Parafrasi e Analisi: "Canto XXVIII" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Analisi ed Interpretazioni
6) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XXVII del Paradiso segna un momento di grande intensità e di svolta nel viaggio di Dante attraverso i cieli. Siamo ancora nell'Empireo, il regno della pura luce divina, e il poeta si avvicina sempre più alla visione suprema di Dio. In questo canto emergono temi fondamentali come la gloria celeste, il rapporto tra l'ordine divino e il mondo terreno e il contrasto tra la perfezione del Cielo e la corruzione della Chiesa.

Attraverso immagini luminose e solenni, Dante esprime sia l'esaltazione della beatitudine celeste sia il dolore per la degenerazione morale dell'umanità. La dimensione mistica si intreccia con quella etico-politica, offrendo una riflessione sulla giustizia divina e sulle responsabilità dell'uomo. Il canto, quindi, non è solo una celebrazione della beatitudine eterna, ma anche un monito rivolto alla società del tempo.


Testo e Parafrasi


Poscia che 'ncontro a la vita presente
d'i miseri mortali aperse 'l vero
quella che 'mparadisa la mia mente,

come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n'alluma retro,
prima che l'abbia in vista o in pensiero,

e sé rivolge per veder se 'l vetro
li dice il vero, e vede ch'el s'accorda
con esso come nota con suo metro;

così la mia memoria si ricorda
ch'io feci riguardando ne' belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.

E com' io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s'adocchi,

un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;

e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.

Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che 'l dipigne
quando 'l vapor che 'l porta più è spesso,

distante intorno al punto un cerchio d'igne
si girava sì ratto, ch'avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;

e questo era d'un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.

Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che 'l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.

Così l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch'era
in numero distante più da l'uno;

e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s'invera.

La donna mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura.

Mira quel cerchio che più li è congiunto;
e sappi che 'l suo muovere è sì tosto
per l'affocato amore ond' elli è punto».

E io a lei: «Se 'l mondo fosse posto
con l'ordine ch'io veggio in quelle rote,
sazio m'avrebbe ciò che m'è proposto;

ma nel mondo sensibile si puote
veder le volte tanto più divine,
quant' elle son dal centro più remote.

Onde, se 'l mio disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
che solo amore e luce ha per confine,

udir convienmi ancor come l'essemplo
e l'essemplare non vanno d'un modo,
ché io per me indarno a ciò contemplo».

«Se li tuoi diti non sono a tal nodo
sufficïenti, non è maraviglia:
tanto, per non tentare, è fatto sodo!».

Così la donna mia; poi disse: «Piglia
quel ch'io ti dicerò, se vuo' saziarti;
e intorno da esso t'assottiglia.

Li cerchi corporai sono ampi e arti
secondo il più e 'l men de la virtute
che si distende per tutte lor parti.

Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s'elli ha le parti igualmente compiute.

Dunque costui che tutto quanto rape
l'altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape:

per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t'appaion tonde,

tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza».

Come rimane splendido e sereno
l'emisperio de l'aere, quando soffia
Borea da quella guancia ond' è più leno,

per che si purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che 'l ciel ne ride
con le bellezze d'ogne sua paroffia;

così fec'ïo, poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro,
e come stella in cielo il ver si vide.

E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.

L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.

Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro.

E quella che vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t'hanno mostrato Serafi e Cherubi.

Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi.

Quelli altri amori che 'ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che 'l primo ternaro terminonno;

e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.

Quinci si può veder come si fonda
l'esser beato ne l'atto che vede,
non in quel ch'ama, che poscia seconda;

e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.

L'altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,

perpetüalemente 'Osanna' sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s'interna.

In essa gerarcia son l'altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l'ordine terzo di Podestadi èe.

Poscia ne' due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l'ultimo è tutto d'Angelici ludi.

Questi ordini di sù tutti s'ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.

E Dïonisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com' io.

Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.

E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch'ammiri:
ché chi 'l vide qua sù gliel discoperse

con altro assai del ver di questi giri».
Dopo che Beatrice, colei che mi esalta a gioie paradisiache,
mi ebbe rivelato il vero riguardo a ciò cui vanno incontro
i miseri mortali nella loro vita presente,

come colui che d'improvviso scorge in uno specchio la fiamma
di una grossa torcia e ne è illuminato alle spalle,
prima ancora di vedere la torcia o di pensare di averla dietro di se,

e si volta per vedere se lo specchio non gli menta con l'immagine
e vede che effettivamente il riflesso si accorda alla realtà
come (si accorda) un canto con il suo ritmo;

così, allo stesso modo, la mia memoria si ricorda
che feci io guardando Beatrice nei begli occhi un'altra volta
attraverso i quali io fui preso da Amore, colpito con un laccio.

E come io mi voltai e furono toccati i miei occhi
da ciò che appare in quella sfera volante celeste
ogni qualvolta si fissi bene il suo orizzonte con attenzione,

vidi un punto luminoso che emanava una luce
così intensa che lo sguardo, che esso (il punto) illumina bruciandolo,
è costretto a chiudersi per la forte intensità;

e quel punto è così piccolo, che qualsiasi stella appaia ai nostri occhi
più piccola, sembrerebbe grande come la luna, se fosse vicino ad esso,
così come stella accanto a stella nel cielo.

Ad una distanza forse non maggiore di quella
che separa l'alone della stella che lo crea intorno a se
quando il vapore di cui si fa è più fitto,

distante intorno al punto che io vedevo, un cerchio di fuoco
girava così veloce, che avrebbe vinto
quel movimento che fa girare il mondo più velocemente.

E questo cerchio infuocato era circondato da un altro
e quello da un terzo , e il terzo da un quarto
e così via, il quarto da un quinto, il quinto da un sesto.

Oltre i primi sei cerchi, il settimo era così esteso
in larghezza che l'arcobaleno, messo di Iunio,
sarebbe insufficiente per contenerlo per intero.

Così uguale per l'ottavo e il nono cerchio; e ognuno dei nove cerchi
si muoveva tanto più lentamente, quanto era più lontano
in distanza dal primo, proporzionalmente;

e più limpida risplendeva la fiamma di quel cerchio
che ruotava più vicino alla scintilla di pura luce (Dio), poiché,
credo, il cerchio più vicino era più pervaso dalla verità divina.

La mia Beatrice, che mi vedeva assorto nel dubbio
e ansioso di sapere, disse:" Da quel punto luminoso
dipende tutto il cielo e tutto il creato naturale.

Guarda quel cerchio che lo circonda più da vicino;
e sappi che il suo movimento è così veloce
a causa dell'impero d'amore che lo spinge".

E io a lei: "Se il mondo intero rispecchiasse
l'ordine che io vedo in quei cerchi rotanti,
ciò che mi è stato proposto come spiegazione mi sazierebbe;

ma nel mondo terreno accade il contrario, è possibile vedere
che i cieli, quanto più sono lontani dalla terra,
tanto più velocemente si muovono.

Per cui se il mio desiderio di sapere deve essere saziato
in questo Primo Mobile, tempio degli angeli
che ha per confine l'Empireo, fatto di luce e di amore,

è necessario che mi sia chiarito come mai l'ordine che governa la Terra
non è perfettamente conforme all'ordine dei cieli,
poiché io da solo non sono capace di trovare una spiegazione".

"Non ti devi meravigliare se con le tue dita
non riesci a sciogliere questo nodo,
esso è tanto stretto per il fatto che nessuno ha mai provato ad affrontarlo!"

Così disse Beatrice; e poi continuò: "se vuoi saziare
il tuo dubbio, accogli ciò che io ti dirò;
e poi rifletti su ciò che ti ho detto con attenzione.

I cieli sono vasti più o meno in proporzione
a seconda della maggiore o minore virtù
che si trasmette in ogni loro parte.

La bontà che discende da Dio, quanto è più grande, tanto mira ad estendere il suo influsso;
un corpo, quanto è più grande, se esso ha le sue parti ugualmente disposte,
tanto più può contenere in sé una quantità maggiore di influssi salutari.

Dunque il Primo Mobile che rapisce con se nel suo movimento tutto
il resto dell'universo, corrisponde al cerchio più vicino
a Dio, che più dispensa amore e più ha sapienza.

Per cui, se tu applichi la virtù come unità di misura,
e non la dimensione delle sfere circolari
in cui vedi dimorare le gerarchie angeliche,

noterai la mirabile proporzione tra ciascun cielo e l'intelligenza
che vi esercita la propria virtù, così che al cielo più grande
corrisponde una maggiore intensità di virtù e al più piccolo una minore".

Come l'aria rimane luminosa e chiara,
quando il vento di Borea
soffia più temperato da nord-ovest

per cui elimina e caccia via la nebbia
che prima la velava, così che il cielo si mostra ora ridente
in tutta la sua bellezza, liberato da ogni plaga;

così feci io, dopo che Beatrice, la mia guida,
mi elargì il beneficio di una sua chiara risposta,
e vidi la verità risplendere in cielo come una stella.

E dopo che le sue parole del discorso finirono
le sfere angeliche iniziarono a sfavillare
come ferro incandescente.

Ogni scintilla girava insieme alla fiamma dalla quale proveniva;
ed erano così tante, che il loro numero cresceva
in progressione geometriche di migliaio in migliaio.

Io sentivo gli angeli, da cerchio a cerchio,
cantare osanna a Dio, punto fisso intorno al quale essi ruotano,
e che li conserverà in eterno nelle sedi loro assegnate.

E Beatrice, che vedeva i pensieri dubbiosi
che sorgevano nella mia mente, disse:" I primi cerchi
ti hanno mostrato i Serafini e i Cherubini.

Essi girano così velocemente seguendo il moto di Dio,
perché vogliono avvicinarsi a Lui quanto più possono;
e possono, in quanto sono più capaci di elevarsi a contemplare Dio.

Quelle altre intelligenze angeliche che girano intorno ad essi,
si chiamano Troni, e sono seggi dei decreti divini,
perché chiudono la prima terna delle gerarchie angeliche.

E dovete sapere che tutte queste schiere di angeli godono
di una beatitudine proporzionata alla capacità di visione di Dio
che è verità che appaga ogni intelletto.

Da ciò si può dedurre come la beatitudine consista
nell'atto di contemplare, non in quello di amare,
che ne è invece soltanto una conseguenza;

e la possibilità di contemplare concessa alle creature dipende dal merito,
che a sua volta dipende dalla grazia divina e dalla buona volontà :
così si procede di grado in grado.

La seconda terna, che così germine e fiorisce
in questa primavera celeste e dunque eterna
che l'arrivo dell'autunno non rende mai spoglia,

canta in eterno la lode a Dio 'Osanna',
con tre melodie che risuonano nei tre ordini angelici
di cui è composta la terna stessa.

In queste gerarchia divina si trovano le essenza divine:
la prima è Dominazioni, e poi c'è Virtù;
mentre il terzo ordine è di Potestà.

Infine nei penultimi due gradi della gerarchia
ruotano i Principati e gli Arcangeli;
mentre l'ultimo grado è occupato da Angeli in festa.

Queste creature fissano il loro sguardo verso Dio,
e migliorano in virtù le cose terrene così che esse vengano attratte verso Dio
e trascinano con sé tutte quelle che sono ai gradi inferiori.

E Dionigi l'Areopagita si mise, con tanto amore,
a contemplare queste creature, riuscendo a classificarle
e a chiamarle per nome cosi come faccio io ora.

Ma Gregorio Magno si scostò poi da lui,
per cui, non appena aprì gli occhi alla verità
in questo cielo, rise di se stesso.

E non voglio che tu ti stupisca che un uomo
abbia rivelato un simile mistero sulla Terra;
perché glielo svelò, insieme a molte altre verità di questi cieli divini

chi aveva avuto la grazia di vederlo di persona quassù".



Riassunto


vv. 1-39 - Il Punto Luminoso e i Nove Cerchi
Osservando il riflesso di una luce intensissima negli occhi di Beatrice, Dante si volta e viene colpito dalla visione di un punto luminoso straordinariamente splendente. Attorno a questo punto ruotano nove cerchi, il cui movimento è regolato da una legge particolare: la velocità diminuisce all'aumentare della distanza dal centro.

vv. 40-87 - Spiegazioni di Beatrice
Beatrice chiarisce a Dante che da quel punto dipendono sia il cielo sia la natura stessa. Il cerchio più vicino al punto si muove più rapidamente poiché è spinto da un amore più intenso. Il poeta intuisce che quell'immagine rappresenta Dio e le nove schiere angeliche, ma resta perplesso poiché nella realtà fisica avviene il contrario: più ci si allontana da un centro, maggiore è la velocità di rotazione e l'intensità della luce. Beatrice, attraverso una lunga spiegazione, dissipa ogni suo dubbio, chiarendo che esiste una corrispondenza perfetta tra i cieli materiali e i cerchi angelici, a patto di adottare un criterio qualitativo anziché quantitativo. Non è la dimensione dei cerchi a dover essere considerata, ma la virtù che li permea: maggiore è la virtù (presente nel cerchio più vicino a Dio, apparentemente il più piccolo), più grande sarà la velocità e l'ampiezza del cielo materiale, poiché in natura un bene superiore si manifesta in un corpo più grande.

vv. 88-129 - Le Gerarchie Angeliche
Dopo questa spiegazione, i nove cerchi risplendono mentre innalzano un canto di osanna al punto luminoso. Prima che Dante possa formulare la sua domanda, Beatrice gli illustra la struttura delle schiere angeliche, suddivise in tre gerarchie, ognuna composta da tre ordini: Serafini, Cherubini e Troni nella prima; Dominazioni, Virtù e Potestà nella seconda; Principati, Arcangeli e Angeli nella terza. Ogni ordine ammira quello superiore e attira a sé quello inferiore, in un movimento che conduce tutti verso Dio.

vv. 130-139 - La Teoria degli Angeli di Dionigi l'Areopagita e quella di San Gregorio
Beatrice afferma che questa suddivisione corrisponde perfettamente alla dottrina dello Pseudo Dionigi l'Areopagita, un teologo del V secolo, mentre san Gregorio aveva proposto una teoria differente. Tuttavia, una volta giunto in Paradiso e di fronte alla verità, Gregorio sorrise di se stesso per il proprio errore. Non c'è da stupirsi che Dionigi abbia potuto conoscere tali misteri, poiché gli erano stati rivelati da san Paolo, che li aveva appresi quando fu rapito al terzo cielo.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto in questione forma una sorta di "dittico" con il successivo, incentrato sulla descrizione delle gerarchie angeliche e delle loro peculiarità, un tema che Beatrice affronta con molta attenzione. Nel ventottesimo Canto, Beatrice enumera gli ordini angelici, confutando le opinioni precedentemente espresse da Dante nel Convivio. Nel ventinovesimo, invece, entra in un'analisi più dettagliata dell'angelologia, criticando severamente i falsi predicatori che diffondono leggende su un argomento così profondo. Sebbene l'ampiezza di questa trattazione possa sembrare sorprendente per il lettore moderno, è evidente che l'argomento è di estrema rilevanza nella dottrina cristiana del tempo. Questo perché esistevano molte concezioni errate sugli angeli che Dante desidera correggere. Sebbene gli angeli possano essere oggetto di speculazione filosofica, la loro distanza dal mondo sensibile rende impossibile raggiungere conclusioni certe solo attraverso la ragione: è dunque la rivelazione, come fonte privilegiata di conoscenza, ad essere necessaria. Beatrice, infatti, cita san Paolo, che visse un'esperienza simile a quella che Dante sta vivendo nel Primo Mobile, dimostrando come le sue affermazioni nel Convivio siano inadeguate, come quelle di Gregorio Magno. Il Canto si apre con la visione di un punto infinitesimo e luminoso, circondato da nove cerchi fiammeggianti, rappresentanti Dio e gli ordini angelici. Dante inizialmente ne percepisce solo il riflesso negli occhi di Beatrice, che funge da teologia, per poi rivolgersi direttamente alla visione, come a suggerire che la dottrina rivelata ci offre una "ombra" di verità su qualcosa che è impossibile comprendere solo con l'intelletto. I cerchi si presentano più luminosi e veloci quanto più si avvicinano al centro, rappresentando l'amore divino. Non è chiaro se Dante stia vedendo i cori angelici nel Primo Mobile o nell'Empireo, o se questa visione provenga direttamente da Dio nella sua mente, ma ciò che è certo è che la struttura di questo spettacolo crea dubbi nel poeta. In effetti, ciò che dovrebbe essere il modello ideale per il mondo sensibile sembra contraddire la struttura dell'Universo, dove i Cieli sono più ampi quanto più lontani dalla Terra. Beatrice chiarisce subito questo dubbio, spiegando che non conta la grandezza dei cerchi, ma la loro vicinanza a Dio, il che giustifica la disposizione dell'Universo. La dimensione delle sfere celesti, infatti, è legata alla virtù che contengono, mentre le intelligenze angeliche, esseri spirituali, non dipendono dalle stesse leggi fisiche che regolano i corpi. Questa spiegazione, oltre a essere di grande rilevanza teologica, rafforza la struttura del poema, mostrando come il mondo ideale e il mondo fisico siano strettamente correlati. Beatrice prosegue spiegando che ogni ordine angelico guarda a Dio come a suo principio, diffondendo poi il suo influsso sulla Terra, generando un rapporto di amore e virtù che regge l'Universo intero. La gioia degli angeli, infatti, dipende dalla profondità con cui percepiscono la visione di Dio e la loro letizia si riverbera su ogni cosa.

Nel Canto si fa riferimento anche a una similitudine che Dante usa per descrivere la chiarezza che nasce nella sua mente: una stella che risplende nel cielo, simboleggiando il raggiungimento di una verità mai affrontata prima da nessuno. In questo, Dante riprende la tradizione del "primus ego", un concetto che si ritrova più volte nelle fasi finali della Commedia.

La seconda parte della spiegazione riguarda l'ordine preciso degli angeli e, di conseguenza, dei Cieli che essi governano. Dante corregge qui le affermazioni che aveva fatto nel Convivio, riferendosi alla teoria angelologica di san Gregorio Magno, che, secondo Beatrice, si basava su ragionamenti filosofici errati, senza tener conto della verità rivelata. Dante, infatti, fa riferimento al De coelesti Hierarchia di Dionigi l'Areopagita, il quale si ispirava a san Paolo. Quest'ultimo, durante una visione mistica, vide gli angeli e li descrisse, proprio come li sta vedendo ora Dante. Beatrice ribadisce che la sola ragione non può risolvere questioni così complesse; la rivelazione divina è l'unico mezzo per conoscere davvero le cose celesti. Questo tema si ripeterà anche nel Canto successivo, dove Beatrice affronterà ulteriori dettagli riguardo la natura degli angeli e la loro funzione, criticando coloro che diffondono falsità su argomenti così delicati. Non mancano poi le critiche a certi filosofi che, con troppa leggerezza, si avventurano su questioni teologiche, distorcendo la parola di Dio. Dante stesso non è esente da errori, ma è chiaro che Beatrice non lo considera tra coloro che speculano senza verità. La rivelazione, al contrario, è ciò che illumina l'intelletto umano e permette di superare i dubbi che oscurano la mente.

Nel parallelo che Dante traccia tra se stesso e san Paolo, emerge l'importanza di un'esperienza mistica che permette di accedere a una verità che la sola razionalità non può raggiungere. Come Paolo fu rapito in estasi e visse una rivelazione, così Dante intraprende il suo viaggio ultraterreno, non per opera della sua ragione, ma per un privilegio divino che gli consente di vedere il mondo oltre la morte. La rivelazione, dunque, è al cuore della sua esperienza e della sua missione di raccontare ciò che ha visto, un tema che si riflette anche nell'opera di Paolo, autore della rivelazione cristiana. Un punto curioso, tuttavia, è l'assenza di Paolo nel Paradiso, nonostante il suo ruolo centrale: questa scelta di Dante, che resta misteriosa, potrebbe essere vista come un modo per accentuare il ruolo provvidenziale del poeta stesso.


Passi Controversi


Il verbo imparadisa (v. 3), che significa "elevare a gioie paradisiache", è probabilmente un neologismo coniato da Dante, simile a inciela (Par., III, 97) e impola (XXII, 67). Il termine doppiero (v. 4) si riferisce a un candelabro a due bracci, il cui nome deriva dal latino doplerus (cfr. Guinizelli, Al cor gentil, v. 22).

Il verso 9 può essere interpretato come un riferimento all'armonia tra il canto (nota) e la musica (metro). Il volume menzionato al v. 14 è il Primo Mobile, chiamato così perché racchiude l'intero Creato (esso è il real manto di tutti i volumi / del mondo, XXIII, 112-113). Tuttavia, i vv. 13-15 sono soggetti a diverse interpretazioni: non è chiaro se Dante stia osservando il punto e i nove cerchi dal IX Cielo, dall'Empireo o solo nella sua mente, e nessuna delle ipotesi avanzate risulta del tutto convincente.

Nel v. 23, alo significa "alone" ed è un termine derivato dal latino halos; anche igne (v. 25) ha radici latine e significa "fuoco". L'espressione il moto che più tosto il mondo cigne (v. 27) si riferisce alla rapidissima rotazione del Primo Mobile.

Nel v. 32, l'espressione messo di Iuno indica l'arcobaleno, ovvero la scia che, secondo la mitologia, Iride lasciava nel cielo mentre trasmetteva i messaggi di Giunone ai mortali. Il cerchio del v. 43 è il più vicino a Dio e corrisponde all'ordine angelico dei Serafini, il cui nome significa "ardenti" d'amore per Dio, un'etimologia nota a Dante grazie a San Tommaso d'Aquino (Summa theologiae, I, q. LXIII: Seraphim vero denominatur ab ardore caritatis).

I vv. 53-54 fanno riferimento al IX Cielo, che ha come confine l'Empireo, il regno di solo amore e luce. Nei vv. 55-56, i termini essemplo ed essemplare significano rispettivamente "modello" e "copia", ma il loro esatto significato è ancora oggetto di dibattito.

Il v. 64 impiega il termine arti, di origine latina, con il significato di "stretti" (cfr. Purg., XXVII, 132), mentre cape (v. 68) deriva dal latino e significa "contiene" o "racchiude". Nel v. 70, il costui fa riferimento al Primo Mobile, mentre nel v. 72 il cerchio che più ama e che più sape è l'ordine dei Serafini, caratterizzati dal massimo ardore di carità e dalla maggiore sapienza, in quanto sono gli angeli più vicini alla mente divina (cfr. XXI, 92).

Nel v. 81, Borea indica il vento di maestrale, rappresentato, secondo l'iconografia medievale, come un volto umano che soffia con le guance gonfie in tre direzioni diverse. Roffia (v. 82) è un termine usato solo in questo passo del poema ed è di difficile interpretazione: alcuni lo collegano a una voce toscana che indica le impurità della concia delle pelli, mentre altri lo associano all'antico francese roife, che significa "crosta". In entrambi i casi, il senso è che le parole di Beatrice hanno dissolto ogni impurità nel cielo. Il termine paroffia (v. 84) significa "parte" o "regione" e potrebbe derivare da una parola antica che indicava la "parrocchia".

Il v. 91 è stato interpretato in modi diversi, ma probabilmente esprime l'idea che gli angeli seguano il proprio cerchio come scintille senza staccarsene. Nei vv. 92-93, Dante richiama la leggenda dell'inventore degli scacchi, il quale chiese come ricompensa un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza e così via, raddoppiando ogni volta. Questo porta a un numero enorme, costituito da venti cifre: Dante suggerisce che il numero degli angeli supera persino questa progressione geometrica. Il verbo s'inmilla (v. 93) è un altro neologismo dantesco, simile a s'incinqua (IX, 40) e s'intrea (XIII, 57).

Nel v. 100, i vimi rappresentano i vincoli d'amore che legano Serafini e Cherubini a Dio. I vv. 103-105 pongono alcune difficoltà interpretative: Dante sembra dire che i Troni si chiamano così perché chiudono la prima triade angelica, ma l'affermazione non è del tutto chiara. È probabile che il v. 105 vada letto insieme al 103, in modo che il senso della terzina sia: "Quelle altre intelligenze angeliche che ruotano attorno, e che completarono la prima gerarchia al momento della creazione, sono chiamate 'Troni dell'aspetto divino'". Anche l'uso del passato (terminonno) risulta problematico, poiché i Troni continuano a far parte della gerarchia angelica; potrebbe dunque riferirsi al momento della loro creazione.

Nei vv. 109-111, Dante si allinea al pensiero di San Tommaso e si discosta dalla tradizione mistica, affermando che la beatitudine deriva dalla visione di Dio, con l'amore come conseguenza di questa esperienza. Un concetto simile era già stato espresso nel Monarchia (III, 16): beatitudinem vite eterne que consistit in fruitione divini aspectus ("la beatitudine della vita eterna, che consiste nella fruizione della visione di Dio").

Nel v. 117, l'espressione notturno Ariete allude all'autunno, periodo in cui la costellazione dell'Ariete è opposta al Sole, sorgendo quando esso tramonta e viceversa. Dante vuole indicare che la primavera sempiterna del Cielo non è mai spogliata dall'autunno, a differenza di quanto avviene sulla Terra. Il verbo sberna (v. 118) significa letteralmente "esce dall'inverno" e, in senso figurato, si riferisce al canto degli uccelli in primavera, assumendo il significato di "cantare". Il verbo vincon (v. 128) può essere inteso come "attrarre verso di sé".

I versi successivi (vv. 130 ss.) rimandano alle teorie di Dionigi Areopagita, autore (o presunto tale) del De coelesti Hierarchia, testo del V secolo che Dante segue per la classificazione delle gerarchie angeliche. Gregorio Magno, nei Moralia, aveva invece adottato un ordine diverso, lo stesso che Dante aveva citato nel Convivio (II, 5), probabilmente riprendendolo dal Trésor di Brunetto Latini.

Infine, i vv. 138-139 fanno riferimento a San Paolo e alla sua ascesa in Paradiso, già menzionata in Inferno (II, 28-30). Lo pseudo-Dionigi, nel De coelesti Hierarchia, affermava che l'ordine delle gerarchie angeliche era stato rivelato da Paolo stesso, che era stato portato al terzo cielo e rapito in Paradiso.

Fonti: libri scolastici superiori

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