Parafrasi e Analisi: "Canto XV" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XV del Paradiso segna l'inizio di una sezione profondamente intima e carica di significato affettivo all'interno del viaggio ultraterreno di Dante. In questo canto, il poeta si trova ancora nel cielo di Marte, il regno degli spiriti militanti per la fede, dove il tema centrale si sviluppa attorno al valore della memoria, dell'identità e delle radici familiari. Qui Dante affronta un momento di intensa commozione, poiché si addentra in una riflessione sul legame tra passato e presente, tra le virtù degli antenati e il decadimento morale della sua epoca.

Attraverso il linguaggio poetico e solenne che caratterizza questa cantica, il canto esplora il concetto di eredità spirituale e morale, contrapponendo la purezza e l'integrità dei tempi antichi alla corruzione del mondo contemporaneo. Si delinea così un discorso che non è solo personale, ma assume una valenza universale, ponendo interrogativi profondi sulla trasmissione dei valori e sull'importanza della memoria storica nel mantenere viva l'identità di un popolo.


Testo e Parafrasi


Benigna volontade in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,

silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.

Come saranno a' giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?

Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia.

Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,

e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond' e' s'accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:

tale dal corno che 'n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;

né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.

Sì pïa l'ombra d'Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s'accorse.

«O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?».

Così quel lume: ond' io m'attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.

Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch'io non lo 'ntesi, sì parlò profondo;

né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché 'l suo concetto
al segno d'i mortal si soprapuose.

E quando l'arco de l'ardente affetto
fu sì sfogato, che 'l parlar discese
inver' lo segno del nostro intelletto,

la prima cosa che per me s'intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se' tanto cortese!».

E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du' non si muta mai bianco né bruno,

solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch'io ti parlo, mercé di colei
ch'a l'alto volo ti vestì le piume.

Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch'è primo, così come raia
da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei;

e però ch'io mi sia e perch' io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia.

Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi;

ma perché 'l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m'asseta
di dolce disïar, s'adempia meglio,

la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni 'l disio,
a che la mia risposta è già decreta!».

Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l'ali al voler mio.

Poi cominciai così: «L'affetto e 'l senno,
come la prima equalità v'apparse,
d'un peso per ciascun di voi si fenno,

però che 'l sol che v'allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.

Ma voglia e argomento ne' mortali,
per la cagion ch'a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali;

ond' io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.

Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio».

«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi.

Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent' anni e piùe
girato ha 'l monte in la prima cornice,

mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l'opere tue.

Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond' ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.

Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.

Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.

Non avea case di famiglia vòte;
non v'era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che 'n camera si puote.

Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com' è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.

Bellincion Berti vid' io andar cinto
di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza 'l viso dipinto;

e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.

Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.

L'una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l'idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;

l'altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d'i Troiani, di Fiesole e di Roma.

Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.

A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,

Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l'antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.

Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.

Poi seguitai lo 'mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.

Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d'i pastor, vostra giustizia.

Quivi fu' io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt' anime deturpa;

e venni dal martiro a questa pace».
La volontà di compiere del bene, nella quale si manifesta
sempre l'amore vero che è rivolto al sommo bene,
così come l'avidità, il falso amore, si manifesta nella volontà rivolta verso al male,

impose il silenzio a quel dolce suono, a quel coro,
e fece posare quelle sante voci, simili a corde
di uno strumento suonato dalla potenza di Dio.

Come potrebbero non ascoltare le devote preghiere degli uomini
quelle anime sante che, per spingermi
a porre le mie domande, tacquero all'unisono?

È giusto che non veda la fine della propria sofferenza
chi, per amore dei beni mondani, destinati a terminare,
si privi di quell'amore.

Come attraverso il cielo notturno sereno e limpido passa ogni
tanto, all'improvviso, un fuoco, una stella cadente, spingendo
gli occhi, prima fissi, a muoversi per seguirne il movimento,

e sembra una stella che stia cambiando posizione,
se non per il fatto che nel punto in cui si è acceso
nessuna stella è scomparsa, e la sua luce dura poco:

allo stesso modo dal braccio destro
di quella Croce, si mosse ai piedi di essa una delle stelle
della costellazione che risplende nel Paradiso;

Quella stella, simile ad una gemma, non si staccò da quel
braccio, ma si mosse in orizzontale e verticale, mostrandosi
come un fuoco acceso dietro ad una lastra di alabastro.

Non meno premurosa si mostrò l'anima di Anchise,
se meritano fiducia le parole di Virgilio, il nostro maggior poeta,
quando si accorse della presenza del figlio nei Campi Elisi.

"Oh sangue del mio sangue, oh grazia divina
scenda in abbondanza sull'uomo, a chi mai, come per te,
furono aperte per due volte le porte del cielo?".

Così parlò quell'anima luminosa: per cui io rivolsi a lui la mia
l'attenzione; poi rivolsi il mio sguardo verso Beatrice,
e per l'uno e per l'altra rimasi meravigliato;

perché dentro agli occhi di lei risplendeva un sorriso
tale che io credei di giungere al culmine estremo
della mia beatitudine e del mio paradiso.

Quindi quell'anima luminosa, piacevole a sentirsi ed a vedersi,
aggiunse al suo primo discorso altre cose
tanto profonde, oscure, da non poter essere da me comprese;

non per sua scelta parlò in modo a me incomprensibile
ma per necessità, poiché i suoi concetti, i suoi pensieri,
superavano il limite dell'intelletto umano.

E quando l'ardore del suo affetto
si fu sfogato, così che il suo linguaggio tornò
nel limite del nostro intelletto, tornò comprensibile,

la prima cosa che riuscii a capire
fu: "Sia benedetto Dio, unico e triplice,
che con la mia stirpe si mostra tanto cortese!"

Continuò quindi a dire: "Un tanto caro e tanto atteso desiderio,
accesosi in me leggendo della tua venuta nella mente divina,
nella quale nulla viene mai né aggiunto né tolto,

hai tu realizzato, figlio mio, venendo qui dentro a questa luce
dalla quale ti parlo, grazie all'aiuto di lei, Beatrice, che ti fornì
le ali per un simile volo, i mezzi per una simile impresa.

Tu credi che a me i tuoi pensieri giungano direttamente
da colui che è principio di ogni cosa, Dio, così come dalla
conoscenza dell'unità deriva quella di tutti gli altri numeri;

e pertanto non mi esponi il tuo desiderio di sapere chi io sia
e perché mi mostri verso te tanto più ardente di gioia
di qualunque altra tra queste anime beate.

Ciò che credi è corretto; dal momento che tutti i beati,
qualunque sia la loro condizione, osservano lo specchio di Dio,
nel quale appare il tuo pensiero prima ancora che venga formulato;

ma perché la legge della carità divina, sulla quale io veglio
continuamente e che mi appaga
con il desiderio di sé, venga meglio attuata,

la tua ferma voce, forte e lieta,
esprima la tua volontà, esprima il tuo desiderio,
in risposta al quale ho già pronte le mie parole!"

Mi rivolsi a Beatrice e lei comprese ciò che stavo per dire
prima ancora che iniziassi a parlare, mi sorrise e con un cenno
di assenso diede nuovo vigore alla mia già viva volontà.

Cominciai poi a parlare così: "Il sentimento e l'intelligenza,
non appena il perfetto equilibrio di Dio vi fu manifesto,
assunsero lo stesso peso per voi anime beate,

poiché il sole, Dio, che vi illuminò e vi scaldò, nel calore (della
carità) e nella luce (della sapienza) è tanto simile, che qualunque
altra uguaglianza sarebbe inadeguata per descriverlo.

Ma negli uomini la volontà e gli strumenti per esprimerla,
per i motivi che sono a voi ben noti,
hanno ali di diversa potenza, sono tanto differenti,

perciò io, in quanto mortale, riconosco di possedere questa
disuguaglianza, e riesco quindi a mostrarmi riconoscente
solo con il cuore per la tua calorosa accoglienza.

Ti supplico quindi, oh preziosa gemma
che arricchisci questo prezioso gioiello, affinché
tu soddisfi il mio forte desiderio di conoscere il tuo nome."

"O mio ramo, mio discendente, del quale mi sono compiaciuto
anche quando aspettavo la tua venuta, io sono la tua radice, il
capostipite della tua famiglia": questa il principio della sua risposta.

Poi mi disse: "Colui dal quale deriva
il nome della tua famiglia e che è da oltre cent'anni
nella prima cornice del monte del Purgatorio,

fu mio figlio e fu il tuo bisavolo:
è quindi giusto che la sua lunga fatica, la sua lunga penitenza,
venga abbreviata con le tue preghiere.

Firenze, dentro la cerchia delle sue mura antiche, da cui sente
ancora il campanile della Badia battere la terza e nona ora,
viveva al mio tempo in pace, moderata ed onesta.

Le donne non indossavano ancora catenelle, corone,
gonne ricamate o cinture
ben più vistose di loro stesse.

Non faceva ancora paura ai padri la nascita di una figlia
femmina, poiché l'età e la dote necessarie per maritarla
non eccedevano la giusta misura da una e dall'altra parte (troppo presto ed a caro prezzo).

Non c'erano a Firenze case famigliari poco popolate;
non era ancora giunto il re Sardanapalo a mostrare la lussuria,
a mostrare ciò che in una camera poteva essere fatto.

Lo sfarzo visibile a Roma da Monte Mario non era ancora
inferiore a quello visibile a Firenze dal monte Uccellatoio; così
come lo ha superato nell'ascesa lo supererà però anche nella decadenza.

Ho visto con i miei occhi lo stimato Bellincion Berti andare in
giro con indosso una cintura di cuoio ed osso, e sua moglie
allontanarsi da uno specchio senza essersi truccata il viso;

e vidi le famiglie guelfe dei Nerli e dei Vecchietti
essere contente anche indosso solo pelli non foderate,
e le loro donne essere lavorare alla filatura della lana.

Fortunate loro! Ognuna era certa di
essere sepolta in patria, e nessuna era stata ancora
abbandonata dal marito per un viaggio d'affari in Francia.

Alcune stavano a vegliare la culla del proprio figlio,
e, per consolarlo, usavano quel linguaggio
che un tempo divertiva i padri e le madri, ed ora solo le balie;

altre, lavorando alla filatura,
raccontavano alle proprie ancelle
la storia dei Troiani, di Fiesole e di Roma.

Ci si sarebbe a quel tempo molto meravigliati della disonestà
di una Cianghella o di un Lapo Salterello, come ora ci si
sorprenderebbe dell'onestà di un Cincinnato o di una Cornelia.

In mezzo ad una così tranquillo e così lieto
vivere dei cittadini, in mezzo ad una così onesta
cittadinanza, in una così cara dimora,

vidi la luce con mia madre che invocava la Vergine Maria
tra le urla del parto; e nel vostro antico Battistero
divenni cristiano e presi il nome di Cacciaguida.

I miei fratelli erano chiamati Moronto ed Eliseo;
mia moglie veniva dalla Val Padana,
e così, tramite lei, si arrivò quindi al tuo cognome.

Seguii sul campo di battaglia l'imperatore Corrado;
ed egli mi fece suo cavaliere,
tanto acquistai la sua grazia con i buoni servizi a lui resi.

Lo segui nella guerra contro l'ingiustizia di quella religione
maomettana, il cui popolo usurpa, per colpa dei pontefici,
quello che per giustizia spetterebbe a voi cristiani.

Laggiù fui ucciso da quegli infedeli,
fui sciolto dai legami con il mondo ingannevole,
che danneggia molte anime con l'amore per i suoi falsi piaceri;

morto in nome della fede cristiana, raggiunsi quindi la pace del Paradiso.



Riassunto


vv. 1-12 – Il silenzio dei beati
Nel cielo di Marte, le anime beate interrompono momentaneamente il loro canto per un atto di carità: permettere a Dante di esprimere direttamente i suoi desideri.

vv. 13-69 – L'apparizione e il saluto di Cacciaguida
Uno degli spiriti discende lungo la croce luminosa e, rivolgendosi a Dante in latino, lo accoglie con un saluto particolare, rivelandosi come un suo antenato. Si tratta di Cacciaguida, il trisavolo del poeta.

vv. 70-87 – La preghiera di Dante
Dante alza lo sguardo verso Beatrice per ricevere il suo consenso a parlare, e la donna lo incoraggia con un semplice cenno. Il poeta, colmo di gratitudine per la calorosa accoglienza ricevuta, ammette di poter esprimere la sua riconoscenza solo con il cuore, non trovando parole adeguate. Poi, chiede allo spirito di rivelare la propria identità.

vv. 88-129 – L'elogio della Firenze antica
Cacciaguida inizia un lungo discorso che si svilupperà per oltre tre canti (dal XV alla metà del XVIII), esaltando le virtù della Firenze del XII secolo. Descrive una città pacifica, dove i cittadini vivevano secondo principi di sobrietà e onestà, le donne erano esempio di moralità e pudicizia, e la nobiltà si distingueva per integrità e misura nei comportamenti.

vv. 130-148 – Il racconto della vita di Cacciaguida
Proseguendo, Cacciaguida racconta di essere stato battezzato nel battistero di San Giovanni e di aver sposato una donna originaria della Valle Padana, dalla cui famiglia deriva il cognome di Dante. Successivamente, si arruolò nell'esercito dell'imperatore Corrado III, ricevendo il titolo di cavaliere. Infine, morì in Terrasanta combattendo contro gli infedeli, guadagnandosi l'ingresso immediato in Paradiso come martire della fede.


Figure Retoriche


v. 3: "A guisa di fanciullo scherza": Similitudine.
v. 6: "Mezza notte era": Anastrofe.
v. 7: "Per mezzo 'l naso": Sineddoche. La parte per il tutto.
vv. 13-14: "La cima / de le mie ciglia": Enjambement.
vv. 16-23: "Come quando da l'acqua o da lo specchio salta lo raggio a l'opposita parte, salendo su per lo modo parecchio a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta, sì come mostra esperienza e arte; così mi parve da luce rifratta quivi dinanzi a me esser percosso": Similitudine.
v. 17: "L'opposita parte": Anastrofe.
v. 34: "Giunti fummo": Anastrofe.
v. 42: "Prode acquistar": Anastrofe.
v. 42: "Ne le parole sue": Anastrofe.
v. 52: "Il disiderio vostro": Anastrofe.
v. 69: "Com'a lucido corpo raggio vene": Similitudine.
v. 75: "E come specchio l'uno a l'altro rende": Similitudine.
vv. 85-86: "Visione / estatica": Enjambement.
vv. 97-99: "La villa del cui nome ne' dèi fu tanta lite, e onde ogni scienza disfavilla": Perifrasi. Per indicare Atene.
v. 102: "Benigno e mite": Endiadi.
vv. 107-108: "Forte / gridando": Enjambement e Anastrofe.
v. 114: "Pietà diserra": Anastrofe.
v. 115: "L'anima mia": Anastrofe.
v. 118: "Lo duca mio": Anastrofe.
v. 119: "Far sì com'om che dal sonno si slega": Similitudine.
v. 123: "A guisa di cui vino o sonno piega": Similitudine.
v. 131-132: "D'aprir lo core a l'acque de la pace che da l'etterno fonte son diffuse": Metafora.
v. 133-135: "Per quel che face chi guarda pur con l'occhio che non vede, quando disanimato il corpo giace": SSSimilitudine.
v. 136: "Per darti forza al piede": Metonimia. La causa per l'effetto.
v. 143: "Come la notte oscuro": Similitudine.


Analisi ed Interpretazioni


Il canto XV del Paradiso segna l'inizio della cosiddetta "trilogia di Cacciaguida", un momento centrale dell'intero poema dantesco. In questa sezione, infatti, Dante incontra il suo avo Cacciaguida, e attraverso il loro dialogo viene delineata in modo definitivo la missione poetica e civile del poeta. L'importanza di questi canti è enfatizzata anche dalla loro posizione all'interno della Divina Commedia, nel cuore del Paradiso, precisamente nel cielo di Marte, che il Convivio definisce «il mezzo di tutti».

L'incontro con Cacciaguida segna una svolta: dall'estasi contemplativa della croce luminosa di spiriti beati (descritta nel canto precedente) si torna alla dimensione storica e politica, in un processo di "discesa" della verità celeste nel linguaggio umano. Attraverso le parole di Cacciaguida, Dante non solo rievoca la Firenze del passato, ma riflette anche sul proprio destino di poeta esule e profeta, destinato a portare agli uomini il messaggio divino attraverso la sua opera. Il canto si apre con una solenne metafora musicale che descrive il silenzio delle anime beate come una lira celeste che la mano di Dio ora tende e ora allenta, per poi introdurre l'apparizione di Cacciaguida, paragonata a una stella cadente che attraversa il cielo notturno. La sua luce si muove lungo il braccio della croce, e la sua figura viene esaltata da immagini preziose, come quella del topazio e della fiamma dietro un'alabastro.

Quando Cacciaguida si rivolge a Dante, inizialmente non svela il proprio nome, ma lo accoglie con parole solenni, paragonandosi all'ombra di Anchise che accoglie Enea nei Campi Elisi. Parlando in latino, chiede a chi, oltre al poeta, la porta del cielo sia stata aperta due volte. Il riferimento è sia al viaggio ultraterreno di Enea nell'Eneide, in cui il troiano riceve dal padre la profezia sul futuro di Roma, sia alla visione di San Paolo nel Nuovo Testamento. Con questa domanda retorica, Cacciaguida pone Dante in una linea di continuità con questi due grandi personaggi, rafforzando l'idea che il suo viaggio sia voluto da Dio per una missione provvidenziale.

Oltre alla dimensione spirituale e profetica, il canto contiene una rievocazione della Firenze del passato, idealizzata da Cacciaguida come una città sobria, moralmente integra e lontana dalla corruzione e dall'avidità che l'hanno travolta nel presente. Dante raccoglie la memoria di un tempo in cui i cittadini conducevano una vita semplice, le donne si dedicavano alla casa e all'educazione dei figli, e la comunità non conosceva il lusso sfrenato né le lotte politiche che avrebbero portato all'esilio dello stesso poeta. Questa Firenze "pura" viene contrapposta a quella contemporanea, ormai decaduta per colpa delle "genti nuove" e della corsa al guadagno facile. Cacciaguida descrive con particolare intensità la corruzione morale delle nuove generazioni, contrapponendo figure nobili dell'antichità, come Cincinnato e Cornelia, a personaggi negativi del tempo, come Cianghella e Lapo Salterello.

Dopo aver tracciato questo affresco della Firenze perduta, Cacciaguida finalmente rivela la propria identità e racconta la sua vita, segnata dalla partecipazione alla Seconda Crociata sotto l'imperatore Corrado III. In quest'episodio emerge la sua figura di cavaliere martire, che ha combattuto per la fede contro gli infedeli, cadendo in battaglia. Con il suo sacrificio, l'avo incarna gli ideali di purezza morale, senso civico e fervore religioso, valori che Dante stesso è chiamato a difendere attraverso la sua opera.

Il parallelismo tra Cacciaguida e Anchise si rafforza nel momento in cui l'avo non solo racconta il passato, ma anche profetizza il futuro di Dante. Nel canto XVII, infatti, Cacciaguida rivelerà al poeta il suo imminente esilio, anticipando le difficoltà e le umiliazioni che dovrà affrontare. Tuttavia, lo esorta a non temere e a rimanere fedele alla sua missione, perché la sua opera diventerà una guida per l'umanità smarrita. In questo modo, il dialogo tra i due assume una valenza universale: non è solo un incontro tra un discendente e il suo antenato, ma un passaggio di testimone tra chi ha vissuto secondo alti ideali e chi è chiamato a tramandarli attraverso la poesia.

L'incontro con Cacciaguida rappresenta, dunque, un momento di profonda consapevolezza per Dante: il suo viaggio non è solo un'esperienza personale, ma una missione voluta da Dio per rivelare agli uomini il loro destino e la necessità di un rinnovamento spirituale e politico. Attraverso il ricordo della Firenze antica, la denuncia della sua corruzione presente e la profezia dell'esilio, il poeta comprende il senso del proprio ruolo e accetta il compito di farsi portavoce di un messaggio di giustizia e redenzione.


Passi Controversi


Nei primi versi, il termine liqua (v. 1) deriva dal latino liqueo, che significa "manifestarsi", ma Dante lo adatta alla prima coniugazione italiana. Nei versi 19-24, si descrive il movimento della luce di Cacciaguida lungo il braccio destro della croce, che scende senza staccarsi, paragonata a una gemma che resta legata al suo nastro. Il termine lista radial si riferisce ai raggi che dividono un cerchio, rappresentando così i bracci della croce che dividono idealmente uno spazio in quattro parti uguali.

Nel verso 24, Dante accenna a una caratteristica dell'alabastro, ovvero la sua capacità di lasciar filtrare la luce. È possibile che il poeta avesse osservato finestre di chiese costruite con questo materiale, che permettevano alla luce solare di attraversarle. Nei versi 25-27 si richiama chiaramente l'episodio dell'Eneide (libro VI, versi 684 e seguenti), dove Enea incontra l'ombra del padre Anchise nei Campi Elisi. La "maggiore musa" citata potrebbe riferirsi a Virgilio o all'alto stile poetico dell'Eneide.

Le espressioni latine nei versi 28-30 si traducono come: "O mio discendente, o immensa grazia divina, a chi come a te è stata aperta due volte la porta del cielo?". Il termine sanguis meus richiama direttamente l'Eneide (VI, 835), mentre altre espressioni, come superinfusa, gratia Dei e celi ianua, derivano dalla Bibbia. La domanda retorica suggerisce che solo san Paolo, prima di Dante, abbia compiuto un viaggio in Paradiso da vivo, un concetto già presente nell'Inferno (canto II, versi 28 e seguenti).

Il "magno volume" menzionato nel verso 50 rappresenta il libro della mente divina, in cui tutto è fissato immutabilmente e dove Cacciaguida ha letto del destino di Dante. Nel verso 55, mei deriva dal latino meare, che significa "procedere" (come in Paradiso, XIII, 55). Al verso 74, la "prima equalità" si riferisce a Dio: i beati possono esprimere a parole ciò che comprendono e sentono, a differenza dei mortali, per i quali questo equilibrio è irraggiungibile.

I versi 91-94 menzionano Alighiero I, bisnonno del poeta e figlio di Cacciaguida, che si trova nella prima cornice del Purgatorio da oltre un secolo. Il suo nome, che darà origine al cognome Alighieri, proviene dalla famiglia della moglie di Cacciaguida, gli Aldighieri (vv. 137-138). Nei versi 97-99 si fa riferimento all'antica cinta muraria di Firenze, costruita tra il IX e il X secolo, molto più ristretta di quella del tempo di Dante, edificata nel 1173. Nel verso 98 viene menzionata la chiesa di Badia, che si trovava presso le vecchie mura e le cui campane scandivano ancora le ore canoniche.

Al verso 101, la parola contigiate potrebbe riferirsi a un capo di vestiario, derivando dal francese antico cointise ("ornamento"), anche se alcuni manoscritti riportano donne contigiate. Nel verso 106, le case sono definite "vuote" non perché abbandonate, ma perché troppo grandi e lussuose rispetto alle reali necessità. Alcuni commentatori vedono qui un riferimento agli esili del periodo dantesco, ma sembra più coerente leggere il passo come una critica al lusso eccessivo della Firenze trecentesca.

Nei versi 109-111, Dante afferma che il monte Uccellatoio, situato vicino a Firenze, non aveva ancora "superato" Monte Mario a Roma, nel senso che gli edifici fiorentini non avevano ancora raggiunto il livello di sfarzo di quelli della capitale. Questa affermazione può essere interpretata come un riferimento all'ascesa e alla successiva corruzione politica e morale di Firenze. Il termine Uccellatoio è un quadrisillabo per trittongo.

Bellincione Berti (v. 112) fu un noto fiorentino del XII secolo e padre di Gualdrada, menzionata nell'Inferno (XVI, 37). Era esponente della famiglia dei Ravignani, anche se le informazioni su di lui sono scarse. Le famiglie Nerli e Vecchietti (v. 115) appartenevano al partito guelfo ed erano illustri ai tempi di Cacciaguida. Nei versi 118-120 si sottolinea come, nell'antica Firenze, le donne non seguissero i mariti in esilio né fossero abbandonate da essi per motivi commerciali.

I versi 124-126 raffigurano le donne fiorentine del passato intente a filare la lana, proprio come le matrone romane. Nella famiglia, intesa anche come comunità di servi, si tramandavano storie sulle origini della città, risalenti a Roma e, ancor prima, a Troia.

Nei versi 129-132, Dante contrappone esempi negativi e positivi: da un lato, Cianghella, donna di vita dissoluta, e Lapo Salterello, giurista corrotto e opportunista; dall'altro, l'integerrimo Quinzio Cincinnato, simbolo di virtù civica, e Cornelia, figlia di Scipione l'Africano e madre dei Gracchi, esempio di onestà femminile. Cornelia, infatti, è annoverata tra gli "spiriti magni" nel Limbo (Inferno, IV).

Il Batisteo menzionato nel verso 134 è San Giovanni Battista, patrono di Firenze (Inferno, XIX, 17; Paradiso, XXV, 8-9); questa forma arcaica della parola fu usata fino al XVI secolo.

Secondo alcuni studiosi, la moglie di Cacciaguida (v. 137) proveniva da Ferrara ed era della famiglia degli Aldighieri. Nel verso 139 si parla dell'"imperador Currado", probabilmente Corrado III di Hohenstaufen (1138-1152), che partecipò alla Seconda Crociata. Tuttavia, alcuni ritengono che Dante si riferisca a Corrado II il Salico (1024-1039), sebbene sia un personaggio vissuto troppo in anticipo rispetto a Cacciaguida. In ogni caso, il verbo andai non implica necessariamente che Cacciaguida abbia seguito l'imperatore come soldato, ma potrebbe riferirsi a qualsiasi altra forma di partecipazione ai suoi eventi.

Fonti: libri scolastici superiori

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