Parafrasi e Analisi: "Canto XXX" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Analisi ed Interpretazioni
6) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XXX del Paradiso di Dante Alighieri segna un momento di grande intensità spirituale e filosofica all'interno dell'opera. In questo canto, l'autore affronta temi profondi legati alla natura della beatitudine eterna, all'armonia divina e alla contemplazione della verità assoluta. Dante, accompagnato da Beatrice, si avvicina sempre più alla visione di Dio, e in questo passo si concentra sulla comprensione della realtà ultima, sulla quale la mente umana non può che arrendersi dinanzi all'infinita magnificenza del Creatore. L'argomento si inserisce nel contesto di un'esperienza mistica che trascende la logica e le categorie umane, spingendo il poeta a riflettere sulla luce divina, sulla salvezza dell'anima e sulla perfezione dell'ordine cosmico, temi che si intrecciano con la dottrina cristiana e la filosofia aristotelica.
Testo e Parafrasi
Forse seimila miglia di lontano ci ferve l'ora sesta, e questo mondo china già l'ombra quasi al letto piano, quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch'alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così 'l ciel si chiude di vista in vista infino a la più bella. Non altrimenti il trïunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude, a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Bëatrice nulla vedere e amor mi costrinse. Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. La bellezza ch'io vidi si trasmoda non pur di là da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. Da questo passo vinto mi concedo più che già mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: ché, come sole in viso che più trema, così lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m'è il seguire al mio cantar preciso; ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l'ultimo suo ciascuno artista. Cotal qual io la lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l'ardüa sua matera terminando, con atto e voce di spedito duce ricominciò: «Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch'è pura luce: luce intellettüal, piena d'amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. Qui vederai l'una e l'altra milizia di paradiso, e l'una in quelli aspetti che tu vedrai a l'ultima giustizia». Come sùbito lampo che discetti li spiriti visivi, sì che priva da l'atto l'occhio di più forti obietti, così mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m'appariva. «Sempre l'amor che queta questo cielo accoglie in sé con sì fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo». Non fur più tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch'io compresi me sormontar di sopr' a mia virtute; e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce è tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d'ogne parte si mettien ne' fiori, quasi rubin che oro circunscrive; poi, come inebrïate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge, e s'una intrava, un'altra n'uscia fori. «L'alto disio che mo t'infiamma e urge, d'aver notizia di ciò che tu vei, tanto mi piace più quanto più turge; ma di quest' acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si sazi»: così mi disse il sol de li occhi miei. Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe son di lor vero umbriferi prefazi. Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe». Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l'usanza sua, come fec' io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l'onda che si deriva perché vi s'immegli; e sì come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, così mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non süa in che disparve, così mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, sì ch'io vidi ambo le corti del ciel manifeste. O isplendor di Dio, per cu' io vidi l'alto trïunfo del regno verace, dammi virtù a dir com' ïo il vidi! Lume è là sù che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. E' si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne' fioretti opimo, sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là sù fatto ha ritorno. E se l'infimo grado in sé raccoglie sì grande lume, quanta è la larghezza di questa rosa ne l'estreme foglie! La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e 'l quale di quella allegrezza. Presso e lontano, lì, né pon né leva: ché dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, qual è colui che tace e dicer vole, mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira quanto è 'l convento de le bianche stole! Vedi nostra città quant' ella gira; vedi li nostri scanni sì ripieni, che poca gente più ci si disira. E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v'è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni, sederà l'alma, che fia giù agosta, de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia verrà in prima ch'ella sia disposta. La cieca cupidigia che v'ammalia simili fatti v'ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non anderà con lui per un cammino. Ma poco poi sarà da Dio sofferto nel santo officio; ch'el sarà detruso là dove Simon mago è per suo merto, e farà quel d'Alagna intrar più giuso». |
Quando qui sulla Terra, a circa sei mila miglia di distanza, arde il mezzogiorno e questo pianeta proietta già il suo cono d'ombra sul piano dell'orizzonte, all'albeggiare, l'atmosfera sopra di noi sconfinata, inizia a diventare così chiara che alcune stelle diventano indistinguibili dallo sfondo; e man mano che avanza l'aurora, luminosa ancella del Sole, il cielo spegne tutte le sue stelle una ad una sino alla più luminosa. Allo stesso modo il trionfo di angeli che ruota sempre festoso intorno a Dio, punto luminoso che vinse la mia vista, e che sembra circondato da ciò che esso stesso circonda poco alla volta svanì alla mia vista: dunque il venire meno di quel bagliore e l'amore che mi attraeva verso Beatrice mi spinsero nuovamente a rivolgere i miei occhi a lei. Se tutto ciò che è stato finora detto su di lei, fosse racchiuso in un'unica lode, questa sarebbe insufficiente per il suo splendore. La bellezza che io vidi non soltanto superava la percezione al di là dell'umano, ma io credo di certo che solo Dio, suo creatore ne possa godere appieno. Da questo momento io mi dichiaro vinto nell'impresa di raffigurarla, più di quanto un qualsiasi altro argomento abbia mai superato le capacità di altri scrittori; poiché il solo fatto di ricordare il volto sorridente di Beatrice annulla ogni mia facoltà mentale, come il sole che abbaglia colui che ha la vista più debole. Dal primo giorno in cui vidi i suoi occhi, sulla Terra, fino a quest'ultima visione di lei in Paradiso, la mia narrazione non è mai stata interrotta; ma ora è inevitabile che io desista dal tentativo di esprimere la sua bellezza, scrivendo i miei versi, come un artista che ha raggiunto il limite massimo delle sue capacità. E lei, così luminosa la lascio descrivere a poeti, più abili di me che ormai mi appresto a concludere questa descrizione del Paradiso, con l'atteggiamento e la voce di un condottiero esperto ricominciò: "Noi siamo usciti fuori dal cielo più esteso (Primo Mobile) a quello (Empireo) che è fatto di pura luce: una luce intellettuale, piena d'amore divino; un amore di autentico bene, pieno di gioia; una gioia che supera ogni dolcezza. Qui tu vedrai entrambe le schiere del Paradiso, angeli e beati, e quest'ultima ti si mostrerà con quell'aspetto, col corpo terreno, che vedrai il Giorno del Giudizio". Come un lampo improvviso che annienta la vista umana, cosicché rende l'occhio incapace di vedere altre cose, così fui avvolto da una luce vivissima che mi fasciò col suo fulgore di un velo tale che non mi fu possibile vedere nient'altro. "Dio che con il suo amore rende quieto questo cielo accoglie sempre l'anima che vi entra con un simile saluto, per renderle capaci di sostenere la sua immensa luce". Non feci in tempo a pronunciare per intero questo discorso, che già io compresi che le mie facoltà naturali percettive stavano andando accrescendosi; e riacquistai una nuova capacità visiva, tale da riuscire a sopportare adeguatamente qualsiasi luce anche la più intensamente splendente; e vidi un fulgore che scorreva come un fiume di luce rosseggiante, tra due rive decorate di una bellissima fioritura primaverile. Da questo fiume uscivano delle scintille infuocate, che si mettevano in ogni parte tra i fiori di entrambe le rive, simili a rubini incastonati nell'oro; poi come se fossero inebriate dal profumo, di nuovo sprofondavano nel meraviglioso fiume luminoso; e se una vi entrava, un'altra usciva subito fuori. "L'intenso desiderio di sapere ciò che vedi, che adesso ti infiamma e ti affligge, mi rende tanto più felice quanto più esso è intenso; ma è necessario che tu beva ancora di quest'acqua, prima che una tale sete (di sapere) sia dentro di te saziata": così mi disse Beatrice, sole dei miei occhi. E aggiunse ancora: "Il fiume e gli angeli che entrano ed escono, e la bellezza dei fiori sono anticipazioni simboliche della verità che in essi si racchiude. Non è che queste cose siano di per sé imperfette, ma c'è una mancanza da parte tua, poiché ancora non hai la vista pronta a osservare tali spettacoli". Nessun bambino, se si è svegliato più tardi di come è solito fare, si precipita improvvisamente verso la mammella della mamma per il latte, come feci io, per rendere i miei occhi ancora degli specchi migliori, chinandomi verso quel fiume che scorre, affinché migliorasse la mia vista; e non appena l'orlo delle mie palpebre ebbe bevuto di quella visione, mi sembrò così che il lungo fiume fosse diventato circolare. Poi come persone che, avendo indossato delle maschere che le rendevano diverse di sembianza da come sono realmente, quando se le tolgono sono diverse da com'erano prima così i fiori e le scintille si trasformarono ai miei occhi in immagini più festose, cosicché vidi apertamente entrambi le corti del cielo, gli angeli e i beati. Oh splendore di Dio, grazie al quale vidi l'alto trionfo del regno paradisiaco, rendimi capace, con la virtù, di raccontarlo a parole, come lo fui di vederlo con gli occhi! Lassù nell'Empireo c'è una luce tale da rendere capaci di vedere Dio e quelle creature che trovano pace solamente nel contemplarlo. Tale luce si distende in una figura circolare (la rosa celeste), a tal punto che la sua circonferenza sarebbe assai più larga di quella del Sole. Tutto ciò che appare lassù si forma da un raggio della luce di Dio che si riflette sulla superficie concava del Primo Mobile, che trae da esso la sua esistenza e la sua virtù. E come un colle si specchia alle sue pendici nel lago, come per vedere la propria bellezza, quando è ricco di erbe verdi e fiori rigogliosi, così, sopra quel lago di luce, vidi specchiarsi da più di mille gradini tutte le anime che avevano terminato il loro esilio dalla Terra. E se il gradino più basso è capace di raccogliere in sé una luce tanto grande, pensa a quanto dev'essere ampia la circonferenza di questa rosa nei petali più esterni! La mia vista non si smarriva a causa dell'ampiezza e dell'estensione della rosa, ma percepiva interamente la quantità e la qualità di quell'allegria di beatitudine celeste. Lassù nell'Empireo non c'è differenza tra vicino o lontano, ma tutte le anime godono della visione di Dio in maniera uguale, poiché dove egli governa direttamente, la legge naturale perde valore. Beatrice, mentre io tacevo pur volendo parlare, mi condusse al centro della rosa eterna, che digrada verso il basso e si estende emanando un profumo di lode al Sole che la conserva in un'eterna Primavera (Dio), e mi disse: "Osserva quanto è esteso il concilio delle stole bianche dei beati! Vedi per quanto spazio si estende la nostra Gerusalemme celeste; vedi che i gradini di quella rosa sono tanto affollati, che ben pochi di essi sono rimasti liberi. In quel gran seggio su cui tieni fisso il tuo sguardo a causa della corona che vi è deposta sopra, prima che tu ti unisca a questo banchetto celeste per sempre, si siederà l'anima del nobile Arrigo VII, che sarà imperatore sulla terra e verrà a riportare giustizia in Italia, governandola bene, prima che essa sia pronta ad accoglierla. La cieca avarizia che vi seduce e vi acceca, vi ha reso simili al bambino che, pur morendo di fame, tuttavia manda via la nutrice. E sul soglio pontificio siederà allora un papa che apertamente si comporterà nei suoi confronti in maniera diversa da quanto farà in segreto. Ma Dio lo tollererà poco tempo nel ruolo di vicario di Cristo, poiché egli sarà spinto giù, nella buca della terza bolgia, dove si trova già il magio Simone per i suoi crimini, e ancora più a fondo spingerà il papa di Anagni (Bonifacio VIII). |
Riassunto
Ascesa all'Empireo - vv. 1-60
Il trentesimo Canto del Paradiso di Dante inizia con una visione in cui le stelle, una dopo l'altra, iniziano a spegnersi man mano che l'aurora s'avvicina. Allo stesso modo, la percezione dei cori angelici svanisce agli occhi del poeta.
Dante, quindi, volge lo sguardo verso Beatrice, la cui bellezza trascende la capacità umana di descrizione, tanto che il poeta rinuncia a fornirne una rappresentazione dettagliata.
Beatrice informa Dante che sono giunti all'Empireo, l'ultimo dei cieli. Qui Dante sarà testimone della gloria dei beati, che si mostreranno con i loro corpi come appariranno al Giorno del Giudizio. In un istante, Dante è sopraffatto dalla luce intensa che irradia dall'Empireo, e quando la sua vista si ripristina, questa è ora così potenziata da essere in grado di sostenere qualsiasi splendore.
Il fiume di luce - vv. 61-81
Grazie alla nuova chiarezza della sua visione, Dante riesce a scorgere un fiume di luce che scorre tra due rive miracolosamente fiorite. Dal fiume emergono scintille incandescenti che si posano delicatamente sui fiori e, dopo essersi inebriate dei loro profumi, vi ritornano, immergendosi di nuovo nelle acque. Le scintille che si staccano dal fiume per posarsi sui fiori sono gli angeli, che agiscono come intermediari tra Dio e i beati, rappresentati dai fiori stessi.
Beatrice esorta Dante a concentrarsi sul fiume di luce, affinché il suo desiderio di conoscenza possa essere appagato. Tuttavia, Beatrice gli spiega che il suo sguardo non è ancora pronto a comprendere appieno le realtà divine – Dio, gli angeli e i beati – ma è in grado di coglierne l'anticipazione, una sorta di riflesso imperfetto.
La rosa dei beati - vv. 82-148
Dante concentra lo sguardo sul fiume di luce e finalmente si rivela la visione autentica: è la Rosa dei beati, una vastissima arena a forma di anfiteatro, i cui gradini sono occupati dagli spiriti beati nelle loro sembianze umane. Essi contemplano la luce divina riflessa nel lago luminoso che occupa il centro dell'anfiteatro.
Beatrice guida Dante a individuare tra i seggi degli spiriti beati uno che risulta ancora vuoto, ma sul quale già giace una corona imperiale. Questo seggio è destinato a ospitare l'imperatore Arrigo VII, il quale scenderà in Italia con l'intento di risollevare le sorti del paese. Tuttavia, papa Clemente V ostacolerà il suo cammino. Beatrice prosegue nella sua profezia, annunciando che, dopo la morte di Arrigo VII, anche Clemente V morirà in breve tempo e prenderà il posto di Bonifacio VIII nell'Inferno, precisamente nella bolgia dove è punito Simon Mago (cfr. Inferno, Canto 19).
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto apre con la descrizione dell'Empireo, che occupa gli ultimi quattro Canti del poema, e presenta i cori angelici e la candida rosa dei beati, preludio alla visione di Dio, che segna la conclusione del viaggio ultraterreno di Dante. In questo contesto, si registra un ulteriore innalzamento del linguaggio e dello stile, visibile già all'inizio del Canto con una complessa similitudine astronomica che paragona le stelle che svaniscono all'alba alla graduale scomparsa dei cerchi luminosi, per poi proseguire con l'intensa lode alla bellezza di Beatrice. La sua bellezza è descritta come sovrumana, al punto che Dante sostiene che solo Dio può apprezzarla pienamente. Questo non si limita alla consueta ammissione poetica di inadeguatezza di fronte alla visione celeste, ma riflette anche il processo attraverso cui Beatrice perde l'umanità che ancora conservava per riacquistare la sua essenza ultraterrena, in qualità di simbolo della grazia santificante. Sarà proprio Beatrice a preparare Dante all'ascesa al X Cielo, dove vedrà non solo gli angeli, ma anche i beati che, pur con il corpo mortale, riceveranno la loro vera forma solo nel Giorno del Giudizio. A Dante è concesso un privilegio straordinario. A partire dal Canto XXXI, sarà poi san Bernardo a sostituire Beatrice nella guida verso la visione finale della mente divina.
Anche l'ingresso nell'Empireo è descritto con solennità, introducendo una rappresentazione più alta e astratta, lontana dalle rappresentazioni paradisiache dei poeti precedenti. Dante invoca l'ispirazione divina, preparando il lettore all'epilogo della Cantica. Dopo essere stato avvolto da una luce abbagliante che inizialmente lo priva della capacità di vedere, Dante acquista progressivamente una visione più acuta, che gli permette di osservare i trionfi degli angeli e dei beati in un processo graduale che ricorda il tema del "trasumanar", già accennato in tutta la Cantica. Questo tema assume, nei Canti finali, tratti di un'esperienza mistica. È stato osservato che il verbo "vedere" ricorre frequentemente in questo Canto, a sottolineare la straordinarietà della visione concessa a Dante, che ha il compito di raccontarla con i limitati mezzi della sua parola poetica, in un'esperienza simile a quella vissuta da san Paolo.
La rappresentazione degli angeli e dei beati è fondata sulla sensazione visiva, con immagini di un fiume di luce che scorre tra rive fiorite, simboleggiando gli angeli che fanno da tramite tra Dio e i beati. Le similitudini poetiche sono complesse: gli angeli sono paragonati a rubini incastonati nell'oro, e più avanti a topazi, mentre i fiori sono usati come simbolo di una bellezza celeste che non è percepita dai sensi fisici, ma esclusivamente dallo spirito. Dante è avvertito che ciò che vede non è la realtà in sé, ma solo una prefazione umbrifera della verità, in quanto la sua vista non può sostenere la piena rivelazione. Tuttavia, il poeta è invitato a "bere" da questa visione, come un bambino che si rifugia al seno materno, metafora di un nutrimento spirituale che arricchisce l'anima.
Questa esperienza si culmina con la rappresentazione della rosa dei beati, che Dante descrive come un immenso anfiteatro di luce, dove i beati siedono nei loro seggi, nella forma di un lago circolare di luce. Nonostante le enormi distanze, Dante afferma che la sua vista è capace di cogliere ogni minimo dettaglio, poiché l'Empireo, al di fuori dello spazio e del tempo, non è un luogo fisico soggetto alle leggi naturali. Il paragone con una rosa non è inedito nella letteratura mistica del Due-Trecento, ma Dante lo arricchisce con una visione solenne e al tempo stesso semplice, rappresentando la corte celeste dove regnano Dio, gli angeli, Maria e i beati.
Questa descrizione segna una chiara novità rispetto alla tradizione religiosa precedente e rappresenta un segno distintivo dell'opera di Dante, che rivendica il merito di aver offerto una visione poetica unica, destinata a garantire la sua fama nei secoli. La rosa celeste dei beati è descritta da Beatrice come la Gerusalemme celeste, la città di Dio dove tutte le anime salve risiedono. La sua purezza è contrastata dalla corruzione del mondo terreno, con una critica che va anche a colpire la politica di Papa Clemente V, accusato di aver ostacolato il piano divino. Beatrice, dopo aver descritto la magnificenza del Paradiso, lancia una dura invettiva contro l'avidità degli uomini, che porta alla loro perdizione, e profetizza la beatitudine dell'imperatore Arrigo VII, la cui morte prematura impedì il completamento della sua missione. La critica alla cupidigia si inserisce nel più ampio contrasto tra la grandezza del Paradiso e la miseria terrena, un tema ricorrente nei Canti finali del Paradiso. La profezia di Beatrice, che conclude con l'affermazione che Clemente V finirà nella stessa bolgia di Bonifacio VIII, avverte tutti coloro che ostacolano i disegni divini, mentre si preannuncia la futura purificazione della società, affidata a una figura misteriosa, forse Cangrande della Scala.
Passi Controversi
La similitudine che apre il Canto (vv. 1-9) descrive un contrasto tra il momento dell'alba sulla Terra e il mezzogiorno che si verifica a migliaia di miglia di distanza a oriente. Questo si traduce nella proiezione del cono d'ombra del mondo, che arriva quasi al piano orizzontale. Quando sorge il sole, le stelle cominciano a perdere la loro brillantezza, per poi svanire gradualmente. Dante aveva calcolato la circonferenza della Terra intorno alle 20.000 miglia e stimava che il Sole percorresse 850 miglia all'ora, arrivando a coprire circa 5950 miglia in sette ore, dal sorgere dell'aurora al mezzogiorno. Il "mezzo del cielo" al v. 4 si riferisce all'atmosfera, che separa l'osservatore dal cielo stellato.
L' "ancella del sole" (vv. 7-8) è l'Aurora, che rappresenta la luce che annuncia l'inizio del giorno. L'espressione "il triunfo che lude" (v. 10) fa riferimento ai cori angelici che ruotano festosamente attorno a Dio. Nel v. 18, il termine "vice" denota il "compito" o "ufficio" che viene eseguito da chi è incaricato di una funzione divina. Quando si parla del "viso che più trema" al v. 25, si fa riferimento alla difficoltà di sostenere lo sguardo davanti alla potenza luminosa del sole.
Nel v. 30, il termine "preciso" indica che nulla ha mai impedito a Dante di comprendere, tranne quella visione divina che ora sta vivendo. Il v. 36 usa la metafora della "tuba" per rappresentare la voce poetica di Dante. Il "maggior corpo" (v. 39) è il Primo Mobile, mentre "il ciel ch'è pura luce" si riferisce all'Empireo, la sfera di Dio. Al v. 42, "dolzore" è un termine provenzale che significa "dolcezza" e si collega al piacere spirituale e alla beatitudine.
Nel v. 43-45, "l'una e l'altra milizia di paradiso" si riferisce agli angeli e ai beati, con i beati che appaiono a Dante come esseri umani, come saranno nel Giorno del Giudizio. Al v. 46, il verbo "discetti" significa "disperda" o "sciolga" in riferimento a una verità che si svela. Dante si riflette nel racconto di san Paolo, nel quale descrive l'esperienza della folgorazione sulla via di Damasco (Atti 22,6-11), che inizia con una luce accecante che annulla ogni visione terrena.
Nel v. 53, "salute" può riferirsi sia a "saluto" che a "beatitudine", segnando il momento in cui Dante inizia a comprendere pienamente il significato della visione che sta vivendo. Il v. 62 usa "fluvido" per indicare una luce che fluisce e inizia a diventare rossa, in un rimando alle tradizionali rappresentazioni angeliche di colorito rosso. Nel v. 63, la "primavera" allude a una fioritura di comprensione che Dante sta sperimentando. Al v. 68, "miro gurge" descrive l'ammirazione per un gorgo di luce che inizia a rivelarsi come meraviglioso.
Nei vv. 78-82, Dante vede degli adombramenti (o anticipazioni) della verità che si stanno rivelando a lui, come immagini di luce che appaiono in forma di fiume e fiori. La similitudine dei vv. 91-96 paragonano questi momenti di rivelazione a coloro che si liberano delle maschere, mostrandosi finalmente per ciò che sono veramente, un tema che si ripete in altre occasioni nel poema.
I vv. 103-105 sembrano indicare che la rosa dei beati, che rappresenta la beatitudine celeste, ha una grandezza che supera quella del Cielo del Sole, ma non quella del Sole stesso. Al v. 121, Dante sottolinea che nell'Empireo, la distanza non ha importanza, poiché la visione di Dio avviene senza intermediazioni. Il "giallo della rosa sempiterna" (v. 124) è una metafora per il centro di questa rosa, dove si trova la purezza e l'essenza della beatitudine.
Il concetto di "redole" (v. 125), che significa "profuma", viene usato per enfatizzare l'armonia divina emanata dagli angeli e dalla rosa dei beati. Al v. 127, Dante, che tace e desidera parlare, riflette sul proprio ruolo di poeta e testimone della verità. Le "bianche stole" (v. 129) simboleggiano le anime dei beati, che appaiono purificate e pronte a ricevere la loro gloria.
Infine, nel v. 135, Dante profetizza che l'anima di Arrigo VII di Lussemburgo siederà tra i beati prima della sua morte, facendo un'allusione alla sua futura beatitudine. Questo banchetto nuziale è una metafora biblica della salvezza. Al v. 136, "agosta" indica la dignità imperiale di Arrigo VII, il cui fallimento è attribuito alla manipolazione di Clemente V, che lo ingannò con false promesse di supporto. Beatrice prevede la dannazione di Clemente V, che si unirà a papa Bonifacio VIII tra i simoniaci nella terza bolgia dell'Inferno.
Fonti: libri scolastici superiori