Parafrasi e Analisi: "Canto XXII" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XXII del Paradiso segna una tappa fondamentale nell'ascesa di Dante attraverso i cieli della beatitudine, conducendolo verso una comprensione sempre più profonda della perfezione divina. In questo passaggio, il poeta esplora il rapporto tra la dimensione terrena e quella celeste, evidenziando come l'anima, purificata e liberata dai vincoli materiali, possa elevarsi verso una visione più luminosa della verità. Il canto si caratterizza per una forte tensione mistica e contemplativa, con riflessioni sulla caducità della vita mortale e sull'armonia dell'ordine divino. Il linguaggio poetico si fa ancora più elevato, esprimendo la meraviglia dell'intelletto umano di fronte all'immensità del creato e alla giustizia superiore che governa l'universo.
Testo e Parafrasi
Oppresso di stupore, a la mia guida mi volsi, come parvol che ricorre sempre colà dove più si confida; e quella, come madre che soccorre sùbito al figlio palido e anelo con la sua voce, che 'l suol ben disporre, mi disse: «Non sai tu che tu se' in cielo? e non sai tu che 'l cielo è tutto santo, e ciò che ci si fa vien da buon zelo? Come t'avrebbe trasmutato il canto, e io ridendo, mo pensar lo puoi, poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto; nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi, già ti sarebbe nota la vendetta che tu vedrai innanzi che tu muoi. La spada di qua sù non taglia in fretta né tardo, ma' ch'al parer di colui che disïando o temendo l'aspetta. Ma rivolgiti omai inverso altrui; ch'assai illustri spiriti vedrai, se com' io dico l'aspetto redui». Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che 'nsieme più s'abbellivan con mutüi rai. Io stava come quei che 'n sé repreme la punta del disio, e non s'attenta di domandar, sì del troppo si teme; e la maggiore e la più luculenta di quelle margherite innanzi fessi, per far di sé la mia voglia contenta. Poi dentro a lei udi': «Se tu vedessi com' io la carità che tra noi arde, li tuoi concetti sarebbero espressi. Ma perché tu, aspettando, non tarde a l'alto fine, io ti farò risposta pur al pensier, da che sì ti riguarde. Quel monte a cui Cassino è ne la costa fu frequentato già in su la cima da la gente ingannata e mal disposta; e quel son io che sù vi portai prima lo nome di colui che 'n terra addusse la verità che tanto ci soblima; e tanta grazia sopra me relusse, ch'io ritrassi le ville circunstanti da l'empio cólto che 'l mondo sedusse. Questi altri fuochi tutti contemplanti uomini fuoro, accesi di quel caldo che fa nascere i fiori e ' frutti santi. Qui è Maccario, qui è Romoaldo, qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo». E io a lui: «L'affetto che dimostri meco parlando, e la buona sembianza ch'io veggio e noto in tutti li ardor vostri, così m'ha dilatata mia fidanza, come 'l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant' ell' ha di possanza. Però ti priego, e tu, padre, m'accerta s'io posso prender tanta grazia, ch'io ti veggia con imagine scoverta». Ond' elli: «Frate, il tuo alto disio s'adempierà in su l'ultima spera, ove s'adempion tutti li altri e 'l mio. Ivi è perfetta, matura e intera ciascuna disïanza; in quella sola è ogne parte là ove sempr' era, perché non è in loco e non s'impola; e nostra scala infino ad essa varca, onde così dal viso ti s'invola. Infin là sù la vide il patriarca Iacobbe porger la superna parte, quando li apparve d'angeli sì carca. Ma, per salirla, mo nessun diparte da terra i piedi, e la regola mia rimasa è per danno de le carte. Le mura che solieno esser badia fatte sono spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria. Ma grave usura tanto non si tolle contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto che fa il cor de' monaci sì folle; ché quantunque la Chiesa guarda, tutto è de la gente che per Dio dimanda; non di parenti né d'altro più brutto. La carne d'i mortali è tanto blanda, che giù non basta buon cominciamento dal nascer de la quercia al far la ghianda. Pier cominciò sanz' oro e sanz' argento, e io con orazione e con digiuno, e Francesco umilmente il suo convento; e se guardi 'l principio di ciascuno, poscia riguardi là dov' è trascorso, tu vederai del bianco fatto bruno. Veramente Iordan vòlto retrorso più fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder che qui 'l soccorso». Così mi disse, e indi si raccolse al suo collegio, e 'l collegio si strinse; poi, come turbo, in sù tutto s'avvolse. La dolce donna dietro a lor mi pinse con un sol cenno su per quella scala, sì sua virtù la mia natura vinse; né mai qua giù dove si monta e cala naturalmente, fu sì ratto moto ch'agguagliar si potesse a la mia ala. S'io torni mai, lettore, a quel divoto trïunfo per lo quale io piango spesso le mie peccata e 'l petto mi percuoto, tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quant' io vidi 'l segno che segue il Tauro e fui dentro da esso. O glorïose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, con voi nasceva e s'ascondeva vosco quelli ch'è padre d'ogne mortal vita, quand' io senti' di prima l'aere tosco; e poi, quando mi fu grazia largita d'entrar ne l'alta rota che vi gira, la vostra regïon mi fu sortita. A voi divotamente ora sospira l'anima mia, per acquistar virtute al passo forte che a sé la tira. «Tu se' sì presso a l'ultima salute», cominciò Bëatrice, «che tu dei aver le luci tue chiare e acute; e però, prima che tu più t'inlei, rimira in giù, e vedi quanto mondo sotto li piedi già esser ti fei; sì che 'l tuo cor, quantunque può, giocondo s'appresenti a la turba trïunfante che lieta vien per questo etera tondo». Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante; e quel consiglio per migliore approbo che l'ha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo. Vidi la figlia di Latona incensa sanza quell' ombra che mi fu cagione per che già la credetti rara e densa. L'aspetto del tuo nato, Iperïone, quivi sostenni, e vidi com' si move circa e vicino a lui Maia e Dïone. Quindi m'apparve il temperar di Giove tra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaro il varïar che fanno di lor dove; e tutti e sette mi si dimostraro quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo. L'aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom' io con li etterni Gemelli, tutta m'apparve da' colli a le foci; poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. |
Sopraffatto dallo stupore, a Beatrice mia guida mi rivolsi, come un fanciullo che sempre corre dalla madre in cui confida maggiormente; e lei come una madre, che aiuta subito il figlio impaurito e ansimante con la sua voce che suole infondergli coraggio, mi disse: " Non sai tu che sei in Paradiso? E non sai tu che quassù è tutto santo, e ciò che qui si fa deriva dal desiderio d'amore? Adesso puoi capire come ti avrebbero sopraffatto il canto dei beati e la mia risata, dal momento che il solo grido ti ha sconvolto; nel quale (grido) se avessi inteso le sue parole, già conosceresti la vendetta divina contro i cattivi pastori che vedrai prima di morire. Il castigo divino non giunge né troppo presto né troppo tardi, fuorché nel parere di colui che desiderandolo o temendolo lo aspetta. Ma girati a guardare le altre anime; poiché vedrai molti spiriti illustri, se, come io ti dico, rivolgi lo sguardo". Come volle lei, girai lo sguardo, e vidi cento sfere che reciprocamente si abbellivano tutte insieme con i loro fulgori. Io stavo come colui che trattiene dentro di sé lo stimolo del desiderio, e non osavo domandare, tanto era il mio timore; e la più grande e splendente di quelle gemme si fece avanti, per dirmi chi era, saziando la mia curiosità. Quindi udii da lei: "Se tu potessi vedere, come la vedo io, la carità che arde dentro di noi, avresti già espresso liberamente il tuo pensiero. Ma perché tu, indugiando, non tardi a raggiungere la meta finale del tuo viaggio, io risponderò alla domanda soltanto pensata, dato che temi di esprimerla. Quel monte sulle cui pendici sorge Cassino fu abitato fin sulla cima un tempo da gente pagana e poco disposta a convertirsi; e io sono colui che per primo portò lassù il nome di Cristo che in Terra rivelò la verità che ci avvicina al cielo, innalzandoci; e tanta grazia brillò su di me, che io liberai i borghi circostanti dal culto falso che aveva ingannato il mondo. Queste altre anime contemplanti furono uomini, infiammati da quell'ardore che fa nascere i pensieri celesti e le opere più pie. Qui c'è Macario, qui c'è Romualdo, questi sono i miei fratelli che vissero con fermezza e coerenza dentro i monasteri del mio ordine". E io a lui: "L'amore che dimostri parlando con me, e l'aspetto benigno che vedo e noto in tutti voi che ardete di carità, mi ha riempito così di fiducia come fa la rosa che si apre al sole e dimostra tutta la sua bellezza. perciò ti prego, e tu, padre, accertati che io sia degno di ricevere tanta grazia, che io ti veda la tua figura scoperta dalla luce". Per cui egli: "Fratello, il tuo solenne desiderio sarà soddisfatto nell'ultimo cielo (Empireo), dove si compiono tutti i desideri e anche il mio (di compiacerti). Là ciascun desiderio è compiuto, maturato e interamente realizzato; solo in quel cielo ogni parte sta dov'era dall'eternità, perché non si estende nello spazio fisico e non ha i poli; e questa nostra scala sale fin lassù, per cui la sua cima si sottrae alla tua vista. Fin lassù il patriarca Giacobbe la vide (la scala) porgere la sua cima, quando gli apparve così carica di angeli in sogno. Ma, adesso, per salirla, nessuno alza i piedi da terra e la regola del mio ordine è rimasta inascoltata rimanendo solo come spreco la carta su cui fu scritta. Le mura che erano solite ospitare monaci santi sono diventate grotte infami, e le tonache monacali sono (diventate) sacchi di farina guasta. Ma neppure l'usura tanto non si erge contro la volontà di Dio, quanto quell'avidità che rende così folle il cuore dei monaci; poiché tutto ciò che la Chiesa custodisce, tutto è della gente povera che invoca Dio; non è beneficio dei parenti o delle concubine dei chierici. La natura umana è tanto debole, che giù sulla Terra un buon proposito non dura tanto tempo quanto dalla ghianda nasca una quercia. Pietro fondò la Chiesa senza oro né argento, e io con preghiera e digiuno, e Francesco fondò con umiltà il suo ordine. E se guardi le origini di ciascun ordine religioso, e poi consideri quanto ciascuno se ne sia allontanato, tu vedrai che niente è rimasto come prima. Tuttavia far cambiare il corso del fiume Giordano e far aprire le acque del Mar Rosso, quando volle Dio, fu più mirabile di quanto sarà l'intervento divino in questa situazione". Così mi disse, e poi si ritirò alla sua compagnia di anime, che si strinsero in un solo gruppo; poi come un turbine salì roteando. La dolce Beatrice mi spinse allora a seguirle per quella scala con un amorevole gesto, così la sua virtù vinse la mia natura umana; e sulla Terra dove si sale e si scende con forze naturali, mai ci fu un movimento così veloce da potersi uguagliare al mio volo. Possa io tornare, o lettore, a quel devoto trionfo celeste per il quale io piango spesso i miei peccati e mi percuoto il petto (faccio penitenza), tu non saresti stato in grado di mettere il dito nel fioco e toglierlo, per il calore, in così poco tempo quanto quello in cui io raggiunsi la costellazione dei Gemelli. O gloriose stelle, o luci impregnate di grande virtù, da cui io riconosco aver ricevuto tutto il mio ingegno, quale che esso sia, nasceva ed era congiunto con voi il sole, padre di ogni vita mortale, quando io per la prima volta respirai l'aria toscana; e poi, quando mi fu concessa la grazia di salire al cielo che voi occupate girando, mi toccò in sorte la vostra regione celeste. La mia anima ora sospira devotamente a voi, per acquistare quella virtù che gli occorre per superare l'estrema prova che mi aspetta. "Tu sei così vicino a Dio (ultima salute)" iniziò a dirmi Beatrice, " che devi avere i tuoi occhi puri e penetranti; e perciò, prima che ti inoltri più dentro, guarda in basso, e considera quanta parte del mondo hai già sotto i piedi; cosicché il tuo cuore, quanto più gli è possibile si avvicini gioioso alla folla trionfante (di anime) che si aggirano liete per questa sfera celeste". Con lo sguardo attraversai di nuovo tutte quante i sette cerchi celesti, e vidi la sfera terrestre così piccola che sorrisi della sua meschina apparenza; e ormai concordo con l'opinione di coloro che più la disprezzano, e ritengo che sia virtuoso colui che rivolge i suoi pensieri ad altro (al Cielo). Io vidi la Luna, figlia di Latona, illuminata e senza quelle macchie che avevo un tempo attribuite, erroneamente, alla rarità e densità del suo corpo. Sopportai la vista del sole tuo figlio, o Iperione, e vidi come in prossimità di esso si muovano i pianeti di Maia e di Dione. Di lì vidi la luce di Giove tra il freddo di Saturno, suo padre, e il caldo di Marte, suo figlio: e compresi da lì il movimento irregolare che fanno quei pianeti. E tutti e sette (i pianeti) mi mostrarono quanto sono grandi e quanto sono veloci, e la distanza che li separa. La Terra abitata che ci rende tanto feroci, volgendomi io intorno ad essa con il segno dei Gemelli, mi apparve tutta dalle montagne ai mari. Poi rivolsi il mio sguardo agli occhi di Beatrice. |
Riassunto
vv. 1-21 – La spiegazione di Beatrice sul grido dei beati
Beatrice chiarisce a Dante che le anime del Paradiso agiscono spinte dalla carità. Se il poeta avesse compreso appieno il significato delle parole udite nel grido precedente, avrebbe colto il senso della giusta vendetta che Dio sta preparando. Questa giustizia divina si compirà prima che egli lasci la vita terrena.
vv. 22-51 – L'incontro con san Benedetto
Tra gli spiriti luminosi che popolano la scala celeste, uno in particolare brilla con intensità maggiore: è san Benedetto, il monaco che introdusse il cristianesimo ai pagani di Monte Cassino. Il santo indica inoltre la presenza accanto a lui di altre figure importanti, come san Macario e san Romualdo.
vv. 52-72 – La richiesta di Dante e la risposta del santo
Dante esprime il desiderio di poter vedere san Benedetto senza la luce che lo circonda. Il santo, però, gli spiega che ciò sarà possibile solo nell'Empireo, il luogo della visione diretta di Dio.
vv. 73-96 – La denuncia della corruzione nell'Ordine monastico
San Benedetto si sofferma sulla decadenza della sua Regola, ormai ignorata dai monaci, al punto che essa sembra servire solo a riempire inutilmente la carta su cui è scritta. Egli conclude con un monito severo: Dio non tarderà a intervenire per porre fine a questa degenerazione.
vv. 97-123 – L'ascesa all'ottavo cielo e l'invocazione ai Gemelli
Dante e Beatrice salgono al cielo delle Stelle Fisse, nella costellazione dei Gemelli, sotto la cui influenza astrale il poeta è nato. Consapevole dell'importanza della nuova fase del viaggio, Dante invoca l'aiuto di questa costellazione per affrontare la parte più difficile del suo percorso.
vv. 124-154 – Dante contempla il viaggio compiuto
Beatrice esorta Dante a riflettere sul cammino percorso fino a quel momento. Osservando lo spazio celeste, il poeta scorge i vari pianeti attraversati e, infine, la Terra, che gli appare piccola e insignificante rispetto alla vastità dell'universo.
Figure Retoriche
v. 1: "La mia guida: Perifrasi. Per indicare Beatrice.
vv. 2-3: "A la mia guida mi volsi, come parvol che ricorre sempre colà dove più si confida: Similitudine.
v. 3: "Colà dove più si confida: Perifrasi. Per indicare la madre, cioè la figura verso cui un bambino ripone maggiore fiducia.
vv. 4-5: "E quella, come madre che soccorre sùbito al figlio: Similitudine.
v. 5: "Palido e anelo: Endiadi.
vv. 7-8: "Tu ... tu ... tu: Iterazione.
v. 11: "Pensar lo puoi: Anastrofe.
v. 16: "La spada di qua: Perifrasi. Per indicare la punizione di Dio.
vv. 25-27: "Io stava come quei che 'n sé repreme la punta del disio, e non s'attenta di domandar, sì del troppo si teme: Similitudine.
v. 29: "Margherite: Perifrasi. Per indicare i beati.
vv. 41-42: "Lo nome di colui che 'n terra addusse la verità: Perifrasi. Per indicare Cristo.
v. 44: "Le ville: Sineddoche. La parte per il tutto, le ville anziché i villaggi.
v. 45: "L'empio cólto che 'l mondo sedusse: Perifrasi. Per indicare il culto pagano che traviò il mondo.
v. 46: "Fuochi: Perifrasi. Per indicare gli spiriti.
v. 48: "Fiori e ' frutti santi: Perifrasi. Per indicare buoni sentimenti e opere di bene.
vv. 49-50: "Qui ... qui ... qui: Iterazione. Ripetizione.
v. 50: "Frati miei: Anastrofe.
vv. 50-51: "Dentro ai chiostri fermar li piedi: Metafora. S'intende che rimasero nei monasteri a vita, e non che gli si sono fermati i piedi.
v. 54: "Veggio e noto: Dittologia.
v. 54: "Ardor vostri: Anastrofe.
vv. 55-57: "Così m'ha dilatata mia fidanza, come 'l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant'ell'ha di possanza: Similitudine.
v. 62: "L'ultima spera: Perifrasi. Per indicare l'Empireo.
v. 64: "Matura e intera: Endiadi.
vv. 70-71: "Il patriarca / Iacobbe: Enjambement.
v. 72: "D'angeli sì carca: Anastrofe.
v. 74: "Regola mia: Anastrofe.
v. 75: "Rimasa è per danno de le carte: Metafora. Significa che è rimasta solo uno spreco di carta (le carte non sono state danneggiate).
v. 75: "De le carte: Sineddoche. Il plurale per il singolare, "carte" anziché un generico "carta".
v. 78: "Sacca son piene: Anastrofe.
v. 80: "Quel frutto: Perifrasi. S'intendono le decime.
v. 87: "Dal nascer de la quercia al far la ghianda: Epifonema. È una sorta di aforisma, sta a significa che dura pochissimo tempo, ha lo stesso significato di "dalla sera al mattino, da Natale a S. Stefano".
v. 88: "Sanz'oro e sanz'argento: Endiadi.
v. 89: "Con orazione e con digiuno: Endiadi.
v. 93: "Tu vederai del bianco fatto bruno: Epifonema.
v. 98: "Al suo collegio, e 'l collegio: Anadiplosi.
v. 99: "Poi, come turbo, in sù tutto s'avvolse: Similitudine.
v. 100: "La dolce donna: Perifrasi. Per indicare Beatrice.
v. 106: "S'io torni mai, lettore...: Apostrofe.
vv. 106-107: "Quel divoto / triunfo: Enjambement.
v. 108: "Mie peccata: Sineddoche. Il singolare per il plurale, i miei peccati.
v. 108: "'l petto mi percuoto: Anastrofe.
v. 110: "Nel foco il dito: Anastrofe.
vv. 110-111: "'l segno che segue il Tauro: Perifrasi. Per indicare la costellazione dei Gemelli.
v. 112: "O gloriose stelle...: Apostrofe.
vv. 112-113: "Pregno / di gran virtù: Enjambement.
v. 114: "Tutto ... il mio ingegno: Iperbato.
vv. 115-116: "Con voi nasceva e s'ascondeva vosco quelli ch'è padre d'ogne mortal vita: Perifrasi. Per indicare il Sole, colui che sorgeva e tramontava ed è generatore di tutte le forme di vita.
v. 116: "Mortal vita: Anastrofe.
v. 118: "Mi fu grazia largita: Anastrofe.
v. 119: "L'alta rota che vi gira: Perifrasi. Per indicare il Cielo delle Stelle Fisse.
v. 122: "L'anima mia: Anastrofe.
v. 124: "L'ultima salute: Perifrasi. Per indicare le beatitudine suprema, Dio.
v. 126: "Le luci tue: Analogia e anastrofe.
v. 126: "Chiare e acute: Endiadi.
vv. 130-131: "Giocondo s'appresenti: Anastrofe.
v. 133: "Viso: Sineddoche. Il tutto per la parte, il viso anziché lo sguardo.
v. 134: "Questo globo: Perifrasi. Per indicare la Terra.
v. 139: "La figlia di Latona: Perifrasi. Per indicare la Luna.
v. 142: "L'aspetto del tuo nato, Iperione: Perifrasi. Per indicare il Sole.
v. 151: "L'aiuola: Perifrasi. Per indicare la Terra.
v. 154: "A li occhi belli: Perifrasi. Per indicare gli occhi di Beatrice.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto è diviso in due parti principali: nella prima, Dante incontra san Benedetto, il quale denuncia la corruzione diffusa tra i monaci del suo Ordine; nella seconda, il poeta ascende al Cielo delle Stelle Fisse, contemplando il cammino compiuto e preparandosi alla visione divina.
L'episodio si apre con Beatrice che chiarisce il significato del potente grido dei beati che ha chiuso il Canto precedente, un suono simile a un tuono che ha turbato Dante. La donna spiega che tale clamore preannuncia un'imminente punizione divina, che il poeta avrebbe potuto comprendere se non fosse ancora limitato dalla sua condizione mortale. Questo stesso limite gli aveva impedito, nel Canto precedente, di sostenere il fulgore del sorriso di Beatrice.
Successivamente, Dante nota un beato che risplende con particolare intensità: si tratta di san Benedetto, fondatore dell'abbazia di Montecassino e della Regola monastica che ha plasmato il monachesimo occidentale. Il santo si presenta senza rivelare esplicitamente il proprio nome, ma dichiarando di essere colui che convertì i pagani di Montecassino, fondando su quella montagna il monastero che sarebbe diventato il cuore del movimento benedettino. Egli sottolinea l'importanza della sua missione, che coniuga preghiera e azione, secondo il principio dell'ora et labora. Oltre a sé, Benedetto indica altre figure di spicco del monachesimo, come Macario, esponente del monachesimo orientale, e Romualdo, fondatore dell'Ordine dei Camaldolesi.
A questo punto, Dante manifesta il desiderio di vedere il volto reale di Benedetto, anziché la sua immagine avvolta dalla luce divina. Il santo, però, risponde con amarezza: ciò sarà possibile solo nell'Empireo, la dimora ultima dei beati. Questa richiesta è insolita, considerando che il poeta non l'ha avanzata per figure a lui più vicine, come Carlo Martello o Cacciaguida. Il motivo potrebbe risiedere nel ruolo di Benedetto come ultimo beato incontrato prima dell'ingresso nell'ottavo Cielo, segnando una svolta nella struttura del Paradiso.
San Benedetto prosegue con una severa critica alla decadenza del suo Ordine: i monaci non salgono più la scala spirituale che conduce a Dio, ma sono ormai ossessionati da ricchezze e privilegi materiali. Le sue parole sono permeate di tristezza e rammarico, in contrasto con il tono più aspro e sarcastico usato da Pier Damiani nel Canto precedente. Il santo paragona i monasteri a spelonche e descrive le tonache fratesche come sacchi di farina avariata, denunciando l'avidità e la corruzione dei religiosi, dediti ai piaceri della carne e al favoritismo nei confronti di parenti e amanti. La sua invettiva si collega alla più ampia critica alla Chiesa corrotta, che culminerà nell'accorato monito di san Pietro nel Canto XXVII.
Dopo aver pronunciato la sua condanna, Benedetto si unisce agli altri spiriti beati e sale rapidamente lungo la scala dorata, invitando Dante a seguirlo. Il poeta, sollecitato da Beatrice, compie l'ascesa al Cielo delle Stelle Fisse in modo consapevole, diversamente dai passaggi precedenti, quando si ritrovava nei nuovi Cieli senza accorgersene. Questo momento segna il distacco dai cieli planetari e l'ingresso in una dimensione più elevata, vicina all'eternità e meno legata alle vicende terrene.
In questo passaggio solenne, Dante si rivolge alla costellazione dei Gemelli, sotto la cui influenza astrologica ritiene di aver sviluppato il proprio ingegno poetico. La sua invocazione ha lo scopo di chiedere sostegno per affrontare l'ultima, impegnativa tappa del suo viaggio. Dall'alto della sua nuova posizione celeste, il poeta contempla il sistema tolemaico e osserva la Terra, ridotta a un minuscolo globo insignificante, quasi deriso nella sua piccolezza. La descrive come l'aiuola che ci fa tanto feroci, un luogo angusto dove gli uomini si combattono per brame materiali, in contrasto con l'ordine perfetto del cosmo.
Il Canto si chiude con un'atmosfera di attesa: Beatrice, in silenziosa contemplazione, aspetta l'arrivo di nuovi beati e il trionfo di Cristo, evento che sarà al centro del Canto successivo. Da questo momento in avanti, il Paradiso si avvia alla sua conclusione con un crescendo sempre più intenso, che culminerà nella visione di Dio.
Passi Controversi
Beatrice, nei versi 14-15, annuncia una futura vendetta che Dante potrà vedere prima della sua morte. Alcuni hanno interpretato questa profezia come un riferimento alla morte di Bonifacio VIII o Clemente V, ma è probabile che, come altre profezie nel poema, rimanga volutamente vaga, come quella di San Benedetto sulla corruzione dell'Ordine monastico.
Il verbo redui (v. 21) deriva dal latino riducere e significa "ricondurre". Il termine luculenta (v. 28) indica qualcosa di "luminoso", così come compare in Paradiso IX, 37. L'alto fine (v. 35) rappresenta lo scopo ultimo del viaggio di Dante, ovvero la visione di Dio.
L'espressione gente ingannata e mal disposta si riferisce ai pagani, che veneravano Apollo su un monte vicino a Cassino. San Benedetto distrusse il loro tempio e vi costruì una chiesa dedicata alla Vergine, gettando così le basi del futuro monastero, come riportato nei Dialoghi di Gregorio Magno.
Nei versi 47-48, il caldo che fa germogliare i fiori e frutti santi simboleggia l'ardore della carità. Un'immagine simile appare in Paradiso XVIII, 28-30, dove Cacciaguida descrive il Paradiso come un albero che riceve linfa dall'alto e che non perde mai le foglie. Nei versi 50-51, San Benedetto parla dei monaci che rimasero fedeli alla regola e non si allontanarono dal monastero. Il voto di stabilitas era infatti fondamentale per i Benedettini, mentre alcuni religiosi trasgredivano questa regola vagando da un convento all'altro e vivendo nel mondo, talvolta rinnegando la loro vocazione.
L'ultima spera (v. 62) è l'Empireo. Nei versi 65-67, San Benedetto spiega che il decimo cielo è l'unico immobile, poiché non occupa uno spazio fisico (non è in loco) e non possiede poli come gli altri cieli (non s'impola). L'invenzione del verbo impolarsi è una creazione linguistica di Dante.
I versi 70-72 rimandano al sogno di Giacobbe narrato nella Genesi (XXVIII, 12), in cui appare una scala che si estende fino al cielo, percorsa dagli angeli. Il termine spelonche (v. 77) si riferisce all'episodio evangelico in cui Gesù caccia i mercanti dal tempio, accusandoli di averlo trasformato in una spelonca di ladroni (Matteo XXI, 13). Le cocolle (v. 77) indicano le vesti monastiche, come già menzionato in Paradiso IX, 78.
Nel verso 79, l'espressione si tolle può essere interpretata come "si erge", nel senso di ribellarsi alla volontà divina. Dante afferma che persino l'usura non è così grave come l'avidità di quei monaci che si impadroniscono delle decime (il frutto dei monasteri) per arricchirsi. Il più brutto (v. 83) sembra alludere alle concubine dei monaci corrotti.
Nei versi 85-87, Dante osserva come la natura umana sia fragile e incline al decadimento, tanto che ogni buon inizio dura poco. L'espressione dal nascer de la quercia al far la ghianda non è del tutto chiara, ma potrebbe essere un modo di dire equivalente all'italiano "dalla sera alla mattina".
I versi 94-96 fanno riferimento a episodi biblici: l'apertura del Mar Rosso per permettere il passaggio di Mosè e degli Israeliti (Esodo XIV, 21-29) e l'arresto del corso del Giordano per consentire il passaggio di Giosuè (Giosuè III, 14-17; Salmi CXIII, 3). Questi eventi, per quanto straordinari, non saranno più stupefacenti dell'intervento divino contro i monaci corrotti.
L'eterno trionfo (vv. 106-107) si riferisce alla beatitudine celeste. Nei versi 109-111, Dante descrive la sua ascesa all'ottavo cielo con una rapidità incredibile, più veloce del gesto di mettere un dito nel fuoco e ritrarlo. Questa costruzione rappresenta un esempio di hysteron proteron, una figura retorica in cui le azioni vengono invertite. La costellazione che segue il Toro è quella dei Gemelli, nella cui presenza Dante si trova dopo essere giunto nel Cielo delle Stelle Fisse.
Nato tra maggio e giugno del 1265, Dante si collocava sotto il segno zodiacale dei Gemelli, che nel pensiero medievale era associato all'ingegno letterario e poetico. Questa idea è presente anche in Inferno XV, 55-56, dove Brunetto Latini parla della stella di Dante che lo guiderà verso la gloria. Il passo forte (v. 123) che il poeta dovrà affrontare non è la morte, bensì la parte finale del Paradiso e la visione di Dio. Questo passaggio funge da introduzione agli ultimi canti della cantica.
Il verbo t'inlei (v. 127), così come s'inluia (IX, 73), è un neologismo di Dante. L'espressione etera tondo (v. 132) si riferisce all'ottavo cielo, con aethera che segue la stessa declinazione latina di termini come Flegetonta e orizzonta.
La figlia di Latona (v. 139) è la Luna, il cui splendore e le cui macchie avevano suscitato i dubbi di Dante nel secondo canto del Paradiso. Gli altri pianeti vengono descritti perifrasticamente: il Sole è il figlio di Iperione (v. 142), Mercurio e Venere vengono richiamati attraverso i nomi delle loro madri (Maia e Dione), mentre Saturno e Marte sono rispettivamente padre e figlio di Giove, il cui aspetto è un equilibrio tra il gelo di Saturno e il fuoco di Marte (cfr. Convivio II, 13).
L'aiuola (v. 151) è la Terra, chiamata così per la sua piccolezza e per essere teatro delle contese umane. L'immagine potrebbe derivare da Boezio (Consolatio Philosophiae II, prosa 7) o dallo stesso Dante, che nel Monarchia III, 15 definisce la Terra come areola ista mortalium.
Il verso 153 ha dato luogo a diverse interpretazioni, ma sembra indicare semplicemente che Dante riesce a vedere la totalità della Terra emersa.
Fonti: libri scolastici superiori