Parafrasi e Analisi: "Canto IX" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto IX del Purgatorio segna un momento di transizione cruciale nella struttura narrativa e simbolica della seconda cantica. Qui Dante si avvicina alla soglia del Purgatorio vero e proprio, lasciandosi alle spalle l'Antipurgatorio. Il canto è dominato da un'atmosfera solenne e carica di mistero, che prepara il pellegrino e il lettore all'ingresso in una dimensione più alta e spirituale del percorso purgatoriale.
In questo canto, il tema centrale è il passaggio, sia fisico che allegorico, attraverso un confine che separa il terreno dal sacro. Si introducono figure e immagini che accentuano l'importanza della Grazia divina nel percorso di redenzione, suggerendo che l'ascesa spirituale non può essere compiuta senza l'intervento di un potere superiore. La preghiera, la mediazione angelica e il ruolo simbolico della volontà divina emergono come elementi fondamentali per comprendere il processo di purificazione che Dante sta affrontando.
Il Canto IX rappresenta quindi un momento di introspezione e preparazione, che enfatizza il valore del pentimento e della consapevolezza nel cammino verso la salvezza.
Testo e Parafrasi
La concubina di Titone antico già s'imbiancava al balco d'orïente, fuor de le braccia del suo dolce amico; di gemme la sua fronte era lucente, poste in figura del freddo animale che con la coda percuote la gente; e la notte, de' passi con che sale, fatti avea due nel loco ov' eravamo, e 'l terzo già chinava in giuso l'ale; quand' io, che meco avea di quel d'Adamo, vinto dal sonno, in su l'erba inchinai là 've già tutti e cinque sedavamo. Ne l'ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, forse a memoria de' suo' primi guai, e che la mente nostra, peregrina più da la carne e men da' pensier presa, a le sue visïon quasi è divina, in sogno mi parea veder sospesa un'aguglia nel ciel con penne d'oro, con l'ali aperte e a calare intesa; ed esser mi parea là dove fuoro abbandonati i suoi da Ganimede, quando fu ratto al sommo consistoro. Fra me pensava: 'Forse questa fiede pur qui per uso, e forse d'altro loco disdegna di portarne suso in piede'. Poi mi parea che, poi rotata un poco, terribil come folgor discendesse, e me rapisse suso infino al foco. Ivi parea che ella e io ardesse; e sì lo 'ncendio imaginato cosse, che convenne che 'l sonno si rompesse. Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo là dove si fosse, quando la madre da Chirón a Schiro trafuggò lui dormendo in le sue braccia, là onde poi li Greci il dipartiro; che mi scoss' io, sì come da la faccia mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto, come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia. Dallato m'era solo il mio conforto, e 'l sole er' alto già più che due ore, e 'l viso m'era a la marina torto. «Non aver tema», disse il mio segnore; «fatti sicur, ché noi semo a buon punto; non stringer, ma rallarga ogne vigore. Tu se' omai al purgatorio giunto: vedi là il balzo che 'l chiude dintorno; vedi l'entrata là 've par digiunto. Dianzi, ne l'alba che procede al giorno, quando l'anima tua dentro dormia, sovra li fiori ond' è là giù addorno venne una donna, e disse: "I' son Lucia; lasciatemi pigliar costui che dorme; sì l'agevolerò per la sua via". Sordel rimase e l'altre genti forme; ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro, sen venne suso; e io per le sue orme. Qui ti posò, ma pria mi dimostraro li occhi suoi belli quella intrata aperta; poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro». A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta e che muta in conforto sua paura, poi che la verità li è discoperta, mi cambia' io; e come sanza cura vide me 'l duca mio, su per lo balzo si mosse, e io di rietro inver' l'altura. Lettor, tu vedi ben com' io innalzo la mia matera, e però con più arte non ti maravigliar s'io la rincalzo. Noi ci appressammo, ed eravamo in parte che là dove pareami prima rotto, pur come un fesso che muro diparte, vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa, di color diversi, e un portier ch'ancor non facea motto. E come l'occhio più e più v'apersi, vidil seder sovra 'l grado sovrano, tal ne la faccia ch'io non lo soffersi; e una spada nuda avëa in mano, che reflettëa i raggi sì ver' noi, ch'io dirizzava spesso il viso in vano. «Dite costinci: che volete voi?», cominciò elli a dire, «ov' è la scorta? Guardate che 'l venir sù non vi nòi». «Donna del ciel, di queste cose accorta», rispuose 'l mio maestro a lui, «pur dianzi ne disse: "Andate là: quivi è la porta"». «Ed ella i passi vostri in bene avanzi», ricominciò il cortese portinaio: «Venite dunque a' nostri gradi innanzi». Là ne venimmo; e lo scaglion primaio bianco marmo era sì pulito e terso, ch'io mi specchiai in esso qual io paio. Era il secondo tinto più che perso, d'una petrina ruvida e arsiccia, crepata per lo lungo e per traverso. Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia, porfido mi parea, sì fiammeggiante come sangue che fuor di vena spiccia. Sovra questo tenëa ambo le piante l'angel di Dio sedendo in su la soglia che mi sembiava pietra di diamante. Per li tre gradi sù di buona voglia mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi umilemente che 'l serrame scioglia». Divoto mi gittai a' santi piedi; misericordia chiesi e ch'el m'aprisse, ma tre volte nel petto pria mi diedi. Sette P ne la fronte mi descrisse col punton de la spada, e «Fa che lavi, quando se' dentro, queste piaghe» disse. Cenere, o terra che secca si cavi, d'un color fora col suo vestimento; e di sotto da quel trasse due chiavi. L'una era d'oro e l'altra era d'argento; pria con la bianca e poscia con la gialla fece a la porta sì, ch'i' fu' contento. «Quandunque l'una d'este chiavi falla, che non si volga dritta per la toppa», diss' elli a noi, «non s'apre questa calla. Più cara è l'una; ma l'altra vuol troppa d'arte e d'ingegno avanti che diserri, perch' ella è quella che 'l nodo digroppa. Da Pier le tegno; e dissemi ch'i' erri anzi ad aprir ch'a tenerla serrata, pur che la gente a' piedi mi s'atterri». Poi pinse l'uscio a la porta sacrata, dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti che di fuor torna chi 'n dietro si guata». E quando fuor ne' cardini distorti li spigoli di quella regge sacra, che di metallo son sonanti e forti, non rugghiò sì né si mostrò sì acra Tarpëa, come tolto le fu il buono Metello, per che poi rimase macra. Io mi rivolsi attento al primo tuono, e 'Te Deum laudamus' mi parea udire in voce mista al dolce suono. Tale imagine a punto mi rendea ciò ch'io udiva, qual prender si suole quando a cantar con organi si stea; ch'or sì or no s'intendon le parole. |
La sposa del vecchio Titone, l'Aurora, era ormai bianca all'orizzonte d'Oriente, come una donna al balcone che ha appena lasciato le braccia del suo uomo amato; di fronte a lei brillavano quelle stelle, della costellazione dello Scorpione, che formano in cielo l'immagine di quel freddo animale che colpisce le persone con la sua coda; e la notte, di tutti i passi che fa per salire in cielo, ne aveva fatti due nel luogo in cui ci trovavamo, e stava già portando a termine il terzo; quando io, che portavo con me il mio corpo materiale, eredità di Adamo, vinto dal sonno mi abbandonai sull'erba, là dove tutti e cinque ci eravamo già seduti. Nell'ora in cui comincia ad emettere i suoi tristi lamenti la rondine, sul far del mattino, forse ricordando le sue passate vicissitudini, ed in cui la mente umana, più libera dai limiti della carne e meno presa dai suoi pensieri razionali, attraverso le sue visioni oniriche diviene preveggente, mi sembrò di vedere in sogno un'aquila dalle penne d'oro sospesa nel cielo, con le sue ali aperte ed in procinto di scendere a terra; e mi sembrò di trovarmi nel luogo dove Ganimede abbandonò i suoi compagni, quando venne rapito e condotto alla suprema assemblea degli dei. Pensavo in sogno fra me: 'Forse questa aquila va a caccia soltanto qui per abitudine, forse disprezza di portar via la preda con gli artigli da un altro luogo'. Mi sembrò in seguito che, dopo aver volato roteando per un po', piombasse a terra in un modo spaventoso come fosse un fulmine, e mi rapisse portandomi in alto nel cielo fino alla sfera del fuoco. Giunti qui ebbi la sensazione che entrambi bruciassimo, e l'incendio che immaginavo sembrava tanto veritiero, scottava tanto che mi fece svegliare in modo brusco. Achille non si svegliò in modo diverso, rivolgendo intorno a sé gli occhi appena riaperti e non riuscendo a capire dove si trovasse, quando sua madre Teti lo portò via da Chirone tenendolo tra le sue braccia mentre ancora dormiva, per portarlo all'isola di Sciro, là dove i greci Ulisse e Diomede lo fecero poi allontanare; del modo in cui mi svegliai io, non appena dai miei occhi se ne andò il sonno, e diventai pallido come chi rimane di ghiaccio per uno spavento. Di fianco a me c'era soltanto il mio maestro Virgilio, il sole era già alto nel cielo da più di due ore, ed il mio sguardo era rivolto in direzione del mare. "Non avere paura", mi disse la mia guida; "tranquillizzati invece, perché siamo ad un buon punto; non frenare ma sprona al contrario ogni tua energia. Tu sei ormai arrivato al Purgatorio: puoi vedere là la parete rocciosa che lo circonda: e là dove la parete stessa sembra interrotta da una spaccatura, puoi vederne l'entrata. Poco fa, nel momento dell'alba che precede immediatamente il giorno, quando la tua anima dormiva profondamente nel tuo corpo, in mezzo ai fiori che adornano la valle laggiù venne una donna e disse: "Io sono Lucia; lasciate che prenda con me quest'uomo che dorme; così che possa facilitare il suo viaggio." Sordello e le altre anime nobili rimasero nella valle; lei ti sollevò e non appena il giorno divenne più luminoso, salì verso l'alto del monto; ed io la seguii da vicino. Ti depose poi qui, ma non prima di avermi indicato con i suoi begli occhi quella apertura nella parete; poi, nello stesso istante, svanirono sia la donna che il tuo sonno." Come chi riacquista sicurezza dopo aver dubitato, e converte quindi la propria paura in coraggio dopo aver scoperto chiaramente la verità, così cambiai io il mio stato d'animo; e non appena mi vide la mia guida libero da ogni preoccupazioni, subito cominciò a salire lungo il pendio, ed io lo seguii verso l'alto. Lettore, tu puoi ben vedere come si eleva ora l'argomento del mio poema, e se quindi lo tratto con uno stile più elevato non ti stupire. Salendo il pendio ci avvicinammo ed in poco tempo raggiungemmo il punto dove prima la parete rocciosa mi sembrava interrotta, come un crepa che divide un muro, vidi una porta, sotto di essa tre gradini per poterla raggiungere, diversi nel loro colore, e davanti un custode che ancora non parlava. E quando iniziai ad osservare con maggiore attenzione, lo vidi sedere sopra il gradino più alto, e tanto splendente in viso che non riuscivo a sopportarne la vista; teneva un mano una spada sguainata, che rifletteva i raggi del sole su di noi a tal punto che spesso sollevavo invano lo sguardo verso di essa. "Ditemi, parlando da dove vi trovate: che cosa volete?", cominciò a domandare l'Angelo, "dov'è la potenza che vi accompagna? Badate che l'essere saliti fin qui non vi procuri poi un danno." "Una donna inviata dal cielo, esperte della leggi divine", rispose al guardiano la mia guida, "appena poco tempo fa ci ha detto: "Andate là; troverete lì la porta d'ingresso" ." "Possa questa donna far avanzare i vostri passi verso il bene", aggiunse cortesemente l'Angelo: "Venite dunque avanti verso i nostri gradini." Avanzammo allora fin là; il primo scalino era di marmo bianco, così puro e splendente che riuscii a specchiarmici dentro. Il secondo era di colore scuro, quasi nero, fatto di pietra grezza, ruvida e come bruciacchiata, con crepe sia per il lungo che trasversali. Il terzo gradino, che da sopra grava sugli altri due, mi sembrava realizzato in porfido, di un colore rosso tanto fiammeggiante quanto il sangue che zampilla da una vena. Sopra questo ultimo gradino teneva poggiati entrambi i suoi piedi l'Angelo di Dio, stando seduto sulla soglia del Purgatorio, che mi sembrava fatta di diamante. Su per i tre scalini, incontrando la mia buona volontà, mi accompagnò la mia guida dicendo: "Chiedigli umilmente di aprire la porta di accesso." Mi inginocchiai allora con devozione ai suoi piedi; gli chiesi di avere pietà di me e che mi aprisse, ma non prima di essermi battuto il petto per tre volte. L'Angelo descrisse sulla mia fronte sette 'P' con la punta della sua spada, e disse poi "Fai in modo di lavare via queste piaghe quando sarai dentro al Purgatorio." La cenere, o la terra arida estratta da una cava, sarebbe dello stesso colore del vestito indossato dall'Angelo; da sotto il quale estrasse due chiavi. Una chiave era d'oro e l'altra d'argento; prima con la bianca, d'argento, e poi con la gialla, d'oro, aprì la porta così da accontentare la mia preghiera. "Ogni volta che una di queste chiavi fallisce, perché non entra dritta nel foro della serratura", ci disse il guardiano, "questa porta no si apre. Una è più preziosa dell'altra; ma l'impiego dell'altra richiede l'uso di molta abilità ed intelligenza prima di riuscire ad aprire l'usci, poiché è quella che scioglie il nodo del peccato. Mi sono state date da S. Pietro; il quale mi invitò a sbagliare nell'aprire con troppo irruenza piuttosto che tenerla chiusa con troppo rigore, a patto che i penitenti mi supplichino umilmente in ginocchio." Spinse poi i battenti della porta sacra, dicendo: "Entrate; ma vi avverto che deve subito uscire nuovamente chiunque si volti indietro." E quando girarono nei loro cardini il battenti di quella porta sacra, che sono fatti di metallo sonante e resistente, la porta non fu più dura e stridente nell'aprirsi di quella di Tarpea, quando fu sconfitto il suo valoroso difensore Cecilio Metello, e restò poi priva del suo tesoro. Rivolsi allora la mia attenzione al primo suono proveniente dall'interno, e l'inno 'Te Deum' mi sembrò di sentire cantato da delle voci di anime miste ad una melodiosa musica. Una tale sensazione provai in quel momento per ciò che udivo, quale si può provare quando si canta accompagnati da un organo; che le parole si comprendono solo a tratti. |
Riassunto
Dante e il Sogno dell'Aquila (vv. 1-33)
Durante la notte, Dante si trova nella Valletta, in compagnia di Virgilio, Sordello, Nino Visconti e Corrado Malaspina. Sopraffatto dalla stanchezza, si addormenta sull'erba. All'avvicinarsi dell'alba, momento in cui si crede che i sogni siano portatori di verità, il poeta sogna di trovarsi sul monte Ida. Qui, un'aquila dalle piume dorate lo afferra e lo trascina fino alla Sfera del fuoco, dove entrambi iniziano a bruciare.
Il Risveglio di Dante (vv. 34-69)
Svegliatosi profondamente colpito dal sogno, Dante si accorge di non essere più nella Valletta. Intorno a lui non vi è più terra, ma il vasto mare, e le anime che lo circondavano sono scomparse, tranne Virgilio. Il sole è ormai alto. Virgilio gli rivela che è stata santa Lucia, poco prima dell'alba, a soccorrerlo durante il sonno e a trasportarlo vicino all'ingresso del Purgatorio vero e proprio.
L'Entrata al Purgatorio (vv. 70-138)
L'accesso al Purgatorio è segnato da una porta con tre gradini di colori diversi: uno bianco, uno scuro con una crepa al centro e uno rosso acceso. Sulla soglia, che sembra fatta di diamante, è seduto un angelo con una spada luminosa. Virgilio spiega che la loro presenza è voluta da santa Lucia e invita Dante a salire i gradini. Dante, inginocchiandosi davanti all'angelo, implora misericordia e chiede di poter entrare. L'angelo, con la punta della spada, incide sulla fronte del poeta sette lettere "P", simbolo dei sette peccati capitali, e lo invita a purificarsi mentre attraverserà i gironi. L'angelo, poi, utilizza due chiavi, una d'oro e una d'argento, donate da san Pietro, per aprire la porta. Infine, avverte i due poeti di non voltarsi mai indietro per non vanificare il loro cammino.
L'Apertura della Porta (vv. 139-145)
Quando la porta si spalanca, Dante sente il canto del Te Deum, sebbene riesca a coglierne solo alcuni frammenti, come quando in chiesa il canto è accompagnato dall'organo. Con questo solenne canto, i due viandanti sono accolti all'interno del Purgatorio.
Figure Retoriche
v. 1: "Di Titone antico": Anastrofe.
v. 5: "Freddo animale": Perifrasi. Per indicare lo Scorpione, più precisamente la costellazione dello Scorpione.
v. 10: "Avea di quel d'Adamo": Similitudine.
v. 16: "Mente nostra": Anastrofe.
vv. 22-23: "Fuoro abbandonati": Enjambement.
vv. 22-24: "Là dove fuoro abbandonati i suoi da Ganimede, quando fu ratto al sommo consistoro": Perifrasi. Per indicare il monte Ida.
v. 29: "Terribil come folgor discendesse": Similitudine.
vv. 34-40: "Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo là dove si fosse, quando la madre da Chirón a Schiro trafuggò lui dormendo in le sue braccia, là onde poi li Greci il dipartiro; che mi scoss'io": Similitudine.
v. 42: "Come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia": Similitudine.
v. 43: "Il mio conforto": Perifrasi. Per indicare Virgilio.
vv. 64-67: "A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta e che muta in conforto sua paura, poi che la verità li è discoperta, mi cambia' io": Similitudine.
vv. 68-69: "Su per lo balzo / si mosse": Enjambement.
vv. 70-71: "Innalzo / la mia matera": Enjambement.
v. 75: "Pur come un fesso che muro diparte": Similitudine.
v. 81: "Tal ne la faccia ch'io non lo soffersi": Iperbole.
v. 98: "Ruvida e arsiccia": Endiadi.
vv. 102-103: "Sì fiammeggiante, come sangue che fuor di vena spiccia": Similitudine.
v. 105: "Mi sembiava pietra di diamante": Similitudine.
vv. 107-108: "Chiedi / umilemente": Enjambement.
v. 135: "Sonanti e forti": Endiadi.
vv. 136-138: "Non rugghiò sì né si mostrò sì acra Tarpea, come tolto le fu il buono Metello, per che poi rimase macra": Similitudine.
vv. 137-138: "Il buono / Metello": Enjambement.
vv. 142-145: "Tale imagine a punto mi rendea ciò ch'io udiva, qual prender si suole quando a cantar con organi si stea; ch'or sì or no s'intendon le parole": Similitudine.
Analisi ed Interpretazioni
Il IX canto del Purgatorio rappresenta un momento cruciale nella narrazione, segnando il passaggio dall'Antipurgatorio alle Cornici vere e proprie, dove le anime intraprendono la purificazione dai peccati. Questo cambio di prospettiva comporta anche un'evoluzione stilistica, come Dante stesso preannuncia con un appello diretto ai lettori (vv. 70-72), anticipando l'innalzamento del tono poetico che caratterizzerà molti canti successivi, specialmente nel Paradiso.
Il canto si apre con un sogno simbolico che sottolinea il profondo legame tra il mondo onirico e il cammino spirituale del poeta. Dante, vinto dalla stanchezza, si addormenta nella valletta all'inizio della notte e sogna un'aquila che lo ghermisce, sollevandolo sul monte Ida. Questo sogno, ricco di riferimenti allegorici e classici (l'aquila sacra a Giove e il mito di Ganimede), rappresenta l'intervento salvifico di Santa Lucia, che trasporta Dante fino alla porta del Purgatorio. Il poeta si risveglia in modo traumatico, confuso e ignaro del luogo in cui si trova, ma Virgilio lo rassicura e lo guida verso la porta, segnando così un momento decisivo del viaggio.
La descrizione della porta del Purgatorio e del rituale che Dante deve seguire per accedervi costituisce il cuore della seconda parte del canto. L'angelo custode, simbolo del confessore, sovrintende a un processo profondamente simbolico legato al sacramento della confessione. I tre gradini che conducono alla porta rappresentano i tre momenti del rito: la contrizione (il primo gradino di marmo bianco, dove Dante si specchia riconoscendo i propri peccati), la confessione (il secondo gradino, di pietra scura e screpolata, che simboleggia l'umiliazione del cuore), e la soddisfazione (il terzo gradino, rosso come la carità necessaria per redimersi).
L'angelo, armato di spada – forse simbolo della giustizia divina o del potere del sacerdote – incide sulla fronte di Dante sette "P", emblema dei sette peccati capitali, che il poeta dovrà espiare durante l'ascesa del monte. L'apertura della porta avviene con due chiavi, una d'oro e una d'argento, che simboleggiano rispettivamente l'autorità divina di assolvere i peccati e la sapienza necessaria per amministrare tale potere. Dante sottolinea che entrambe le chiavi sono indispensabili, lanciando una sottile critica alle indulgenze facili del suo tempo. La porta si apre con un rumore stridente, un segno della difficoltà intrinseca nel ricevere il perdono di Dio, riservato solo a chi è sinceramente pentito.
Oltrepassata la soglia, Dante viene avvolto da un'atmosfera nuova, accompagnata dal canto del Te Deum laudamus che risuona melodioso, simile a un coro alternato al suono dell'organo. Questo momento sancisce l'ingresso in una dimensione diversa da quella dell'Antipurgatorio: il Purgatorio vero e proprio, dove le anime espiano attivamente le proprie colpe con serena dedizione. Il rito di passaggio e il canto liturgico evocano l'immagine di un grande monastero spirituale, scandito da preghiere e cerimonie, che prepara il poeta al suo percorso verso l'Eden e, infine, al Paradiso.
Passi Controversi
I versi 1-6 del canto probabilmente descrivono il sorgere dell'aurora solare nell'emisfero boreale, visibile a oriente, che corrisponde alle nove di sera circa nel Purgatorio. L'aurora è chiamata "concubina di Titone antico" per via del mito classico in cui si narra del suo amore per Titone, rapito e sposato da lei. Sebbene l'aurora avesse ottenuto da Giove l'immortalità per sé, Titone non fu preservato dall'invecchiamento, da cui l'aggettivo "antico". Le "gemme" che brillano in fronte sono identificate nella costellazione dello Scorpione, il "freddo animale che con la coda percuote la gente", situata nel cielo opposto a quello dell'aurora. Alcuni studiosi hanno suggerito i Pesci, ma questa costellazione è meno luminosa, rendendo poco plausibile l'ipotesi. Anche l'idea di un'aurora lunare è considerata improbabile.
Nei versi 7-9, Dante allude al fatto che sono le nove di sera: i passi della notte, rappresentati dalle ore, ne contano quasi tre, ovvero circa tre ore trascorse dal tramonto. Nei versi 13-15 si fa riferimento all'approssimarsi dell'alba, momento in cui la rondine, associata al mito di Progne trasformata in uccello dopo l'uccisione di Tereo, emette i suoi stridi. Il verso 18 richiama la credenza medievale secondo cui i sogni fatti all'alba fossero particolarmente veritieri.
I versi 22-24 evocano il monte Ida nella Troade, luogo del rapimento di Ganimede da parte di Giove, che, in forma di aquila, lo portò sull'Olimpo per farlo coppiere degli dèi. L'espressione "infino al foco" (v. 30) indica la sfera del fuoco, che secondo la cosmologia medievale separa la Terra dal Primo Cielo, quello della Luna.
I versi 34-39 rimandano al mito di Achille, che la madre Teti sottrasse al centauro Chirone per nasconderlo a Sciro, cercando di evitarne la partecipazione alla guerra di Troia. Achille fu poi scoperto da Ulisse e Diomede tramite un inganno. Il "balzo" del verso 50 si riferisce probabilmente a una spaccatura nella parete rocciosa che circonda il monte, in corrispondenza della porta.
Nei versi 83-84, i raggi che si riflettono nella spada dell'angelo possono essere interpretati come quelli del sole, lo splendore del suo volto o la luminosità della spada stessa, forse fiammeggiante come quelle che, secondo il mito, respinsero il serpente. Tuttavia, il testo non offre conferme definitive. L'espressione "tinto più che perso" (v. 97) descrive un colore scuro, una tonalità più intensa del "perso", un misto di purpureo e nero, simile a quanto indicato nell'Inferno (V, 89).
La parola "regge" (v. 134), riferita alla porta, deriva dal latino medievale "regia", che indica l'ingresso principale di un edificio, spesso sacro. Nei versi 126-128 si richiama un episodio narrato da Lucano: Cesare, giunto a Roma per impadronirsi del tesoro pubblico custodito nella rupe Tarpea, affrontò l'opposizione del tribuno Metello e lo rimosse con la forza, aprendo l'accesso al tesoro.
L'espressione "al primo tuono" (v. 139) è probabilmente un complemento di tempo che indica il momento in cui la porta emette il suo suono stridente. Infine, i versi 142-145 descrivono un suono che ricorda il canto alternato alla musica d'organo durante le funzioni liturgiche, un'usanza attestata dal XII secolo. Dante sembra riferirsi all'alternanza tra canto e organo, con alcune parti dell'inno lasciate mute, un dettaglio che aggiunge solennità alla scena.
Fonti: libri scolastici superiori