Parafrasi e Analisi: "Canto XVI" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XVI del Purgatorio di Dante Alighieri si apre con una riflessione profonda e universale sul tema della responsabilità morale e della giustizia umana. Collocato nella terza cornice, quella degli iracondi, questo canto rappresenta un momento cardine della cantica, in cui si intrecciano le questioni etiche e politiche che dominano l'opera dantesca. Qui, Dante esplora le dinamiche tra libero arbitrio, corruzione delle istituzioni e il ruolo della guida morale nella società, gettando luce sui mali che affliggono il mondo terreno.
Attraverso il dialogo e l'ambientazione immersa in un'atmosfera densa e simbolica, il poeta invita il lettore a interrogarsi sull'origine delle colpe umane e sull'importanza di una leadership virtuosa. L'argomento trattato si estende oltre il piano individuale, affrontando le radici collettive delle discordie e delle ingiustizie, in un'esplorazione che unisce dimensione spirituale e civile.
Testo e Parafrasi
Buio d'inferno e di notte privata d'ogne pianeto, sotto pover cielo, quant' esser può di nuvol tenebrata, non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, né a sentir di così aspro pelo, che l'occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s'accostò e l'omero m'offerse. Sì come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che 'l molesti, o forse ancida, m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo». Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l'Agnel di Dio che le peccata leva. Pur 'Agnus Dei' eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, sì che parea tra esse ogne concordia. «Quei sono spirti, maestro, ch'i' odo?», diss' io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi, e d'iracundia van solvendo il nodo». «Or tu chi se' che 'l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?». Così per una voce detto fue; onde 'l maestro mio disse: «Rispondi, e domanda se quinci si va sùe». E io: «O creatura che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece, maraviglia udirai, se mi secondi». «Io ti seguiterò quanto mi lece», rispuose; «e se veder fummo non lascia, l'udir ci terrà giunti in quella vece». Allora incominciai: «Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l'infernale ambascia. E se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte per modo tutto fuor del moderno uso, non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorte». «Lombardo fui, e fu' chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai al quale ha or ciascun disteso l'arco. Per montar sù dirittamente vai». Così rispuose, e soggiunse: «I' ti prego che per me prieghi quando sù sarai». E io a lui: «Per fede mi ti lego di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego. Prima era scempio, e ora è fatto doppio ne la sentenza tua, che mi fa certo qui, e altrove, quello ov' io l'accoppio. Lo mondo è ben così tutto diserto d'ogne virtute, come tu mi sone, e di malizia gravido e coverto; ma priego che m'addite la cagione, sì ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui; ché nel cielo uno, e un qua giù la pone». Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!», mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate, lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto. Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica, lume v'è dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica. A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura. Però, se 'l mondo presente disvia, in voi è la cagione, in voi si cheggia; e io te ne sarò or vera spia. Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, l'anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore, volontier torna a ciò che la trastulla. Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore. Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver, che discernesse de la vera cittade almen la torre. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, però che 'l pastor che procede, rugumar può, ma non ha l'unghie fesse; per che la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond' ella è ghiotta, di quel si pasce, e più oltre non chiede. Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che 'l mondo ha fatto reo, e non natura che 'n voi sia corrotta. Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, due soli aver, che l'una e l'altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo. L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale, e l'un con l'altro insieme per viva forza mal convien che vada; però che, giunti, l'un l'altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch'ogn' erba si conosce per lo seme. In sul paese ch'Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga; or può sicuramente indi passarsi per qualunque lasciasse, per vergogna, di ragionar coi buoni o d'appressarsi. Ben v'èn tre vecchi ancora in cui rampogna l'antica età la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna: Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma, francescamente, il semplice Lombardo. Dì oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in sé due reggimenti, cade nel fango, e sé brutta e la soma». «O Marco mio», diss' io, «bene argomenti; e or discerno perché dal retaggio li figli di Levì furono essenti. Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio di' ch'è rimaso de la gente spenta, in rimprovèro del secol selvaggio?». «O tuo parlar m'inganna, o el mi tenta», rispuose a me; «ché, parlandomi tosco, par che del buon Gherardo nulla senta. Per altro sopranome io nol conosco, s'io nol togliessi da sua figlia Gaia. Dio sia con voi, ché più non vegno vosco. Vedi l'albor che per lo fummo raia già biancheggiare, e me convien partirmi (l'angelo è ivi) prima ch'io li paia». Così tornò, e più non volle udirmi. |
Mai il buio dell'inferno né una notte priva di qualunque stella, sotto un cielo senza luce, annerito quanto è possibile dalle nubi, pose davanti al mio viso un velo tanto scuro quanto fece quel fumo che ci avvolse nella terza cornice, né fu mai così sgradevole a sentirsi tanto che i miei occhi faticarono a restare aperti; perciò la mia attenta e fedele guida mi si accostò e mi offrì la sua spalla per condurmi. Così come un cieco va dietro alla suo guida per non perdersi e per non urtare violentemente contro qualcosa che possa fargli male, se non addirittura ucciderlo, allo stesso modo procedevo io attraverso quell'aria pungente e densa, ascoltando la mia guida, Virgilio, che mi avvertiva continuamente: "Stai attento a non allontanarti da me." Sentivo delle voci intorno a me e ciascuna sembrava invocare la pace e la misericordia di Dio, che toglie i peccati dell'uomo. Tutte con 'Agnus Dei' (agnello di Dio) iniziavano le loro preghiere; cantando tutti le stesse parole con la stessa intonazione, tanto che sembrava regnasse tra loro l'armonia. "Maestro, sono anime queste che sento cantare?", chiesi. Mi rispose Virgilio: "Tu credi il vero, sono anime e stanno espiando i loro peccati d'ira." "Chi sei tu che attraversi il fumo che ci avvolge, e parli di noi come se per te il tempo esistesse ancora?" Queste parole furono pronunciate da una voce; per cui il mio maestro mi disse: "Rispondigli, e chiedigli anche se è per questa strada che si sale alla prossima cornice." Dissi: "Oh anima che ti purifichi qui dei tuoi peccati per poter poi tornare completamente pura a Dio, che ti creò, sentirai qualcosa di incredibile se mi segui." "Io ti seguirò per quanto mi è concesso farlo", rispose, "e se il fumo non mi lascia vedere dove vado, sarà l'udito a tenerci vicini, facendo le veci della vista." Cominciai allora a dire: "Con quell'involucro dell'anima, che la morte poi distrugge, salgo verso il cielo, e sono giunto qui dopo aver attraversato le sofferenze dell'inferno. E se Dio mi ha accolto nella sua Grazia, tanto da volere che io veda la sua corte celeste in un modo completamente diverso da quello è solito, non nascondermi la tua identità, chi eri prima di morire, ma anzi dimmelo, e dimmi anche se procedo nella direzione giusta verso la prossima cornice; siano le tue parole la nostra scorta." "Nacqui nell'Italia settentrionale ed il mio nome fu Marco; fui molto esperto delle regole del mondo ed mai sempre quel valore morale, la cortesia, al quale ormai nessuno tende più. Per salire alla prossima cornice continua a camminare dritto." Così mi rispose ad aggiunse infine: "Ti chiedo ti pregare Dio per me quando sarai in cielo." E gli dissi allora io: "Ti prometto solennemente ti fare ciò che mi chiedi; ma rischio ora di scoppiare per un grosso dubbio che mi attanaglia se non me ne sbarazzo subito. Prima era semplice, piccolo, adesso è diventato doppio dopo la tua affermazione, che mi conferma qui, come già altrove, la frase a cui accoppio la tua. Il mondo è certamente privo di ogni valore, come tu stesso mi hai detto, ed è invece invaso e pieno di ogni forma di malvagità; ma ti prego di indicarmi la ragione, la causa di ciò, così che io la possa conoscere e quindi spiegarli anche ad altri; perché alcuni la attribuiscono agli influssi celesti, altri alla semplice responsabilità umana." Un profondo sospiro, che il dolore tramutò in un lamento, fu prima emesso dallo spirito; che poi cominciò a dire: "Fratello, il mondo è cieco e tu, con questa domanda, dimostri di provenire proprio da lì. Voi che siete ancora in vita attribuite la causa di ogni cosa solo e sempre al cielo, come se necessariamente il cielo muovendosi trascinasse tutto con sé. Se così fosse, in voi cesserebbe di esistere il libero arbitrio, e non sarebbe giusto ricevere un premio per il bene compiuto e una punizione per il male. Il cielo dà l'impulso iniziale alle vostre azioni; non proprio a tutte, ma, ammesso anche che siano tutte, vi è comunque sempre data la facoltà di distinguere il male dal bene, ed anche la libera volontà; la quale, se fatica nei primi momenti ad opporsi alle tendenze suggerite dal cielo, in seguito ha sempre la meglio, se viene ben coltivata. Ad una forza maggiore e ad una natura superiore a quella degli astri voi siete soggetti, pur essendo liberi; è quella che crea la vostra mente, su cui il cielo non può influire. Perciò, se il mondo abbandona la retta via, la causa è in voi, in voi deve essere ricercata; e te ne darò ora la vera dimostrazione. L'anima esce dalla mano di Dio, che la pensa prima ancora di farla esistere, come una bambina che con innocenza passa dal pianto al riso, completamente ignara di tutto, salvo che, provenendo dall'infinita gioia del suo creatore, si rivolge spontaneamente verso ciò che le dà gioia. Nei primi tempi l'anima fa esperienza di un bene di poca importanza; questo la trae in inganno, e così l'anima corre dietro ad esso, a meno che una guida o un freno non riescano a distogliere la sua attenzione. Per questo fu necessario istituire delle leggi per porre il freno; fu necessario creare l'autorità del re, che distinguesse almeno la torre della vera città (la Giustizia). Le leggi ci sono, ma chi si preoccupa di farle rispettare? Nessuno, poiché il pastore che conduce il gregge, può ruminare (riflettere) ma non ha le unghie tagliate in due (la capacità di distinguere il bene dal male); perciò le persone, che vedono la loro guida desiderare soltanto quei beni materiali di cui è tanto avida, si nutrono a loro volta di quelli, e non desiderano nient'altro. Puoi vedere chiaramente che la cattiva gestione del Papa è la causa prima che ha reso malvagio tutto il mondo, non lo è la parte corrotta della vostra natura umana. Roma, che rese buono il mondo, era solita avere due diversi soli ad illuminare l'una e l'altra strada, quella materiale e quella spirituale. Adesso uno dei due ha spento la luce dell'altro; il potere imperiale si è unito con quello spirituale, e così uniti a forza, è inevitabile che vadano entrambi male; poiché, così messi insieme, non si controllano a vicenda come dovrebbero: se non mi credi, pensa alla spiga, perché ogni pianta si riconosce dal suo seme (che è poi contenuto nel suo frutto). Nel territorio italiano bagnato dai fiumi Adige e Po, un tempo si trovavano facilmente cortesia e virtù, prima che l'imperatore Federico II subisse l'attacco della Chiesa; ora può in tutta sicurezza passare da lì qualunque persona che prima evitava, vergognandosi della propria malvagità, di parlare o di avere semplicemente a che fare con le persone oneste. Ci sono in verità ancora tre vecchi attraverso la cui persona il passato rimprovera aspramente il presente, ed ai quali sembra non arrivare mai il giorno della loro morte: Corrado da Palazzo, il buon Gherardo da Camino e Guido da Castello, che è meglio conosciuto, alla francese, come il semplice Lombardo. Puoi dunque ormai affermare che la Chiesa di Roma, per aver voluto unire in sé due diversi poteri, cade nel fango ed imbratta così sé stessa e tutto il suo carico." "O Marco mio", dissi io allora, "dici il giusto: ed ora capisco perché furono esclusi delle eredità materiali furono esclusi i Leviti, i sacerdoti degli Ebrei. Ma chi è quel Gherardo cui ti riferisci parlando dei quell'uomo saggio che è rimasto ancora in vita, esempio della generazione scomparsa, a rimprovero di questo secolo incivile?" "O le tue parole non mi sono chiare, oppure vuoi provocarmi", mi rispose; "dal momento che, da toscano quale sei, sembra che tu non sappia nulla del buon Gherardo. Io non lo conosco con nessun altro soprannome, a meno che non lo prenda da sua figlia Gaia. Vi saluto, che Dio sia con voi, perché non posso più venire insieme a voi. Vedi che il sole con i suoi raggi, che attraversano il fumo, rischiara ormai la cornice, e mi conviene quindi allontanarmi, l'Angelo del perdono è poco distante e non vorrei comparirgli davanti." Detto questo tornò indietro e non volle più stare ad ascoltarmi. |
Riassunto
Marco Lombardo tra gli iracondi
Dante e Virgilio si addentrano nella densa foschia che avvolge la cornice degli iracondi, dove si levano le voci dei penitenti che intonano l'Agnus Dei. Uno di loro, Marco Lombardo, si rivolge a Dante per sapere chi sia. In risposta, Dante gli chiede di essere guidato verso il punto in cui è possibile salire alla cornice successiva. Marco accetta, ma può accompagnarli solo fino al limite consentito dalla sua condizione di anima penitente. Svela quindi la propria identità: è Marco Lombardo, un uomo che in vita visse coltivando la virtù, un valore che oggi gli uomini sembrano aver smarrito.
La volontà divina e il libero arbitrio umano
Dante approfitta dell'incontro per domandare se la perdita della virtù nel mondo sia causata dall'influsso celeste o dalla responsabilità dell'uomo. Marco, con un sospiro, risponde che gli uomini tendono a imputare ogni evento al cielo, ma questo annullerebbe l'esistenza del libero arbitrio, il dono divino che permette di scegliere tra il bene e il male. L'anima, creata da Dio per aspirare al bene sommo, può però essere sviata dal vero bene se non viene guidata da un'autorità capace di distinguere la giustizia.
Il conflitto tra potere spirituale e temporale
Marco prosegue affermando che attualmente nessuno riesce a far rispettare le leggi, nemmeno il papa, troppo coinvolto nei poteri temporali per guidare le anime verso i beni spirituali. L'umanità ha prosperato spiritualmente solo quando Roma manteneva separati il potere spirituale e quello temporale. La decadenza ha avuto inizio nel momento in cui entrambi i poteri si sono concentrati in un'unica autorità.
L'esempio della Lombardia
La Lombardia ne è un esempio: un tempo prosperava, ma il conflitto tra Federico II e la Chiesa ne ha segnato il declino. Oggi, secondo Marco, vi restano solo tre uomini virtuosi, tra cui il buon Gherardo. Con queste parole, Marco termina il suo discorso. Ormai è giunto al punto in cui la foschia si dirada, ma non può proseguire oltre per incontrare l'angelo che Dio ha posto a guardia poco più avanti.
Figure Retoriche
vv. 4-5: "Non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse": Similitudine.
v. 6: "Né a sentir di così aspro pelo": Metafora.
v. 8: "Saputa e fida": Endiadi.
v. 9: "L'omero": Sineddoche. La parte per il tutto, l'omero invece che il braccio.
v. 9: "L'omero m'offerse": Anastrofe.
vv. 10-14: "Sì come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che 'l molesti, o forse ancida, m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca": Similitudine.
v. 13: "Amaro e nero": Endiadi. In riferimento al fumo.
vv. 16-17: "Pareva / pregar": Enjambement.
v. 18: "Che le peccata leva": Anastrofe.
vv. 20-21: "Una parola in tutte era e un modo, sì che parea tra esse ogne concordia": Similitudine.
v. 21: "Tu vero apprendi": Anastrofe.
v. 28: "Detto fue": Anastrofe.
v. 29: "Maestro mio": Anastrofe.
v. 40: "E se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso": Iperbato.
v. 42: "Del moderno uso": Anastrofe.
v. 45: "Tue parole fier le nostre scorte": Metafora.
v. 47: "Del mondo seppi": Anastrofe.
v. 48: "Ciascun disteso l'arco": Metafora.
v. 51: "Per me / prieghi": Anastrofe.
v. 56: "Sentenza tua": Anastrofe.
v. 60: "Gravido e coverto": Endiadi.
v. 66: "Lo mondo è cieco": Metafora.
v. 79: "A maggior forza e a miglior natura": Perifrasi. Per indicare Dio.
vv. 86-88: "A guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, l'anima semplicetta che sa nulla": Similitudine.
v. 90: "Volontier torna": Anastrofe.
v. 94: "Per fren porre": Anastrofe.
v. 98: "'l pastor": Perifrasi. Per indicare il papa.
vv. 109-110: "La spada / col pasturale": Enjambement.
v. 115: "In sul paese ch'Adice e Po riga": Perifrasi. Per indicare la Lombardia.
v. 135: "Secol selvaggio": Metonimia. L'effetto per la causa, selvaggio invece di corrotto/corruzione.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto XVI del Purgatorio si distingue per la centralità del tema politico e morale, affrontato da Dante attraverso il dialogo con Marco Lombardo. Questo personaggio, di cui si conoscono scarse notizie storiche, incarna la voce della saggezza e dell'esperienza, offrendo al poeta una prospettiva sulla corruzione morale e politica del suo tempo. La cornice narrativa è quella della terza Cornice del Purgatorio, dove si purificano gli iracondi. L'ambiente descritto è avvolto in una fitta oscurità, simbolo dell'accecamento della ragione causato dall'ira. In questa condizione, i penitenti avanzano ciechi, sostenuti dalla guida della ragione, simboleggiata da Virgilio.
L'oscurità e il contrappasso
Il canto si apre con una descrizione intensa dell'oscurità della Cornice, resa più evidente attraverso un confronto per contrasto: nemmeno una notte senza stelle e coperta di nubi può eguagliare il buio che domina questo luogo. La punizione degli iracondi riflette simbolicamente il vizio: così come l'ira acceca la mente e porta ad atti inconsulti, qui le anime sono immerse in un'oscurità totale. Tuttavia, la componente uditiva offre conforto: i penitenti, in perfetta concordia, pregano intonando l'Agnus Dei, invocando Cristo come esempio di mansuetudine e sacrificio.
Marco Lombardo e il dibattito dottrinale
L'incontro con Marco Lombardo rappresenta il cuore del canto e un'occasione per Dante di approfondire temi centrali come il libero arbitrio, la corruzione morale e il conflitto tra potere spirituale e temporale. Marco Lombardo, presentandosi come uomo esperto e amante della virtù, diviene portavoce del pensiero politico e morale dantesco. Rispondendo al dubbio del poeta – se la decadenza morale sia causata dagli influssi celesti o dalla condotta umana – Marco sostiene che, pur esistendo le influenze astrali, queste non determinano in modo assoluto le azioni umane. Gli uomini sono dotati di libero arbitrio, una facoltà che consente loro di scegliere tra il bene e il male, rendendoli responsabili delle proprie azioni. Attribuire agli astri la causa del male equivale a negare la giustizia divina, che premia o punisce in base alle scelte individuali.
Il rapporto tra potere temporale e spirituale
Un tema centrale del discorso di Marco Lombardo è la distinzione tra potere temporale e spirituale, che Dante sviluppa secondo la teoria dei "due soli". L'uomo, incline al peccato, necessita di leggi che regolino la sua condotta. Queste devono essere garantite dall'imperatore, mentre il papa ha il compito di guidare i fedeli verso la salvezza spirituale. Tuttavia, nella realtà del tempo di Dante, l'assenza di un'autorità imperiale efficace e l'ingerenza politica della Chiesa, accentuata dalla bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, hanno portato a un grave disordine morale e politico. Dante critica aspramente l'unione impropria della "spada" e del "pastorale", simboli del potere temporale e spirituale, sottolineando la necessità di una netta separazione tra le due autorità.
La nostalgia per le virtù del passato
Nel suo discorso, Marco Lombardo esprime rammarico per la decadenza delle virtù cavalleresche che un tempo caratterizzavano la Lombardia, intesa come Pianura Padana. Cita con ammirazione figure del passato, come Gherardo da Camino, esempio di cortesia e nobiltà d'animo, contrapponendole alla corruzione del presente. L'elogio del buon Gherardo, descritto con toni quasi mistici, enfatizza il contrasto tra un passato di valori e un presente dominato dal vizio. Marco sottolinea che il declino morale è aggravato dalla mancata trasmissione delle virtù dai padri ai figli, un tema già affrontato nel canto XIV attraverso le parole di Guido del Duca.
Conclusione: il significato morale e politico del canto
Il Canto XVI del Purgatorio si pone come una riflessione profonda sulla responsabilità umana e sulla necessità di un ordine politico e morale. L'oscurità che avvolge la Cornice degli iracondi è metafora di un'epoca in cui la ragione è oscurata dalla corruzione e dal conflitto tra le autorità. Il dialogo con Marco Lombardo non solo ribadisce la centralità del libero arbitrio, ma denuncia anche le radici della crisi politica del tempo, indicando nella separazione tra i poteri spirituale e temporale la chiave per il recupero della giustizia e delle virtù.
Passi Controversi
Sotto il termine pover cielo (v. 2) si può interpretare un cielo oscuro, privo di stelle, oppure un orizzonte ristretto. La preghiera recitata dagli iracondi riprende l'espressione di Giovanni, 1, 29: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi, ripetuta tre volte e seguita da miserere nobis due volte e dona nobis pacem una volta. Queste parole sembrano perfettamente in linea con l'espiazione richiesta a chi, in vita, si abbandonò all'ira.
Quando Marco Lombardo si presenta (vv. 46-48), il tono è ricercato e retorico. Al v. 46 troviamo un chiasmo (Lombardo fui... fu' chiamato Marco), mentre il v. 47 presenta un parallelismo con la ripetizione di nomi e verbi (del mondo seppi, e quel valore amai). Al v. 48 compare una raffinata metafora: l'immagine dell'arco non teso suggerisce la perdita delle virtù cortesi. Anche nei vv. 50-51, l'uso del poliptoto (ti prego / che per me preghi), accompagnato dall'enjambement, rafforza il tono elevato.
Nei vv. 85-90, attraverso le parole di Marco, Dante spiega la creazione dell'anima seguendo le idee di San Tommaso. Non si rifà alla teoria delle idee innate di Platone: l'anima, al momento della creazione, è come una tabula rasa. Contrasta anche con la dottrina di Origene, che sosteneva una creazione simultanea di tutte le anime; Dante, invece, afferma che Dio crea ogni anima singolarmente.
La vera cittade del v. 96 potrebbe essere la Civitas Dei, da realizzarsi inizialmente sulla Terra. La sua "torre" simboleggia la giustizia terrena. Ai vv. 98-99, si critica il papa, definito il pastore che ruminando conosce le Sacre Scritture, ma che non ha l'"unghia fessa". Quest'ultima è una metafora biblica tratta da Levitico (XI, 3-8) e Deuteronomio (XIV, 7-8): per gli ebrei, solo gli animali ruminanti e con l'unghia fessa erano puri. In senso allegorico cristiano, ruminare indica la capacità di meditare sulla legge sacra, mentre l'unghia fessa rappresenta la distinzione tra bene e male. Dante probabilmente intende quest'ultima come la capacità di separare potere spirituale e temporale, necessaria per un buon governo.
I due soli del v. 106 sono il papa e l'imperatore. Dante afferma che Roma un tempo li possedeva entrambi, ma non è chiaro se si riferisca all'Impero romano o all'epoca cristiana prima della donazione di Costantino. L'espressione l'un l'altro ha spento (v. 109) indica che il papato ha oscurato l'autorità dell'imperatore, senza suggerire reciprocità come invece accade al v. 112.
Il paese ch'Adice e Po riga (v. 115) rappresenta la Lombardia, intesa più in generale come la Pianura Padana attraversata dai due fiumi.
I tre personaggi citati da Marco Lombardo (vv. 124-126) sono figure note per la loro virtù: Corrado da Palazzo, podestà a Firenze nel 1276 e lodato per la sua generosità; Gherardo da Camino, capitano di Treviso fino al 1306, probabilmente implicato nell'omicidio di Iacopo del Cassero; e Guido da Castello, ancora vivo nel 1315 e menzionato favorevolmente da Dante anche nel Convivio. Guido era soprannominato dai Francesi il semplice Lombardo, poiché il termine "lombardo" era sinonimo di italiano e associato, al di là delle Alpi, alla reputazione di mercanti disonesti. Guido, tuttavia, era un'eccezione a questa cattiva fama.
Infine, il v. 135 presenta l'accentazione su "rimprovèro" (penultima sillaba), che regolarizza la metrica dell'endecasillabo, anche se esiste una variante che legge "rimproverio".
Fonti: libri scolastici superiori