Parafrasi e Analisi: "Canto XXIII" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XXIII del Paradiso di Dante Alighieri affronta il tema della visione della realtà celeste e della conoscenza divina. In questo canto, Dante si confronta con la difficoltà umana di comprendere la vastità della verità divina, mettendo in luce la distanza tra la limitata capacità umana e l'infinita perfezione del divino. Attraverso il dialogo con Beatrice, il poeta esplora la relazione tra la luce della verità e la natura del peccato, continuando la riflessione sulla giustizia di Dio e sull'ordine cosmico che governa l'universo. Il canto, ricco di simbolismo e riflessioni teologiche, rappresenta un momento cruciale nella crescita spirituale di Dante, che si avvicina sempre più alla contemplazione della luce eterna.
Testo e Parafrasi
Come l'augello, intra l'amate fronde, posato al nido de' suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, che, per veder li aspetti disïati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che l'alba nasca; così la donna mïa stava eretta e attenta, rivolta inver' la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta: sì che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual è quei che disïando altro vorria, e sperando s'appaga. Ma poco fu tra uno e altro quando, del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir più e più rischiarando; e Bëatrice disse: «Ecco le schiere del trïunfo di Cristo e tutto 'l frutto ricolto del girar di queste spere!». Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia sì pieni, che passarmen convien sanza costrutto. Quale ne' plenilunïi sereni Trivïa ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid' i' sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l'accendea, come fa 'l nostro le viste superne; e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea. Oh Bëatrice, dolce guida e cara! Ella mi disse: «Quel che ti sobranza è virtù da cui nulla si ripara. Quivi è la sapïenza e la possanza ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra, onde fu già sì lunga disïanza». Come foco di nube si diserra per dilatarsi sì che non vi cape, e fuor di sua natura in giù s'atterra, la mente mia così, tra quelle dape fatta più grande, di sé stessa uscìo, e che si fesse rimembrar non sape. «Apri li occhi e riguarda qual son io; tu hai vedute cose, che possente se' fatto a sostener lo riso mio». Io era come quei che si risente di visïone oblita e che s'ingegna indarno di ridurlasi a la mente, quand' io udi' questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue del libro che 'l preterito rassegna. Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimnïa con le suore fero del latte lor dolcissimo più pingue, per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; e così, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. Ma chi pensasse il ponderoso tema e l'omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott' esso trema: non è pareggio da picciola barca quel che fendendo va l'ardita prora, né da nocchier ch'a sé medesmo parca. «Perché la faccia mia sì t'innamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo s'infiora? Quivi è la rosa in che 'l verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino». Così Beatrice; e io, che a' suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei a la battaglia de' debili cigli. Come a raggio di sol, che puro mei per fratta nube, già prato di fiori vider, coverti d'ombra, li occhi miei; vid' io così più turbe di splendori, folgorate di sù da raggi ardenti, sanza veder principio di folgóri. O benigna vertù che sì li 'mprenti, sù t'essaltasti, per largirmi loco a li occhi lì che non t'eran possenti. Il nome del bel fior ch'io sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse l'animo ad avvisar lo maggior foco; e come ambo le luci mi dipinse il quale e il quanto de la viva stella che là sù vince come qua giù vinse, per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona, e cinsela e girossi intorno ad ella. Qualunque melodia più dolce suona qua giù e più a sé l'anima tira, parrebbe nube che squarciata tona, comparata al sonar di quella lira onde si coronava il bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s'inzaffira. «Io sono amore angelico, che giro l'alta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro; e girerommi, donna del ciel, mentre che seguirai tuo figlio, e farai dia più la spera supprema perché lì entre». Così la circulata melodia si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria. Lo real manto di tutti i volumi del mondo, che più ferve e più s'avviva ne l'alito di Dio e nei costumi, avea sopra di noi l'interna riva tanto distante, che la sua parvenza, là dov' io era, ancor non appariva: però non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma che si levò appresso sua semenza. E come fantolin che 'nver' la mamma tende le braccia, poi che 'l latte prese, per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; ciascun di quei candori in sù si stese con la sua cima, sì che l'alto affetto ch'elli avieno a Maria mi fu palese. Indi rimaser lì nel mio cospetto, 'Regina celi' cantando sì dolce, che mai da me non si partì 'l diletto. Oh quanta è l'ubertà che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua giù buone bobolce! Quivi si vive e gode del tesoro che s'acquistò piangendo ne lo essilio di Babillòn, ove si lasciò l'oro. Quivi trïunfa, sotto l'alto Filio di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con l'antico e col novo concilio, colui che tien le chiavi di tal gloria. |
Come l'uccello tra i suoi amati rami, dopo aver riposato nel nido dei suoi piccoli nella notte buia che ci rende oscure le cose, che, per vedere i suoi amati figli e per cercare il cibo con cui nutrirli, lavoro che gli risulta gradito seppur faticoso, anticipa il tempo posandosi su un ramo scoperto e con impaziente desiderio attende il Sole guardando fisso che nasca l'alba; così la mia Beatrice stava dritta e attenta rivolta verso quella parte del cielo sotto la quale il Sole sembra rallentarsi: cosicché, vedendola io assorta e ansiosa, divenni come colui che, desiderando qualcosa che non ha, sperando di ottenerlo, appaga il suo desiderio. Ma trascorse poco tempo tra i due momenti, tra la mia attesa, intendo, e il vedere il cielo schiarirsi a poco a poco sempre di più; e Beatrice disse: "Ecco le anime redenti che celebrano il trionfo di Cristo e costituiscono il frutto delle influenze celesti di questi cieli rotanti!" Mi sembrò che il suo viso tutto si infiammasse, e aveva gli occhi così pieni di gioia, che è necessario passare avanti senza farne parola. Così come nelle serene notti di luna piena la luna (Trivia) sorride tra le altre stelle eterne che in ogni angolo illuminano il cielo, vidi sopra migliaia di anime luminose una luce che tutte quante le altre illuminava, come il nostro (Sole) accende le stelle; e attraverso la vivida luce traspariva la sorgente luminosa così tanto chiara, per i miei occhi, che non riuscivano a sostenerla. O Beatrice, mia dolce cara guida! Ella mi disse: "Ciò che ti sopraffà è una virtù da cui nulla può ripararsi. Questa è la sapienza e la potenza che aprì la strada tra cielo e terra, della quale ci fu già una lunga attesa". Come il lampo si sprigiona dalla nuvola accrescendosi tanto da non entrare più nella nube, e, uscendo dalla sua natura arriva sulla terra, così la mia mente, accresciutasi con quei cibi spirituali, uscì da sé stessa, cosicché non so ricordare che successe dopo. "Apri gli occhi e guarda cosa sono io: tu hai visto cose tali che ti sei fatto potente abbastanza da sostenere il mio riso". Io ero come colui che ritorna in sé dopo una visione già dimenticata e che si ingegna invano per riportarla alla mente, quando udii questa proposta degna di tanta gratitudine, che non potrà mai cancellarsi dal libro che registra il passato (della memoria). Se adesso suonassero tutte le lingue che Polimnia con le sue sorelle (Muse della poesia) usarono, rendendole più ricche con la loro ispirazione, per venirmi in aiuto, non arriveremmo a descrivere che la millesima parte della realtà, parlando del santo sorriso e di quanto faceva risplendere il suo santo aspetto; e così, descrivendo il paradiso, è necessario che il sacro poema salti alcuni particolari, come chi trova il suo cammino ostacolato. Ma chi considerasse il tema difficile e le spalle mortali che se ne fanno carico, non biasimerebbe quest'ultimo se cede sotto il peso: non è adatta a una piccola barca ciò che l'ardita nave del mio ingegno va affrontando, né ad un timoniere che voglia risparmiare le proprie forze. "Perché il mio viso ti attrae a sé, cosicché tu non ti giri verso i cori dei beati che fioriscono sotto i raggi di Cristo? Qui c'è la Vergine (rosa) in cui la parola divina si fece carne; qui ci sono i beati (gigli) che invitano a seguire la strada della santità". Così disse Beatrice; e io che ero ben disposto verso i suoi consigli, ritornai ad affrontare la prova per i miei deboli occhi. Come i miei occhi, protetti dall'ombra videro un prato di fiori illuminato da un raggio solare filtrante limpido da uno squarcio nella nuvola; così io vidi diversi gruppi di anime splendenti, folgorate dall'alto da raggi ardenti, senza vederne però la fonte di luce. O benigna virtù (Cristo) che riempi di luce i beati, ti sollevasti verso l'Empireo, per far spazio ai miei occhi incapaci di sostenere la tua luminosità. Il nome del bel fiore (Maria) che io sempre invoco sia di mattina sia di sera, tutto mi raccolse l'animo per distinguere la luce più intensa. E non appena mi si impresse in entrambi gli occhi l'intensità e la quantità della vivida stella che lassù supera i beati in splendore, come quaggiù in virtù, attraverso il cielo scese una fiaccola, che aveva forma circolare come di una corona, e la circondò girando intorno a lei. Qualunque melodia più dolce che suoni quaggiù sulla Terra e che attragga a sé l'anima, sembrerebbe una nube squarciata da un tuono, comparata al suono di quel canto dell'angelo che di sé faceva corona alla gemma più preziosa (la Vergine) di cui l'Empireo si adorna rischiarandosi di luce. "Io sono angelo ardente di carità, che circondo roteando la creatura eletta della quale il ventre fu dimora di Cristo, nostro desiderio; e continuerò a girare, donna del cielo fino a che tu tornerai, seguendo tuo figlio, all'Empireo e renderai più fulgida la sfera suprema poiché ci entri". Così terminava il canto emesso da quella luce circolare e rotante, e tutte le altre anime facevano risuonare il nome di Maria. Il nono di tutti i cieli che come un mantello avvolge il mondo e che arde e più si ravviva nello spirito di Dio e nelle sue leggi, aveva la sua superficie concava tanto distante sopra di noi, che la sua sembianza, dal punto in cui ero, ancora non mi era visibile: perciò i miei occhi non ebbero la potenza di seguire la fiamma coronata di Maria che si elevò verso suo figlio (all'Empireo). E come un bambino che verso la mamma tende le braccia, dopo aver preso il latte, per l'affetto che impulsivamente si manifesta; così ciascuna di quelle luci si protese verso l'alto con la sua fiamma, cosicché tutto l'amore che queste provavano per Maria mi fu chiaro. Quindi rimasero lì al mio cospetto, cantando così dolcemente "Regina Celi", che mai riuscì a dimenticare il diletto che mi provocarono. Oh quanto è grande la beatitudine che risplende in quelle anime santissime che furono sulla terra abili seminatrici di bene! In paradiso si vive e si gode dei meriti che si hanno accumulati durante l'esilio terreno e disprezzando le ricchezze fallaci. In paradiso trionfa con il figlio di Dio e con Maria, per la propria vittoria sul peccato, con l'Antico e col Nuovo Testamento, colui che tiene le chiavi di quel regno glorioso (Pietro). |
Riassunto
Nel Canto 23, Dante si trova ancora nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse, dove il poeta descrive il trionfo di Cristo e l'apparizione delle schiere di beati che Lo accompagnano.
vv. 1-15 L'Attesa di Beatrice
Beatrice, visibilmente ansiosa, osserva il Cielo in attesa di qualcosa. Dante la paragona a un uccello che aspetta l'alba per volare alla ricerca di cibo per i suoi piccoli. Il poeta è curioso, ma si limita ad aspettare in silenzio, confidando che presto comprenderà il motivo di tale attesa.
vv. 16-45 Il trionfo di Cristo
Poco dopo, il Cielo si illumina e Beatrice annuncia l'arrivo di Cristo in trionfo. Dante vede una luce immensa, simile a quella di mille stelle che circondano la luna in una notte serena, ma la luce è ancora più intensa. In mezzo a questa luce, scorge la figura di Cristo, che supera la sua capacità visiva. Beatrice gli spiega che questa visione rappresenta Colui che, con la sua morte, ha riaperto la strada tra il Cielo e la Terra. La mente di Dante si distacca da sé, come un fulmine che esce dalla nube, e il poeta non è in grado di esprimere pienamente ciò che sta vivendo.
vv. 46-69 Il sorriso ineffabile di Beatrice
Dante, ormai capace di sostenere il sorriso di Beatrice dopo la visione di Cristo, la guarda con grande piacere. Desidera descrivere il sorriso della donna, ma si rende conto che anche con l'aiuto delle Muse non potrebbe mai rappresentarlo pienamente. Questo è il punto in cui la sua poesia si ferma, poiché il tema è così alto che la parola umana non è in grado di coglierlo. Dante ammette che la sua opera poetica sta affrontando un tratto di mare sconosciuto e difficile, ma sente di affrontarlo con coraggio.
vv. 70-87 Le anime dei beati illuminate da Cristo
Beatrice invita Dante a spostare lo sguardo dal suo volto e a osservare l'immensa bellezza del Cielo delle Stelle Fisse. Quello che Dante vede è un giardino fiorito sotto i raggi di Cristo, dove sono riunite le anime dei beati, tra cui Maria e gli Apostoli. Ogni anima è illuminata da una luce che proviene da Cristo, e l'intero spettacolo è reso ancora più splendente dalla presenza del Salvatore. Beatrice spiega che Cristo si è innalzato per permettere a Dante di vedere tutto ciò, poiché la sua vista umana non sarebbe stata in grado di sostenere un tale splendore.
vv. 88-111 Il trionfo di Maria e l'arcangelo Gabriele
Dante concentra lo sguardo su Maria, la "rosa" in cui Cristo si è incarnato, e vede una luce intensa che la circonda. Poco dopo, l'arcangelo Gabriele scende dal Cielo con una corona di luce e inizia a cantare una melodia dolcissima. Gabriele esprime il suo amore per Maria, sottolineando che nel suo grembo è nato Gesù. Con grande gioia, l'arcangelo promette di continuare a seguirla finché non ascenderà nell'Empireo, rendendo quella parte del Cielo ancora più splendida. I beati si uniscono a lui nel cantare il nome di Maria, riconoscendo la sua centralità e la sua gloria.
vv. 112-139 L'ascesa di Cristo e Maria verso l'Empireo e l'apparizione di San Pietro
Mentre Maria e Cristo salgono all'Empireo, le anime dei beati si protendono verso l'alto, manifestando il loro affetto per loro come un bambino appena allattato tende le braccia verso la madre. I beati, pieni di gioia, cantano il "Regina celi", un inno di felicità che tocca profondamente Dante. L'intero Cielo è illuminato dalla beatitudine di quelle anime che, sulla Terra, avevano seminato il bene e ora, in Cielo, raccolgono i frutti della loro virtù. Alla fine del Canto, San Pietro appare, celebrando il suo trionfo sui beni mondani. Cristo gli ha dato le chiavi del Paradiso e ora Pietro si unisce ai beati nel godere della felicità eterna. Con il suo trionfo, Pietro prepara il terreno per il prossimo esame a cui Dante sarà sottoposto, segnando l'inizio di una nuova fase del viaggio.
Figure Retoriche
vv. 1-11: "Come l'augello, intra l'amate fronde, posato al nido de' suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, che, per veder li aspetti disiati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che l'alba nasca; così la donna mia stava eretta e attenta, rivolta inver' la plaga": Similitudine.
v. 3: "La notte che le cose ci nasconde": Personificazione. Per dire che non si vede bene nel buio della notte.
v. 8: "Ardente affetto ... aspetta": Allitterazione della T.
v. 9: "Fiso guardando": Anastrofe.
vv. 11-12: "La plaga sotto la quale il sol mostra men fretta": Perifrasi. Per indicare la parte meridiana del Cielo, verso mezzogiorno.
v. 10: "La donna mia": Perifrasi e Anastrofe. Per indicare Beatrice.
vv. 10-11: "Eretta e attenta": Endiadi.
v. 13: "Sospesa e vaga": Endiadi.
vv. 14-15: "Fecimi qual è quei che disiando altro vorria, e sperando s'appaga": Similitudine.
vv. 20-21: "'l frutto / ricolto": Enjambement.
v. 23: "E li occhi avea": Anastrofe.
v. 24: "Di letizia sì pieni": Anastrofe.
vv. 25-30: "Quale ne' plenilunii sereni Trivia ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid'i' sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l'accendea, come fa 'l nostro le viste superne": Similitudine.
v. 26: "Trivia ride": Personificazione. Usa il verbo rise perché in precedenza il sorriso di Beatrice creava un forte bagliore.
v. 29: "Un sol": Perifrasi. Per indicare Cristo.
v. 32: "Lucente sustanza": Perifrasi e Anastrofe. Per indicare la figura umana di Cristo.
v. 33: "Viso mio": Anastrofe.
v. 34: "Dolce e cara": Dittologia.
v. 37: "La sapienza e la possanza": Perifrasi. Per indicare Cristo.
vv. 40-45: "Come foco di nube si diserra per dilatarsi sì che non vi cape, e fuor di sua natura in giù s'atterra, la mente mia così, tra quelle dape fatta più grande, di sé stessa uscìo, e che si fesse rimembrar non sape": Similitudine.
v. 43: "Mente mia": Anastrofe.
v. 48: "Lo riso mio": Anastrofe.
vv. 49-51: "Io era come quei che si risente di visione oblita e che s'ingegna indarno di ridurlasi a la mente": Similitudine.
v. 54: "Libro che 'l preterito rassegna": Perifrasi. Per indicare la memoria.
vv. 59-60: "Cantando santo quanto santo aspetto": Allitterazione della T.
v. 62: "Sacrato poema": Anastrofe.
vv. 61-63: "Figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso": Similitudine.
v. 65: "L'omero": Metonimia. Il contenente per il contenuto, l'osso omero anziché la spalla.
v. 70: "Faccia mia": Anastrofe.
v. 71: "Bel giardino": Perifrasi. Per indicare la schiera dei beati.
v. 72: "Che sotto i raggi di Cristo s'infiora": Anastrofe.
v. 73: "La rosa": Perifrasi. Per indicare la vergine Maria.
v. 74: "Carne si fece": Anastrofe.
v. 74: "Li gigli": Perifrasi. Per indicare gli apostoli.
v. 78: "Cigli": Sineddoche. La parte per il tutto, le ciglia anziché gli occhi.
vv. 79-84: "Come a raggio di sol che puro mei per fratta nube, già prato di fiori vider, coverti d'ombra, li occhi miei; vid'io così più turbe di splendori, folgorate di sù da raggi ardenti, sanza veder principio di folgóri": Similitudine.
v. 81: "Occhi miei": Anastrofe.
v. 85: "O benigna vertù": Apostrofe.
v. 88: "Il nome del fior": Perifrasi. Per indicare il nome Maria.
v. 90: "Lo maggior foco": Perifrasi. Per indicare la vergine Maria.
v. 91: "Le luci": Analogia. Per indicare gli occhi.
vv. 94-95: "Una facella, formata in cerchio": Perifrasi. Per indicare l'arcangelo Gabriele.
v. 95: "A guisa di corona": Similitudine.
vv. 97-100: "Qualunque melodia più dolce suona qua giù e più a sé l'anima tira, parrebbe nube che squarciata tona, comparata al sonar di quella lira": Similitudine.
v. 100: "Quella lira": Perifrasi. Per indicare il canto dell'arcangelo Gabriele.
v. 101: "Il bel zaffiro": Perifrasi. Per indicare Maria.
v. 102: "Il ciel più chiaro": Perifrasi. Per indicare l'Empireo.
v. 105: "Nostro disiro": Perifrasi. Per indicare Gesù Cristo.
v. 108: "La spera suprema": Perifrasi. Per indicare l'Empireo.
vv. 112-113: "Lo real manto di tutti i volumi del mondo": Perifrasi. Per indicare il Primo Mobile.
v. 118: "Li occhi miei": Anastrofe.
v. 119: "La coronata fiamma": Perifrasi. Per indicare Maria con intorno l'arcangelo Gabriele.
v. 120: "Sua semenza": Perifrasi. Per indicare il suo seme, figlio, Gesù.
vv. 121-125: "E come fantolin che 'nver' la mamma tende le braccia, poi che 'l latte prese, per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; ciascun di quei candori in sù si stese con la sua cima": Similitudine.
vv. 130-132: "Oh quanta è l'ubertà che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua giù buone bobolce!": Esclamazione.
v. 131: "Arche ricchissime": Perifrasi. Per indicare le anime dei beati.
vv. 134-135: "Essilio / di Babillòn": Enjambement.
v. 139: "Colui che tien le chiavi di tal gloria": Perifrasi. Per indicare san Pietro.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto inaugura la terza e ultima parte della Divina Commedia, che si concentra sulla descrizione dei tre cieli più alti del Paradiso: le Stelle Fisse, il Primo Mobile e l'Empireo. In questo contesto, Dante si prepara a vivere la visione finale di Dio, un impegno poetico che aveva anticipato nel Canto precedente, con un'invocazione alla costellazione dei Gemelli e una preghiera per il supporto necessario ad affrontare l'ultimo tratto del viaggio. L'episodio è incentrato sul trionfo di Cristo e dei beati, con una particolare enfasi sulla figura di Maria, che è legata a Cristo dal rapporto madre-figlio, e che occupa un posto centrale nel Canto.
L'immagine iniziale è quella di Beatrice che attende con ansia l'arrivo dei beati, descritta come un uccello-madre che aspetta il sorgere del sole per nutrire i suoi piccoli, un'immagine già usata in precedenza per evocare il suo atteggiamento materno. Alla fine del Canto, i beati si protendono verso Maria, che ascende verso l'Empireo, descritti come bambini che allungano le braccia verso la madre dopo essere stati nutriti. Beatrice presenta Maria come la "rosa" in cui il Verbo divino si è incarnato, mentre l'arcangelo Gabriele la descrive come il "ventre" che ha accolto il nostro desiderio di salvezza, sottolineando il suo legame profondo con Gesù e il suo ruolo centrale tra gli abitanti del Paradiso. Questi paragoni sono semplici e umili, in netto contrasto con l'atmosfera solenne che permea l'episodio, centrato sul trionfo di Cristo, che ha liberato i beati dalla dannazione e ora li presenta come un trofeo, irradiando su di loro una luce così intensa da renderli invisibili agli occhi di Dante.
Il trionfo di Cristo è seguito da quello di Maria, che viene incoronata dall'arcangelo Gabriele, che la circonda di luce e intona un dolce inno a lei. Più tardi, i beati canteranno il Regina Coeli, che Dante può ascoltare di nuovo, così come può tornare a vedere il sorriso di Beatrice, dopo aver visto la figura umana di Cristo e il silenzio dei Canti precedenti. Nella descrizione di Maria e dei beati, Dante utilizza la metafora liturgica della rosa mistica, usata nelle litanie per indicare la Vergine. Gli altri termini che usa per descrivere il Paradiso sono anche legati al linguaggio mistico e scritturale, come la definizione dell'VIII Cielo come un "bel giardino" che fiorisce sotto i raggi di Cristo, o la comparazione degli Apostoli a gigli che orientano l'umanità sulla via giusta.
La descrizione di Maria è arricchita da altri paragoni delicati, come "viva stella" e "bel zaffiro", che evidenziano il culto mariano che Dante nutre e che raggiunge il suo culmine nell'invocazione che apre il Canto XXXIII. La stessa Maria, infatti, era stata la causa iniziale del viaggio di Dante nell'Oltretomba, grazie al suo intervento su Santa Lucia e Beatrice, che avevano interceduto per lui.
Un altro tema cruciale del Canto è il "trasumanar" di Dante, il suo superamento dell'umano in seguito alla visione di Cristo, che gli permette di vedere nuovamente il sorriso di Beatrice e di ascoltare il canto dei beati. Dante lo descrive attraverso una similitudine, paragonando la sua elevazione a quella di un fulmine che si libera dalla nube e cade a terra, in contrasto con la sua natura. L'innalzamento spirituale di Dante è accompagnato dall'impossibilità di esprimere tale esperienza con le parole, una difficoltà che diventa sempre più evidente nei Canti finali del Paradiso. La poesia, infatti, deve rinunciare a descrivere alcune esperienze troppo elevate per le capacità umane, come l'intensità dello sguardo di Beatrice o la figura di Cristo, che sfuggono all'arte poetica.
La difficoltà di esprimere l'infinito si riflette anche nella descrizione del canto dell'arcangelo Gabriele, che sembra sorpassare ogni melodia terrena. Le anime dei beati sono paragonate a ricchissime arche, che contengono tesori spirituali ben più preziosi di quelli materiali lasciati sulla Terra. Dante conclude con un'immagine della vita terrena come esilio, che rimanda alle Scritture e alla tradizione mistica. L'episodio si chiude con l'apparizione di San Pietro, figura che primeggia tra i beati e che simboleggia la vittoria sulla mondanità, avendo ricevuto da Cristo il compito di fondare la Chiesa. San Pietro, protagonista del Canto seguente, metterà Dante alla prova sulla sua fede, mentre in Canto XXVII si scaglierà contro i papi corrotti, anticipando l'ascesa di Dante e Beatrice al Primo Mobile e la conclusione della parte del Paradiso dedicata al Cielo delle Stelle Fisse.
Passi Controversi
I versi 1-3, che descrivono l'uccello in attesa dell'alba su un ramo spoglio, saranno ripresi da Poliziano nelle Stanze per la giostra (I, 60): "La notte che le cose ci nasconde / tornava ombrata di stellato ammanto, / e l'usignuol sotto l'amate fronde / cantando ripetea l'antico pianto...". La zona menzionata nei vv. 11-12, sotto cui il Sole appare più lento, è probabilmente quella del mezzogiorno, il punto più alto della volta celeste; Beatrice osserva quel luogo perché sta aspettando l'arrivo di Cristo e dei beati.
Al v. 16, quando il termine è un sostantivo, indica "tempo" o "momento". I vv. 20-21 suggeriscono che i beati rappresentano il frutto delle influenze celesti ricevute sulla Terra e trasformate in buone azioni, ma alcuni interpretano queste parole come il raccogliere i beati nell'VIII Cielo dopo essere stati sparsi tra gli altri Cieli, mentre altri ancora riferiscono "frutto" a Dante, che raccoglie i frutti della sua ascesa. La similitudine nei vv. 25-27 richiama la figura di Trivia, la Luna, che nella mitologia romana veniva identificata con Diana, e che nelle notti di plenilunio risplende serenamente tra le stelle, come Cristo illumina i beati con il suo splendore.
Al v. 30, le "viste superne" sono le stelle, che al tempo di Dante si pensava fossero illuminate dal Sole (cfr. XX, 6). Al v. 32, la "lucente sustanza" è la figura umana di Cristo, che Dante intravede attraverso la sua luce. Al v. 43, il termine dape (cibo) è un latinismo con questa unica occorrenza nel poema. L'immagine della mente di Dante che si dilata fino a uscire da se stessa (vv. 40-45) richiama l'esperienza mistica dell'excessus mentis, in cui l'anima, rapita da Dio, espande la propria visione senza difficoltà. La visione "oblita" nel v. 50 è la figura di Cristo, che Dante non riesce a ricordare chiaramente. Il "libro che 'l preterito rassegna" (v. 54) è il libro della memoria. Al v. 56, Polimnia, la Musa della poesia lirica, il cui nome greco significa "dai molti inni", è citata, mentre al v. 57 pingue è il plurale femminile riferito alle lingue. L'immagine della poesia come nutrimento, già usata in Purgatorio (XXII, 101-102), appare qui con l'idea del latte che deve alimentare i poeti. Al v. 67, pareggio significa "lungo e difficile tratto di mare", anche se alcuni manoscritti leggono pileggio.
Nei vv. 73-75, la "rosa" rappresenta Maria, mentre i "gigli" simboleggiano gli Apostoli. Al v. 79, mei (trapassi) è un latinismo (derivato da meare, già utilizzato in XIII, 55). Il v. 93 indica che la luce di Maria supera quella degli altri beati in Cielo, come sulla Terra Maria ha prevalso per la sua virtù. Al v. 107, dia significa "divina", nel senso di "splendente" (cfr. XIV, 34). La "spera supprema" (v. 108) è l'Empireo, dove Maria ascende per seguire Cristo, mentre il "real manto" (v. 112) è il Primo Mobile, che avvolge tutti gli altri Cieli.
Al v. 132, bobolce (dal latino bubulcus, "bifolco") si riferisce alle anime dei beati come lavoratori che coltivano il bene sulla Terra; un'interpretazione alternativa suggerisce che si tratti di "terre da arare", anche se quest'ipotesi è meno probabile. Infine, l'"antico e nuovo concilio" (v. 138) si riferisce alle schiere dei beati dei Vecchio e Nuovo Testamento, e il v. 139 fa riferimento a san Pietro.
Fonti: libri scolastici superiori