che averle dentro le mura e dover sopportare la
puzza di quel campagnolo di Aguglione, o di quella di Signa,
che ha l'occhio pronto quando c'è da ingannare!

Se la gente, i papi ed i vescovi, che più si allontanano dalla via assegnata loro,
non si fossero comportati come una matrigna nei confronti dell'imperatore, ma
piuttosto come una madre amorevole nei confronti del proprio figlio,

non sarebbero diventati fiorentini, esercitando il cambio ed il
commercio, ed avrebbero continuato a vivere nel contado di
Semifonte, dove i loro antenati erano mercanti itineranti;

Montemurlo sarebbe ancora in mano ai Conti; i Cerchi
vivrebbero ancora nel gruppo di parrocchie di Acone in val di
Sieve, e forse i Buondelmonti in val di Greve.

La mescolanza di stirpi diverse è sempre
stata l'origine del male della città, che il cibo che va
a sovrapporsi nello stomaco a quello non ancora digerito;

ed un toro cieco cade prima
di un agnello cieco; e molte volte taglia
di più e meglio una spada sola che cinque spade.

Se consideri come le città di Luni e Urbisaglia
sono poi andate a finire, e come stanno le stanno
seguendo nella sorte Chiusi e Senigallia,

il sentire come le stirpi si estinguano tanto facilmente
non ti sembrerà cosa né strana né difficile,
dal momento che anche le città hanno una loro fine.

Tutte le cose umane sono destinate a morire,
così come voi uomini; solo che in alcune la morte non si vede,
perché durano molto, mentre le vostre vite sono brevi.

E come il corso della luna determina il flusso delle maree,
abbassando e diminuendo continuamente il livello sulle coste,
così fa la Fortuna con Firenze:

non ti deve perciò sembrare incredibile
ciò che ti dirò riguardo agli illustri fiorentini,
la cui fama è stata cancellata dal tempo.

Io conobbi gli Ughi ed i Catellini,
i Filippi, i Greci, gli Ormanni e gli Alberighi,
illustri cittadini, già nel momento del loro declino;

e conobbi, che era potenti tanto quanto lo erano nell'antichità,
le famiglie della Sannella, dell'Arca,
i Soldanieri, gli Ardinghi ed i Bostichi.

Sopra la porta di San Pietro, che ora è gravata
dal peso dello stemma di una nuova e vile famiglia,
tanto che presto la città ne sarà rovinata,

abitavano i Ravignani, dai quali ha origine
il conte Guido e tutti coloro
che hanno preso poi il nome dell'illustre Bellicion Berti.

Quelli della Pressa sapevano già come
si deve governare una città, ed i Galigai avevano già esposto
nella loro casa l'elsa ed il pomo dorati, insegne dei cavalieri.

Grande era lo stemma dei Pigli (striscia di pelliccia),
dei Sacchetti, dei Giouchi, dei Fifanti e dei Barucci
e dei Galli e di quelli, i Chiaramontesi, che ancora arrossiscono per la truffa del sale.

La famiglia da cui nacque la stirpe dei Calfucci
era già allora potente, e già
i Sizii e gli Arrigucci ricoprivano le più alte cariche politiche.

Come erano potenti ai miei tempi gli Uberti, ora
distrutti dalla loro stessa superbia! E le palle d'oro su campo
azzurro, stemma dei Lamberti, decoravano Firenze in ogni grande occasione.

Così facevano gli antenati dei Visdomini e dei Tosinghi, padri
di coloro che oggi, ogni qual volta la vostra diocesi è vacante,
si arricchiscono sedendo all'assemblea degli ecclesiastici.

La prepotente famiglia degli Adimari, che si inferocisce come
un drago contro chi fugge, mentre verso chi la minaccia
o la corrompe si mostra docile come un agnello,

era già ascesa al potere, ma aveva però umili origini;
tanto che ad Ubertino Donati non piacque
che suo suocero, Bellincione Berti, si imparentasse con loro (dando in sposa una sua figlia).

I Caponsacchi erano già scesi da Fiesole per abitare
nei pressi del Mercato Vecchio, e già erano
degli onorevoli cittadini i Giuda e gli Infangato.

Ti dirò una cosa incredibile ma vera:
nella piccola cerchia di mura si entrava attraverso una porta
che prendeva il proprio nome dalla famiglia della Pera.

Ogni famiglia che porta nel proprio stemma il simbolo
del barone Ugo il Grande, la cui fama ed il cui prestigio
vengono celebrati in occasione della festa di San Tommaso,

ricevettero da lui la dignità cavalleresca ed il privilegio dello
stemma; sebbene si sia oggi alleato con il popolo colui,
Giano della Bella, che adorna quello stemma con una fascia d'ora.

Già erano importanti i Gualtierotti e gli Importuni;
ed il Borgo dei Santi Apostoli sarebbe più tranquillo
se non avesse più avuto nuovi vicini.

La casa degli Amedei che diede origine al vostro pianto,
per il giusto sdegno che li spinse a vendicarsi del torto subito
e pose così fine al vostro lieto vivere, dando inizio alle lotte interne,

era allora onorata, lei ed i suoi alleati:
oh Buondelmonte, quanto hai sbagliato ad evitare
le nozze con la sua famiglia, tanto desiderate dagli altri!

Molti, ora tristi, sarebbe invece felici
se Dio ti avesse fatto affogare nel fiume Ema
la prima volta che arrivasti in città.

Ma era destino che a quella statua mutilata di Marte
che guarda il Ponte Vecchio, Firenze sacrificasse
una vittima al termine del suo periodo di pace.

Abitata da queste famiglie, ed anche da altre insieme a loro,
vidi io Firenze vivere in una tale condizione di pace
che non avevo nessun motivo per disperarmi.

Insieme a queste famiglie vidi vivere a Firenze una
popolazione gloriosa ed onesta, tanto che il giglio di Firenze
non aveva mai dovuto girare con l'asta rovesciata (per una sconfitta),

né era stato mai tinto di sangue a causa delle liti tra fazioni interne.



Riassunto


vv. 1-9 – L'Orgoglio della Nobiltà
Dante prova un senso di soddisfazione nell'apprendere da Cacciaguida le nobili origini della sua famiglia. Tuttavia, sottolinea che la nobiltà di nascita non ha alcun valore se non è accompagnata dalla virtù e dall'onore dei discendenti.

vv. 10-27 – Le Quattro Domande di Dante
Il poeta rivolge al suo avo quattro quesiti: chiede dettagli sulla sua stirpe, l'epoca in cui è vissuto, il numero di abitanti di Firenze nel suo tempo e quali fossero le famiglie più influenti della città.

vv. 28-45 – Le Origini di Cacciaguida
Cacciaguida rivela di essere nato nel 1091 a Firenze e di aver vissuto nel sestiere di Porta San Piero, come i suoi predecessori. Tuttavia, ritiene superfluo parlare della sua discendenza più remota.

vv. 46-72 – La Firenze del Passato e le Immigrazioni
All'epoca di Cacciaguida, la popolazione fiorentina era cinque volte inferiore rispetto a quella contemporanea di Dante, ma più omogenea e integra, non ancora influenzata dalle famiglie immigrate dal contado. Egli attribuisce alla mescolanza con questi nuovi arrivati l'origine della corruzione che ha poi contaminato anche la classe dirigente e il clero.

vv. 73-135 – Il Declino delle Antiche Famiglie
Cacciaguida passa quindi in rassegna le famiglie più importanti del suo tempo, molte delle quali ormai cadute in disgrazia o dimenticate.

vv. 136-154 – La Nascita dello Scontro tra Guelfi e Ghibellini
Infine, l'avo di Dante ricorda con amarezza l'episodio che segnò l'inizio delle lotte intestine di Firenze: l'omicidio di Buondelmonte dei Buondelmonti per mano degli Amidei, scatenato dalla rottura del suo fidanzamento con una donna di quella famiglia. Questo evento determinò la divisione della città tra Guelfi e Ghibellini, innescando una lunga stagione di conflitti.


Figure Retoriche


v. 1: "O poca nostra nobiltà di sangue": Apostrofe.
vv. 7-9: "Ben se' tu manto che tosto raccorce: sì che, se non s'appon di dì in die, lo tempo va dintorno con le force": Metafora.
v. 8: "Dì in die": Poliptoto.
v. 12: "Le parole mie": Anastrofe.
v. 13: "-15Beatrice, ch'era un poco scevra, ridendo, parve quella che tossio al primo fallo scritto di Ginevra": Similitudine.
v. 16: "Il padre mio": Perifrasi. Per indicare Cacciaguida in quanto era un suo progenitore.
vv. 16-18: "Voi": Accumulazione.
v. 20: "La mente mia": Anastrofe.
v. 22: "Mia primizia": Perifrasi. Per indicare il fatto che Cacciaguida sia un suo antenato.
v. 25: "L'ovil di San Giovanni": Metafora. I fiorentini vengono descritti come il gregge di san Giovanni Battista, santo patrono della città.
vv. 28-30: "Come s'avviva a lo spirar d'i venti carbone in fiamma, così vid'io quella luce risplendere a' miei blandimenti": Metafora.
v. 31: "Occhi miei": Anastrofe.
v. 32: "Dolce e soave": Endiadi.
vv. 34-39: "Da quel dì che fu detto 'Ave' al parto in che mia madre, ch'è or santa, s'alleviò di me ond'era grave, al suo Leon cinquecento cinquanta e trenta fiate venne questo foco a rinfiammarsi sotto la sua pianta": Perifrasi. Per indicare la data di nascita di Cacciaguida. la cui comprensione è legata ad una serie di fatti cronologici. Dal giorno dell'Annunciazione dell'Arcangelo Gabriele alla Vergine fino a quello della nascita di Cacciaguida il pianeta Marte era entrato in congiunzione con la costellazione del Leone per 580 volte; secondo le informazioni di Dante, il moto rivoluzionario di Marte avviene in 687 giorni terrestri, in questo modo si calcola che l'antenato di Dante sia nato nel 1091.
v. 40: "Antichi miei": Anastrofe.
vv. 40-42: "Li antichi miei e io nacqui nel loco dove si truova pria l'ultimo sesto da quei che corre il vostro annual gioco": Perifrasi. Per indicare la località di nascita di Cacciaguida e della sua famiglia che è il sestiere di S. Pietro, che si trovava nell'ultima parte che deve percorrere chi partecipa al palio di Firenze.
v. 42: "Annual gioco": Perifrasi. Per indicare il palio fiorentino.
v. 56: "Villan d'Aguglion": Perifrasi. Per indicare Baldo d'Agugliano, giurista e uomo politico del XIII sec. che nel 1299 fu coinvolto nello scandalo di Niccolò Acciaiuoli.
v. 56: "Di quel da Signa": Perifrasi. Per indicare Bonifazio di Ser Rinaldo Morubaldini, giurista di parte Bianca passato poi ai Neri e che contribuì all'esilio di Dante.
v. 58: "Se la gente ch'al mondo più traligna": Perifrasi. Per indicare il Clero, la Chiesa.
v. 59: "Cesare": Sineddoche, la parte per il tutto. Per indicare l'intero istituto imperiale.
v. 60: "Noverca": Latinismo. Termine che viene ripreso da Dante dalle Metamorfosi di Ovidio dove Fedra, perfida matrigna di Ippolito, viene definita con quel termine.
vv. 59-60: "Non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna": Similitudine.
v. 66: "E forse in Valdigrieve i Buondelmonti": Ellissi. Rispetto a due versi precedenti non fa uso del verbo "sariesi" (sarebbero rimasti).
vv. 67-69: "Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade, come del vostro il cibo che s'appone": Similitudine.
v. 70: "Cieco toro": Anastrofe.
v. 70: "Avaccio": Latinismo. Significa "presto".
v. 71: "Cieco agnello": Anastrofe.
vv. 70-72: "E cieco toro più avaccio cade che cieco agnello; e molte volte taglia più e meglio una che le cinque spade": Epifonema o Aforisma.
v. 72: "Più e meglio": Endiadi.
v. 78: "Termine hanno": Anastrofe.
v. 79: "Tutte hanno": Anastrofe.
vv. 79-80: "Le vostre cose tutte hanno lor morte, sì come voi": Similitudine.
vv. 82-84: "E come 'l volger del ciel de la luna cuopre e discuopre i liti sanza posa, così fa di Fiorenza la Fortuna": Similitudine.
v. 96: "De la barca": Perifrasi.
v. 102: "Dorata in casa sua già l'elsa e 'l pome": Perifrasi.
v. 105: "Quei ch'arrossan per lo staio": Perifrasi.
v. 108: "Curule": Perifrasi. Il termine fa riferimento al sedile ornato d'avorio, simbolo del potere giudiziario nell'antica Roma. E viene usato per indicare le famiglie a cui hanno avuto accesso alle alte cariche.
vv. 109-110: "Quei che son disfatti per lor superbia": Perifrasi. Per indicare la famiglia degli Uberti.
v. 110: "Palle de l'oro": Perifrasi. Per indicare lo stemma della famiglia dei Lamberti.
v. 115: "L'oltracotata schiatta": Perifrasi. Per indicare la famiglia degli Adimari.
v. 115: "Indraca": Dantismo. Espressione coniata da Dante, sta ad indicare il gesto di qualcuno che si fa drago, cioè forte e potente, nei confronti di qualcun altro.
vv. 116-117: "E a chi mostra 'l dente o ver la borsa, com'agnel si placa": Similitudine.
v. 116: "A chi mostra 'l dente": Sineddoche. Il singolare per il plurale, "mostrare i denti".
v. 121: "'l Caponsacco": Sineddoche. Il singolare per il plurale, "i Caponsacchi".
v. 121: "E già era buon cittadino Giuda e Infangato": Sineddoche. Il singolare per il plurale, "ed erano già diventati cittadini onorari i Giudi e gli Infangati".
v. 125: "Picciol cerchio": Perifrasi. Per indicare lo stretto cerchio delle antiche mura cittadine.
vv. 128-129: "Del gran barone il cui nome e 'l cui pregio la festa di Tommaso riconforta": Perifrasi. Per indicare Ugo di Toscana, o di Tuscia, detto a volte Il Grande.
vv. 131-132: "Con popol si rauni oggi colui che la fascia col fregio": Perifrasi. Per indicare Giano della Bella.
v. 136: "La casa di che nacque il vostro fleto": Perifrasi. Per indicare la famiglia degli Amidei.
v. 143: "Se Dio t'avesse conceduto ad Ema": Metafora. Significa che sarebbe stato meglio se Buondelmonte fosse morto nel torrente dell'Ema.
v. 145: "Pietra scema": Sineddoche. La materia per l'oggetto, per indicare la statua mutilata di Marte.
vv. 152-153: "Glorioso e giusto": Endiadi.
v. 153: "Il popol suo": Anastrofe.


Analisi ed Interpretazioni


Nel XVI Canto del Paradiso, Dante prosegue il dialogo con il suo avo Cacciaguida, il quale, dopo aver rievocato con fierezza il passato nobile di Firenze, si sofferma sulla sua decadenza morale e politica. Questo episodio centrale della Commedia, pur meno sostenuto rispetto agli altri due del "trittico" (Canti XV e XVII), gioca un ruolo chiave nell'opera, sviluppando il tema della degenerazione cittadina e dell'opposizione tra l'antica aristocrazia morale e la nuova classe mercantile.

Dante si mostra inizialmente orgoglioso delle sue origini nobili, ma subito riconosce che questo sentimento appartiene al mondo terreno, come suggerisce il lieve sorriso di Beatrice. L'attenzione si sposta poi su Firenze, che Cacciaguida descrive come una città un tempo pura e coesa, abitata da cittadini discendenti dai Romani. L'arrivo di nuovi abitanti dal contado, spinti dalla ricerca di guadagni facili, avrebbe invece avviato la sua corruzione, un tema già affrontato in Inferno XV e XVI. La critica di Cacciaguida non si limita all'aspetto sociale, ma si allarga alla Chiesa, accusata di aver usurpato il potere imperiale, contribuendo al disordine politico. Egli paragona la futura rovina di Firenze a quella di antiche città ormai scomparse, evocando il declino di famiglie illustri come gli Uberti e i Buondelmonti, questi ultimi responsabili, con la faida tra fazioni, dell'inasprimento delle divisioni cittadine.

Il Canto XVI è spesso definito il più "fiorentino" della Commedia, poiché rappresenta il punto culminante della riflessione dantesca sulla decadenza morale di Firenze. La città, un tempo centro di virtù e valori, è ora lacerata da discordie interne, superbia e avidità. La statua di Marte, sotto la quale venne assassinato Buondelmonte, assume un significato simbolico sinistro, quasi a indicare che il dio pagano abbia preteso un tributo di sangue per la degenerazione fiorentina.

Parallelamente alla denuncia politica e sociale, emerge una riflessione più ampia sulla vera nobiltà. Se nel Canto XV Dante aveva ricostruito la propria genealogia attraverso Cacciaguida, qui il concetto di aristocrazia si definisce non solo come eredità di sangue, ma soprattutto come valore interiore. La vera nobiltà, secondo Dante, non risiede nella discendenza, ma nella virtù, un'idea già sviluppata nel Convivio e ripresa nella Commedia. Il poeta si considera quindi l'erede di una Firenze ideale, non per nascita, ma per la missione profetica e morale che gli è stata affidata.

La critica dantesca alla società mercantile si inserisce in questa visione più ampia. Dante condanna il predominio del denaro e del commercio, ritenendoli responsabili della corruzione della società medievale. A differenza di Boccaccio, che pochi decenni dopo esalterà la figura del mercante, il poeta fiorentino vede nella ricerca sfrenata del profitto la radice della degenerazione politica e morale. Nella sua ottica, l'uomo dovrebbe vivere del proprio lavoro e non di speculazione finanziaria, motivo per cui nella Commedia gli usurai sono condannati tra i violenti contro Dio. Il fiorino d'oro, simbolo del potere economico di Firenze, è visto come un elemento di corruzione, capace di influenzare perfino i sovrani e il papato.

In questo quadro di denuncia e nostalgia, il Canto XVI si inserisce come il momento in cui Dante definisce la propria identità morale e poetica. Se la Firenze antica del Canto XV era un modello di equilibrio e rettitudine, quella contemporanea appare distrutta dalle lotte interne e dall'avidità. Tuttavia, il poeta non si limita a lamentare il passato perduto: attraverso la propria missione profetica, si propone come guida per il rinnovamento morale dell'umanità.


Passi Controversi


Al verso 7, il verbo "raccorce" sembra essere la seconda persona del verbo raccorciare, impiegato in modo intransitivo nel senso di "accorciarsi". Nei versi 10-11 si fa riferimento alla credenza, diffusa nel XIV secolo, secondo cui il "voi" come forma di cortesia sarebbe stato usato per la prima volta nei confronti di Cesare dopo la sua ascesa al potere. Tuttavia, in realtà, questa formula onorifica si diffuse solo nel III secolo d.C. Nelle regioni laziali, invece, l'uso del "tu" rimase prevalente anche in contesti formali, come suggerisce il verso 11.

I versi 14-15 richiamano un episodio del Lancillotto e Ginevra, in cui la dama di Malehaut, assistendo in segreto al loro primo colloquio amoroso, si fa scoprire tossendo. Il "primo fallo" della regina non è dunque il bacio, che avviene in un'altra circostanza, ma il compromettente incontro, qui definito "scritto" nel senso di "narrato".

Al verso 22, il termine "primizia" ha il significato di "capostipite", mentre al verso 25 l'espressione ovil di San Giovanni indica Firenze, come confermato anche nel Paradiso (XXV, 5). Il verso 33 ha portato alcuni studiosi a ipotizzare che Cacciaguida stia parlando in latino, come già accade in XV, 28-30, ma è più probabile che Dante gli attribuisca un volgare fiorentino arcaico, differente da quello in uso nel suo tempo, in linea con quanto afferma nel De vulgari eloquentia (I, 9) riguardo all'evoluzione della lingua.

Nei versi 34-39, una complessa perifrasi astronomica indica che tra l'Annunciazione e la nascita di Cacciaguida Marte è stato in congiunzione con la costellazione del Leone per 580 volte. Poiché Dante, basandosi sugli studi dell'astronomo arabo Alfragano, riteneva che il ciclo sidereo di Marte fosse di 687 giorni, il calcolo porta all'anno 1091 come data di nascita di Cacciaguida. L'immagine della "pianta" potrebbe riferirsi alla zampa del Leone, forse identificabile con la stella Regolo.

I versi 40-42 indicano che Cacciaguida nacque nel sestiere di San Pietro, una zona della città che si trovava lungo il percorso del palio annuale e che, ai tempi dell'avo, si trovava ancora all'interno della vecchia cinta muraria, a conferma della nobiltà della sua famiglia. È possibile che il palio non esistesse ancora nel XII secolo, motivo per cui l'avo lo definisce il "vostro" gioco.

Il verso 45 suggerisce che sia più opportuno non menzionare gli antenati di Cacciaguida, non per nascondere qualcosa di disonorevole, come alcuni hanno ipotizzato, ma semplicemente perché non è rilevante. L'espressione da poter arme (v. 47) significa "essere in grado di portare armi", mentre tra Marte e 'l Batista fa riferimento all'area tra Ponte Vecchio, dove si trovava una statua attribuita a Marte, e il battistero di San Giovanni, due punti estremi della Firenze medievale.

Il verso 50 nomina i centri di Campi, Certaldo e Figline Valdarno, località del contado fiorentino, mentre Galluzzo e Trespiano (vv. 53-54) erano borghi ai confini della città. Il villan d'Aguglion (v. 56) è Baldo d'Aguglione, giurista e politico del XIII secolo coinvolto in uno scandalo nel 1299. Quel da Signa è invece Bonifazio di Ser Rinaldo Morubaldini, giurista guelfo bianco poi passato ai neri, che contribuì all'esilio di Dante.

Il verso 62 menziona Simifonti, un castello nella Valdelsa, per sottolineare che, se l'autorità imperiale non fosse stata indebolita dalla Chiesa, alcuni nobili di umili origini sarebbero rimasti a vivere nelle campagne, come facevano i loro antenati. Montemurlo (v. 64) apparteneva ai conti Guidi prima di essere ceduto a Firenze nel 1254. I Cerchi (v. 65), mercanti e capi dei Guelfi Bianchi, provenivano da Acone in Val di Sieve, mentre i Buondelmonti, il cui castello in Val di Greve venne distrutto, si trasferirono in città.

Nei versi 73 e seguenti, Luni e Urbesalvia (Orbisaglia) erano già in rovina nel XIV secolo, mentre Chiusi e Senigallia sembravano destinate a un simile declino a causa della malaria. Il verso 94 fa riferimento alla porta di San Pietro, dove un tempo abitavano i Ravignani, sostituiti nel Trecento dai Cerchi. Il conte Guido (v. 97) è Guido Guerra VI, uno dei sodomiti citati nell'Inferno (XVI), mentre l'alto Bellincione (v. 99) è Bellincione Berti.

Il verso 103 allude allo stemma dei Pigli, con una striscia di vaio su sfondo rosso. I Chiaramontesi (v. 105) sono menzionati per il loro coinvolgimento in uno scandalo già ricordato nel Purgatorio (XII, 105). Gli Uberti, famiglia ghibellina esiliata nel 1266, sono citati ai versi 109-110, mentre le "palle dell'oro" rappresentano lo stemma dei Lamberti, anch'essi banditi.

Il verso 115 fa riferimento agli Adimari, famiglia di umili origini di cui faceva parte Filippo Argenti. La loro ascesa sociale non fu ben vista dai Donati, tanto che Ubertino Donati mal sopportava il legame matrimoniale con loro (vv. 119-120).

I Della Pera (v. 126) danno il nome a una porta dell'antica cerchia muraria: l'identificazione con i Peruzzi, futuri banchieri insieme ai Bardi, resta incerta. Il gran barone (v. 128) è Ugo il Grande, marchese di Toscana, fondatore di sette abbazie. Nei versi 131-132, Giano della Bella viene menzionato come colui che, pur schierandosi con il popolo, portava un'insegna nobiliare.

Il verso 136 richiama la famiglia Amidei, responsabile dell'omicidio di Buondelmonte dei Buondelmonti nel 1216 presso Ponte Vecchio, un evento che segnò l'inizio delle lotte tra Guelfi e Ghibellini. Il verso 144 sembra suggerire che Buondelmonte fosse il primo della sua famiglia a trasferirsi in città, ma in realtà ciò era avvenuto già nel 1135. La pietra scema (v. 145) è il frammento della statua attribuita a Marte, vicino alla quale avvenne l'uccisione del giovane.

Infine, i versi 152-153 si riferiscono alla consuetudine di sventolare gli stemmi delle città sconfitte con l'asta rovesciata, un'umiliazione che, secondo Cacciaguida, non è mai accaduta al giglio fiorentino. Il verso 154 potrebbe alludere al cambiamento dello stemma cittadino dopo il 1251 o al sangue versato nelle lotte intestine.

Fonti: libri scolastici superiori

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