Parafrasi e Analisi: "Canto XX" - Paradiso - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XX del Paradiso di Dante Alighieri si inserisce nel cuore della sezione dedicata alla contemplazione della gloria dei beati. In questo canto, l'attenzione si sposta sulla sfera dell'intelletto e sulla luce divina che pervade la vita eterna, un aspetto centrale della visione dantesca del divino. Il tema del Canto esplora il rapporto tra la verità assoluta e la comprensione umana, con Dante che si avvicina sempre di più alla comprensione piena del mistero divino. Questo canto si distingue per l'intensità dell'esperienza mistica e per la riflessione su come l'uomo possa avvicinarsi alla comprensione di Dio, ma al tempo stesso restare consapevole dei limiti della sua natura. Il percorso di Dante, ormai immerso nella luce di Dio, si fa sempre più intricato, mentre il poeta cerca di svelare il significato profondo dell'universo e dell'esistenza, in un continuo sforzo di elevazione spirituale.


Testo e Parafrasi


Quando colui che tutto 'l mondo alluma
de l'emisperio nostro sì discende,
che 'l giorno d'ogne parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima s'accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende;

e questo atto del ciel mi venne a mente,
come 'l segno del mondo e de' suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente;

però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci.

O dolce amor che di riso t'ammanti,
quanto parevi ardente in que' flailli,
ch'avieno spirto sol di pensier santi!

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond' io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,

udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando l'ubertà del suo cacume.

E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com' al pertugio
de la sampogna vento che penètra,

così, rimosso d'aspettare indugio,
quel mormorar de l'aguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio.

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov' io le scrissi.

«La parte in me che vede e pate il sole
ne l'aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,

perché d'i fuochi ond' io figura fommi,
quelli onde l'occhio in testa mi scintilla,
e' di tutti lor gradi son li sommi.

Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l'arca traslatò di villa in villa:

ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch'è altrettanto.

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s'accosta,
la vedovella consolò del figlio:

ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l'esperïenza
di questa dolce vita e de l'opposta.

E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l'arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:

ora conosce che 'l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l'odïerno.

L'altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:

ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia 'l mondo indi distrutto.

E quel che vedi ne l'arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:

ora conosce come s'innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.

Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?

Ora conosce assai di quel che 'l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».

Quale allodetta che 'n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l'ultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta
de l'etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell' è diventa.

E avvegna ch'io fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch'el veste,
tempo aspettar tacendo non patio,

ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch'io di coruscar vidi gran feste.

Poi appresso, con l'occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso:

«Io veggio che tu credi queste cose
perch' io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose.

Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome.

Regnum celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate:

non a guisa che l'omo a l'om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza.

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.

D'i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d'i passuri e quel d'i passi piedi.

Ché l'una de lo 'nferno, u' non si riede
già mai a buon voler, tornò a l'ossa;
e ciò di viva spene fu mercede:

di viva spene, che mise la possa
ne' prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa.

L'anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla;

e credendo s'accese in tanto foco
di vero amor, ch'a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco.

L'altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l'occhio infino a la prima onda,

tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l'occhio a la nostra redenzion futura;

ond' ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.

Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d'un millesmo.

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!

E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti;

ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s'affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo».

Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina.

E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,

sì, mentre ch'e' parlò, sì mi ricorda
ch'io vidi le due luci benedette,
pur come batter d'occhi si concorda,

con le parole mover le fiammette.
Quando il Sole che illumina tutto il mondo
tramonta dal nostro emisfero,
così che il giorno scompare in ogni parte

il cielo, che durante il giorno risplende solo del suo (del Sole) bagliore,
prontamente si fa di nuovo lucente
grazie a molte stelle, nelle quali brilla una sola;

e questo fatto del cielo mi venne in mente,
quando (l'aquila) il segno del mondo e dei suoi re
tacque nel suo becco benedetto;

perciò tutte quelle splendenti luci,
diventando più luminose, iniziarono canti
che la mia memoria non può ricordare pienamente.

O ardore di carità che della tua gioia ti fai un manto di luce,
come sembravi splendente in quegli strumenti musicali (le anime),
che risuonavano soltanto di pensieri santi!

Dopo che le preziose e scintillanti anime
che adornano come gemme il sesto cielo
rimasero in silenzio interrompendo il loro canto angelico,

mi sembrò di udire un mormorio di un fiume
che scende limpido tra un pietra e l'altra,
mostrando la ricchezza della sua sorgente.

E come il suono della chitarra ha
origine a partire dal collo, e come quello della zampogna
dal foro attraverso cui entra i soffio d'aria,

così, quel mormorio dell'aquila
salì su per il suo collo, come se fosse forato,
tolto ogni indugio subito.

Qui si tramutò in voce, e quindi uscì
dal suo becco in forma di parole,
che il mio cuore aspettava e dentro il quale le impressi.

"La parte in me che nelle aquile terrene
guarda e sopporta il sole (l'occhio)", iniziò a dire,
"ora si deve guardare attentamente,

perché delle anime che formano la mia figura,
quelle che brillano costituendo i miei occhi,
sono tra tutti i beati, i più importanti.

Colui che splende in mezzo come pupilla,
fu il cantore ispirato dallo Spirito Santo (re David),
tra trasportò l'arca santa di città in città:

ora (in Paradiso) può comprendere il valore del suo canto,
che fu effetto della sua libera volontà,
attraverso il premio che gli è stato dato in cambio.

Dei cinque beati che formano l'arco del ciglio superiore,
colui che più si avvicina al mio becco, (Traiano)
consolò la povera vedova per la morte del figlio:

ora sa quanto sia caro
non seguire Cristo, sia per l'esperienza
di questa dolce vita (in Paradiso), sia dell'opposta (nel Limbo).

E colui che lo segue nell'arcata del ciglio
di cui parlo, nella parte superiore,
rimandò la propria con una penitenza sincera (re Ezechiele):

ora (in Paradiso) sa che il giudizio eterno
non si cambia per il fatto che la preghiera di un uomo giusto
ottiene che sia rimandato a domani ciò che doveva avvenire oggi.

L'altro che viene dopo (Costantino), trasferì,
con buona intenzione che ebbe però cattivi effetti,
l'impero in Oriente per cedere il dominio di Roma al pontefice:

ora (in Paradiso) comprende come il male scaturito
dalla sua buona azione non è stato per lui una colpa,
sebbene abbia provocato la rovina del mondo.

E quello che vedi nella parte discendete dell'arcata,
fu Guglielmo (il Buono), rimpianto da quella regione (Puglia e Sicilia)
che soffre sotto Carlo (II d'Angiò) e Federico (d'Aragona):

ora (in Paradiso) sa come il cielo compiace
un re giusto, e lo dimostra anche
col suo aspetto splendente di luce.

Chi, sulla Terra, crederebbe
che Rifeo Troiano fosse la quinta
delle anime beate di questo cerchio?

Ora (in Paradiso) sa molto di quel che il mondo terreno
non può conoscere della grazia divina,
anche se la sua vista non arriva in profondità".

Come un'allodola che vola nell'aria
prima cantando, e poi felicemente zitta,
saziata delle ultime dolci noti del canto,

così mi sembrò l'immagine della figura (dell'aquila)
dell'eterno piacere, per il cui desiderio
trasforma ogni cosa in ciò che deve essere.

E sebbene, il mio dubbio apparisse con chiarezza a quelle anime
come un vetro che fa trasparire il colore che ricopre,
non riuscii ad aspettare, tacendo, una risposta al dubbio,

ma dalla bocca, "Cos'è tutto ciò?",
fui spinto a dire, per la forza della sua (del dubbio) importanza:
per cui vidi le anime brillare più intensamente per la grande gioia.

Subito dopo, con l'occhio più brillante,
la benedetta aquila mi risposa
per non tenermi sulle spine nel mio stupore:

"Vedo che tu credi queste cose
perché io le dico, ma non comprendi la ragione;
così che, seppur ci credi, ti sono oscure.

Fai come chi impara i nomi delle cose bene
ma non è in grado di vederne l'essenza
se qualcun'altra non gliela mostra.

Il Regno dei Cieli sopporta la violenza
che viene dal caldo amore e dalla viva speranza dell'uomo
che vince la volontà divina:

non come l'uomo che sopraffà un altro uomo,
ma la vince perché essa vuol essere vinta,
e, vinta, vince ancora una volta per la sua bontà.

La storia della prima e della quinta anima (quelle di Traiano e di Rifeo)
ti fanno meravigliare, perché dimorano
nella regione degli angeli, il paradiso.

Essi non morirono, come credi,
pagani, ma cristiani, fermamente credenti
l'uno (Rifeo) in Cristo venturo e l'altro (Traiano) in Cristo già venuto.

Cosicchè la prima anima resuscitò dall' inferno
dove non ci si può redimere e tornare a volere il bene;
e ciò fu il premio di viva speranza;

viva speranza che rese efficaci
le preghiere fatte a Dio affinché ella resuscitasse,
cosicché potesse convertirsi al bene.

L'anima gloriosa della quale si parla (Traiano)
tornata per poco tempo nel suo corpo,
credette in Cristo che poteva redimerla;

e credendo in Lui si infiammò in tanto ardore di carità
che morendo una seconda volta
fu ritenuta degna di salire in questo regno di eterna felicità.

L'altra anima (Rifeo) per dono di grazia
che da una fontana così profonda sgorga,
che mai creatura giunse a contemplarne l'origine,

rivolse tutto il suo amore, sulla terra, verso la giustizia;
per cui di grazia in grazia Dio gli rivelò
il mistero della redenzione futura:

perciò egli credette in quella fede, e non sopportò
da quel momento più il pensiero dell'esser pagano;
e ne rimproverava le genti sviate in quell'errore.

Quelle tre donne che tu vi vedesti alla ruota destra del carro, (le tre virtù teologali)
lo tennero a battesimo più di mille anni prima
che fosse istituito il battesimo.

O predestinazione divina, quanto è lontana
la tua fonte da quegli sguardi
che non possono vedere compiutamente Dio!

E voi, uomini mortali, siate cauti
nel giudicare; poiché noi, che vediamo Dio, ancora
non conosciamo tutti gli eletti alla salvezza;

E questo limite che ci è imposto è lieve per noi
perché la nostra beatitudine si perfeziona in questo piacere,
che la volontà di Dio è la nostra volontà".

Così da quell'immagine divina (l'aquila)
per rischiarare la debole vista
mi fornì un piacevole rimedio.

E come il buon citarista accompagna un buon cantore
con il guizzo delle corde,
e da ciò il canto è reso più piacevole,

così finché l'aquila parlò, mi ricordo
di aver visto le due luci benedette
come due occhi che si chiudono contemporaneamente,

muovere le loro fiammelle insieme.



Riassunto


vv. 1-30: Il Canto dei Giusti e la Voce dell'Aquila
Quando l'aquila tace, le luci che la compongono diventano più intense, come le stelle che emergono nel cielo al calar del sole. Ogni luce comincia a intonare il suo canto, ma questo viene presto sovrastato da un suono nuovo, che inizialmente appare indistinto, simile al rumore di un fiume che scorre. Questo suono è il risultato del confluire delle voci delle anime che si uniscono nel collo dell'aquila, creando così la sua voce. Dopo questo momento, l'aquila riprende a parlare.

vv. 31-78: Gli Spiriti che Formano l'Occhio dell'Aquila
L'aquila descrive il suo occhio, composto dalla luce di sei spiriti. La pupilla, che brilla al centro, è rappresentata da Davide, il re giusto di Israele, che nei Salmi cantò ispirato dallo Spirito Santo. Il contorno dell'occhio è formato da altri cinque spiriti: l'imperatore Traiano, che morì come pagano, ma fu resuscitato grazie alle preghiere di Gregorio Magno, meritando così la salvezza; Ezechia, re di Giuda, che ottenne da Dio il rinvio della sua morte per poter pentirsi delle sue colpe; l'imperatore Costantino, che, credendo di compiere un atto di devozione, cedette al papa la sovranità su Roma, evento che in seguito portò alla decadenza dell'Impero; Guglielmo II d'Altavilla, re di Sicilia, esempio di giustizia, in netto contrasto con i suoi successori malvagi, già condannati nel canto precedente; e infine Rifeo, compagno di Enea, il cui atto di giustizia fu premiato dalla grazia divina, che lo salvò, nonostante fosse sconosciuto a Cristo.

vv. 79-148: Dubbio di Dante ed Esposizione Teologica: La Predestinazione
Di fronte alla salvezza di Traiano e di Rifeo, pagani, Dante non riesce a nascondere la sua meraviglia. L'aquila riprende allora il suo discorso, spiegando, partendo da una citazione di Matteo 11, 12, come la volontà di Dio possa essere influenzata dalla carità e dalla speranza, tanto che Dio stesso sceglie di lasciarsi vincere da esse. Nel caso di Traiano, il breve ritorno alla vita concesso dalle preghiere di Gregorio permise al suo spirito di uscire dallo stato di dannazione e di orientarsi di nuovo verso il bene, accogliendo la fede. Per quanto riguarda Rifeo, che non conobbe Cristo, fu Dio a rivelargli la verità della salvezza, e il suo battesimo fu di natura spirituale. Dopo aver abbracciato la fede, che difese con zelo, ricevette il dono delle virtù teologali. In entrambi i casi, è la grazia divina che determina la salvezza finale, ed è questa la realtà misteriosa della predestinazione, incomprensibile anche agli stessi beati.


Figure Retoriche


v. 1: "Colui che tutto 'l mondo alluma: Perifrasi. Per indicare il sole.
v. 2: "De l'emisperio nostro: Anastrofe.
v. 8: "'l segno del mondo e de' suoi duci: Perifrasi. S'intende l'aquila.
v. 12: "Labili e caduci: Dittologia.
vv. 13-15: "O dolce amor che di riso t'ammanti quanto parevi ardente in que' flailli, ch'avieno spirto sol di pensier santi!: Apostrofe.
v. 16: "Cari e lucidi: Endiadi.
v. 17: "Il sesto lume: Perifrasi. Per indicare il sesto pianeta Giove.
v. 19: "Udir mi parve: Anastrofe.
vv. 22-27: "E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e sì com'al pertugio de la sampogna vento che penètra, così, rimosso d'aspettare indugio, quel mormorar de l'aguglia salissi su per lo collo, come fosse bugio: Similitudine.
v. 26: "Aguglia: Perifrasi. Per indicare l'aquila.
vv. 31-32: "La parte in me che vede e pate il sole ne l'aguglie mortali: Perifrasi. Per indicare l'occhio.
v. 31: "Vede e pate: Endiadi.
vv. 38-39: "Il cantor de lo Spirito Santo che l'arca traslatò di villa in villa: Perifrasi. Per indicare re David.
vv. 44-45: "Colui che più al becco mi s'accosta, la vedovella consolò del figlio: Perifrasi. Per indicare Traiano.
v. 48: "Dolce vita e de l'opposta: Eufemismo. Per indicare il Paradiso e l'Inferno.
vv. 49-51: "E quel che segue in la circunferenza di che ragiono, per l'arco superno, morte indugiò per vera penitenza: Perifrasi. Per indicare re Ezechia.
vv. 55-57: "L'altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fé mal frutto, per cedere al pastor si fece greco: Perifrasi. Per indicare Costantino.
v. 62: "Guiglielmo fu: Anastrofe.
v. 63: "Carlo e Federigo vivo: Sineddoche. Il singolare per il plurale, cioè: "dai vivi Carlo II d'Angiò e Federico II d'Aragona".
v. 67: "Nel mondo errante: Perifrasi. Per indicare la Terra.
v. 71: "Divina grazia: Anastrofe.
vv. 73-77: "Quale allodetta che 'n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de l'ultima dolcezza che la sazia, tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta de l'etterno piacere: Similitudine.
vv. 76-77: "L'imago de la 'mprenta de l'etterno piacere: Perifrasi. Per indicare l'aquila.
v. 79: "Al dubbiar mio: Anastrofe.
v. 80: "Lì quasi vetro a lo color ch'el veste: Similitudine.
v. 86: "Benedetto segno: Perifrasi. Per indicare l'aquila.
vv. 91-93: "Fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate veder non può se altri non la prome: Similitudine.
v. 96: "Divina volontate: Anastrofe.
v. 97: "Non a guisa che l'omo a l'om sobranza: Similitudine.
vv. 98-99: "Vince ... vinta ... vinta ... vince: Figura Etimologica. Hanno la stessa radice.
v. 100: "La prima vita del ciglio e la quinta: Perifrasi. Per indicare Traiano e Rifeo.
v. 102: "La region de li angeli: Perifrasi. Per indicare il Paradiso.
v. 113: "La carne: Metonimia. La materia per l'oggetto, nella carne anziché nel suo corpo.
v. 114: "In lui che potea aiutarla: Perifrasi.
v. 117: "Questo gioco: Perifrasi. Per indicare la beatitudine.
v. 123: "Li aperse l'occhio: Sineddoche.
v. 127: "Quelle tre donne: Allegoria. Per indicare le tre virtù teologali.
v. 130-132: "O predestinazion, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota!: Apostrofe.
v. 131: "Radice tua: Anastrofe.
v. 139: "Imagine divina: Perifrasi. Per indicare l'aquila.
vv. 142-146: "E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, in che più di piacer lo canto acquista, sì, mentre ch'e' parlò, sì mi ricorda ch'io vidi le due luci benedette, pur come batter d'occhi si concorda, con le parole mover le fiammette: Similitudine.
v. 146: "Le due luci benedette: Perifrasi. Per indicare Traiano e Rifeo.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto XX di Dante Alighieri si collega strettamente al precedente, formando un'unità che approfondisce ulteriormente la questione della giustizia divina e della salvezza. Nel Canto XIX, l'aquila aveva esaminato il destino degli uomini virtuosi ma privi di fede, come i pagani, relegati nel Limbo, e aveva trattato il concetto del giudizio divino, che sfugge alla ragione umana. Il Canto XX, invece, si concentra sulla salvezza di alcuni pagani che, grazie a meriti particolari, sono stati ammessi al Paradiso. Questo tema viene affrontato attraverso gli esempi di Rifeo e Traiano, due figure che, pur essendo pagani, ottengono la salvezza per intervento divino, dimostrando l'impossibilità di comprendere pienamente le logiche divine.

Il Canto si apre con l'immagine luminosa dell'aquila, il simbolo della divinità, che risplende nel Cielo dei beati mentre essi cantano un inno ineffabile. La sua voce, inizialmente indistinta come un mormorio, diventa via via comprensibile, paragonata al suono di una cetra o di una zampogna, proprio per aiutare Dante a percepire il messaggio celeste. L'aquila presenta sei beati che formano il suo "occhio", i quali, secondo la sua visione, sono i più giusti tra gli spiriti celesti. La presenza di sovrani giusti, come David e Traiano, tra questi beati, suggerisce che la giustizia dei principi è fondamentale per comprendere la salvezza. Tuttavia, Traiano, un imperatore romano che non aveva conosciuto la fede cristiana, rappresenta un caso inaspettato di salvezza, concessa grazie alla preghiera di Papa Gregorio Magno, che aveva interceduto per lui affinché credesse in Cristo.

Accanto a Traiano, l'altro caso sorprendente è quello di Rifeo, un personaggio tratto dall'Eneide, che, secondo Dante, ha ricevuto la salvezza per la sua eccezionale giustizia e la grazia divina, nonostante fosse vissuto secoli prima che il battesimo fosse istituito come sacramento. La sua salvezza solleva il tema della possibilità di redenzione per i pagani, una questione che per l'epoca di Dante appariva incomprensibile. L'aquila spiega che la salvezza di Traiano e Rifeo non è avvenuta tramite il battesimo formale, ma attraverso la fede che, pur se non cristiana, è stata sufficiente per ottenere la grazia divina.

Oltre a questi esempi straordinari, l'aquila menziona anche altri beati come Costantino, che, pur essendo responsabile della corruzione ecclesiastica per la sua Donazione, è comunque salvo, e Guglielmo II d'Altavilla, un sovrano più degno dei re contemporanei di Napoli e Palermo. L'aquila, concludendo il suo discorso, ribadisce che solo Dio conosce con certezza chi sarà salvato, e che questa ignoranza non è fonte di tristezza per i beati, ma anzi contribuisce alla loro felicità, poiché riflette la volontà divina.

Dante, sorpreso dalla salvezza di Traiano e Rifeo, esprime il suo stupore, sottolineando che i destini ultraterreni sono misteriosi e al di fuori della comprensione umana. L'aquila, nel rispondere a Dante, sottolinea che la salvezza di Traiano è stata possibile grazie all'intercessione di Papa Gregorio, mentre quella di Rifeo è dovuta alla sua giustizia. Questi episodi pongono in evidenza la difficile comprensione del giudizio divino e sollevano la questione della predestinazione. Secondo l'aquila, la grazia divina agisce in modi insondabili, come dimostrano le scelte divine di salvare personaggi che, secondo la logica umana, avrebbero dovuto essere esclusi dalla salvezza.

La Donazione di Costantino, che Dante critica duramente per le sue implicazioni politiche, si inserisce in questo contesto come esempio della corruzione che affliggeva la Chiesa nel suo tempo. Nonostante le sue colpe politiche, Costantino viene comunque incluso tra i beati, forse per la sua conversione al cristianesimo, anche se la sua azione politica ha avuto gravi conseguenze per la Chiesa e la società. In questo modo, il Canto XX non solo esplora la salvezza dei giusti, ma anche la complessità della grazia divina e della predestinazione, che rimangono misteriosi e inaccessibili alla mente umana.


Passi Controversi


Il verso 6 fa riferimento alla falsa convinzione che le stelle brillino grazie alla luce riflessa del Sole, il quale "illumina tutto il mondo". Al verso 14, il termine flailli, che appare solo in questa occasione nel poema, ha dato luogo a diverse interpretazioni. Potrebbe derivare da un francesismo, come flavel (flauto), con un possibile rimando al canto degli spiriti beati, oppure essere una forma derivata dal francese antico flael, da flacellum (fiaccola), per indicare lo splendore degli spiriti. Non è ancora possibile determinare con certezza quale delle due interpretazioni sia quella giusta, escludendo comunque che si tratti di un errore nei manoscritti.

Nei versi 31-33, l'aquila invita Dante a osservare il suo occhio, quella parte che "vede e soffre il Sole", facendo riferimento alla tradizione secondo cui l'aquila era capace di sostenere a lungo la visione del sole (cfr. Par., I, 48), una credenza che risale ad Aristotele (De animalibus) e a Brunetto Latini (Trésor). La figura dell'aquila, simbolo di nobiltà, parla di un unico occhio, come nel caso degli stemmi araldici, dove l'aquila viene rappresentata di profilo.

Nei versi 40-42 si allude alla spiritualità di David: sebbene il suo canto sembri frutto esclusivo dell'ispirazione divina, la sua beatitudine in Paradiso dimostra che anche la sua volontà ha contribuito a quel merito. Alcuni manoscritti suggeriscono la parola affetto, e alcuni studiosi propongono che il "consiglio" di David venga attribuito allo Spirito Santo, ma questa interpretazione è considerata dubbia. La frase ora conosce (v. 40) si ripete sei volte nel corso del canto, per ciascuno degli spiriti indicati dall'aquila, evidenziando l'inizio di ogni sezione dedicata ai singoli beati (vv. 40, 46, 52, 58, 64, 70).

I versi 43-48 si riferiscono a Traiano, considerato beato grazie alla sua azione caritatevole verso una vedova, già ricordata in Purgatorio (X, 73-93). Al verso 48 si fa riferimento al fatto che Traiano rimanesse nel Limbo fino a quando san Gregorio Magno, con le sue preghiere, lo resuscitò.

Il personaggio menzionato ai vv. 49-54 è comunemente interpretato come Ezechia, il re biblico che, attraverso ferventi preghiere, ottenne da Dio il dono di vivere altri quindici anni, nonostante la morte fosse stata annunciata. La Bibbia lo descrive come re giusto (IV Reg., XX, 3), giustificando così la sua presenza in Paradiso. Tuttavia, non è chiaro cosa Dante intenda per "vera penitenza", poiché nel testo sacro Ezechia si limita a pregare. Potrebbe essere che Dante consideri il pianto abbondante del re come segno di vero pentimento.

Nei versi 55-60 si parla di Costantino, l'imperatore che trasferì la capitale dell'Impero da Roma a Bisanzio, dando origine a gravi conseguenze politiche. La sua "donazione" e il suo spostamento in Oriente portarono con sé sia il simbolo dell'Impero che la legislazione, segno che Roma, ora governata dal Papa, era stata privata di una parte del suo potere. Potrebbe trattarsi di un'endiadi che indica in generale il potere imperiale.

I vv. 76-78 sono di difficile interpretazione, ma potrebbero riferirsi all'aquila come simbolo dell'impronta divina, rappresentando l'immagine dell'amore eterno di Dio. Il termine quiditate (v. 92), che in alcuni manoscritti è scritto come quidditate, appartiene al linguaggio scolastico e indica l'essenza di una cosa.

Nei vv. 94-99, Dante amplia un passo evangelico di Matteo (XI, 12), interpretando la violenza che investe il Regno dei Cieli come un segno della forza spirituale che ne consente la conquista. Il chiasmo nei versi 98-99, con l'alternanza di "vince" e "vinta", sottolinea la tensione tra il conflitto spirituale e la vittoria finale.

Il verso 105 fa riferimento a Rifeo, che, pur vivendo prima della nascita di Cristo, credette nel Messia, come Traiano, che credeva nel Cristo futuro. Il termine "piedi" diventa simbolo del sacrificio di Cristo sulla croce, con passuri e passi come forti latinismi che indicano i "piedi che avrebbero sofferto" e "quelli che avevano sofferto".

La spiegazione della salvezza di Traiano (vv. 106-114) riprende quasi parola per parola quella di san Tommaso d'Aquino nella Summa Theologica (Suppl., q. LXXI), dove si afferma che Traiano, grazie alle preghiere di san Gregorio Magno, fu resuscitato e quindi ricevette la grazia.

Il verso 116, parlando della "morte seconda", si riferisce al fatto che Traiano, una volta risuscitato, morì una seconda volta, ma senza alcun riferimento alla dannazione, come nel caso di Dante in Inferno I, 111.

Infine, nei vv. 127-129, si fa riferimento alle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che Dante ha visto personificate in tre donne durante la processione mistica in Purgatorio (XXIX, 121-129; XXXI, 130 ss.), indicando che queste virtù furono infuse direttamente da Dio in Rifeo, senza la necessità del battesimo.

Nel verso 132, la "prima cagion" è Dio, mentre al verso 143 seguitar significa semplicemente "accompagnare", e non "seguire" o "accordare", come alcuni interpreti suggeriscono.

Fonti: libri scolastici superiori

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