Parafrasi e Analisi: "Canto XV" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Nel Canto XV del Purgatorio, Dante affronta una riflessione profonda sul tema della natura umana, sulla dignità dell'individuo e sulle conseguenze morali delle scelte di vita. La scena si inserisce nel contesto del Purgatorio, un luogo di purificazione dove le anime espiano i loro peccati prima di ascendere al Paradiso. In questo canto, la discussione si concentra sulla corruzione morale e sulla visione della vita, un dialogo che si intreccia con la figura di un importante personaggio storico e con le sue esperienze. Con il suo stile incisivo, Dante non si limita a un'analisi teologica, ma esplora anche le dinamiche politiche e culturali del suo tempo, mettendo in evidenza l'impatto che le scelte individuali possono avere sia sull'anima che sulla società.


Testo e Parafrasi


Quanto tra l'ultimar de l'ora terza
e 'l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,

tanto pareva già inver' la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.

E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso,
perché per noi girato era sì 'l monte,
che già dritti andavamo inver' l'occaso,

quand' io senti' a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m'eran le cose non conte;

ond' io levai le mani inver' la cima
de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio,
che del soverchio visibile lima.

Come quando da l'acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l'opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio

a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;

così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.

«Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
diss' io, «e pare inver' noi esser mosso?».

«Non ti maravigliar s'ancor t'abbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
«messo è che viene ad invitar ch'om saglia.

Tosto sarà ch'a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose».

Poi giunti fummo a l'angel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto».

Noi montavam, già partiti di linci,
e 'Beati misericordes!' fue
cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'.

Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue;

e dirizza'mi a lui sì dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
e 'divieto' e 'consorte' menzionando?».

Per ch'elli a me: «Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s'ammiri
se ne riprende perché men si piagna.

Perché s'appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a' sospiri.

Ma se l'amor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema;

ché, per quanti si dice più lì 'nostro',
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro».

«Io son d'esser contento più digiuno»,
diss' io, «che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno.

Com' esser puote ch'un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé che se da pochi è posseduto?».

Ed elli a me: «Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.

Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com' a lucido corpo raggio vene.

Tanto si dà quanto trova d'ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr' essa l'etterno valore.

E quanta gente più là sù s'intende,
più v'è da bene amare, e più vi s'ama,
e come specchio l'uno a l'altro rende.

E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun' altra brama.

Procaccia pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente».

Com' io voleva dicer 'Tu m'appaghe',
vidimi giunto in su l'altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe.

Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;

e una donna, in su l'entrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto?

Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario.

Indi m'apparve un'altra con quell' acque
giù per le gote che 'l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,

e dir: «Se tu se' sire de la villa
del cui nome ne' dèi fu tanta lite,
e onde ogne scïenza disfavilla,

vendica te di quelle braccia ardite
ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E 'l segnor mi parea, benigno e mite,

risponder lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?».

Poi vidi genti accese in foco d'ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: «Martira, martira!».

E lui vedea chinarsi, per la morte
che l'aggravava già, inver' la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,

orando a l'alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a' suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.

Quando l'anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.

Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com' om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,

ma se' venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?».

«O dolce padre mio, se tu m'ascolte,
io ti dirò», diss' io, «ciò che m'apparve
quando le gambe mi furon sì tolte».

Ed ei: «Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve.

Ciò che vedesti fu perché non scuse
d'aprir lo core a l'acque de la pace
che da l'etterno fonte son diffuse.

Non dimandai "Che hai?" per quel che face
chi guarda pur con l'occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace;

ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede».

Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti.

Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.

Questo ne tolse li occhi e l'aere puro.
Quanto tra la fine della terza ora, le ore 9,
e l'inizio del nuovo giorno, le ore 6, ci appare della sfera del sole,
che è solita scherzare, non stare mai ferma, come fanno i bambini,

tanto potevamo vedere essere rimasto allora, verso la sera,
al sole del suo corso giornaliero;
là nel Purgatorio era sera e qui in Italia invece mezzanotte.

Ed i raggi del sole ci colpivano proprio in pieno viso,
perché avevamo girato intorno al monte tanto
che stavamo a quel punto proseguendo dritti vero ovest,

quando mi sentii la fronte colpita
da una luce ancora più abbagliante di quella di prima, del sole,
e mi stupii di questo fenomeno perché non ne conoscevo l'origine;

sollevai perciò la mia mano a protezione degli occhi, fino alla
sommità delle mie ciglia, per farmi da riparo alla luce
e fare così diminuire una parte del suo eccesso.

Come quando dalla superficie dell'acqua o da quella di uno specchio
salta fuori, viene riflesso un raggio di luce
che riesce poi a risalire verso l'alto nella stessa misura

con cui era prima disceso verso il basso, e si allontana anche dalla linea
perpendicolare, di caduta di una pietra, tanto quanto aveva fatto prima,
come ci mostra sia l'esperienza di vita diretta che la scienza;

allo stesso modo mi sembrò allora di essere colpito
nel Purgatorio da una luce riflessa davanti a me;
perciò fui veloce a distogliere lo sguardo.

"Che cosa è quella luce, caro padre, contro la quale non riesco
a fare schermo al mio viso in modo efficace, tanto quanto vorrei,"
chiesi, "e che sembra anche venirci incontro?"

"Non ti meravigliare se vieni ancora abbagliato dalla luce emessa
dagli angeli, la famiglia del cielo", mi rispose Virgilio, "perché quello
che vedi è infatti un messo inviato da cielo per invitare le anime a salire.

Accadrà presto che la vista di queste cose soprannaturali
non ti sarà cosa sgradita, ma sarà anzi per te un piacere tanto grande
quanto sei stato predisposto a provare dalla natura."

Quando fummo infine giunti presso l'angelo benedetto, l'angelo di Dio,
con un tono gioioso lui ci disse: "Da questo punto potete salire
lungo una scalinata meno ripida delle due precedenti."

Stavamo salendo, e ci eravamo anche già allontanati da lì,
quando sentimmo cantare "beati i misericordiosi"
alle nostre spalle, ed anche "Rallegrati tu che vinci sui peccati!".

Io ed il mio maestro Virgilio eravamo gli unici
a salire lungo quella scala; ed io pensai, mentre preseguivamo il viaggio,
di trarre vantaggio, di ottenere conoscenza dalle sue parole;

e mi rivolsi quindi verso di lui per chiedergli: che cosa ha voluto
dire Guido del Duca, lo spirito proveniente dalla Romagna,
quanto ha parlato di "divieto" e di "consorte"?"

Perciò Virgilio rispose: "Del peccato più grave che ha commesso (l'invidia),
conosce molto bene quelle che sono le conseguenze; non ti supire perciò
se ce ne fa rimprovero perché ne abbiano meno gli altri uomini.

Perché i vostri desideri vengono sempre rivolti verso
cose che perderebbero di valore se fossero condivise, l'invidia
muove il mantice che soffia sul fuoco dell'animo umano, provocando sospiri.

Ma se l'amore dell'Empireo, della sfera superiore (il cielo più alto),
riuscisse a rivolgere a lui i vostri desideri,
voi uomini non avreste quella paura nel vostro cuore;

perché, quante più sono le anime che chiamano "nostro" quel piacere,
tanto più ciascuna riuscirebbe a possederne,
e tanto più sarebbe l'amore che arde in quel chiostro celeste."

"Dopo questa tua risposta, io sento ancora più la necessità di sapere",
dissi allora io, "di quella che avrei avuto se non ti avessi posto la
domanda, e la mia mente è ancora più affollata di dubbi.

Come può accadere che un bene, condiviso, suddiviso
tra più possessori, possa rendere le persone più ricche
di quanto potrebbero esserlo se invece fossere in poche a possederlo?"

E Virgilio mi rispose: "Dal momento che tu fissi
la tua mente solamente sulle cose terrene,
alla fine arrivi ad ottenere solo il buio dalla vera luce.

Quel bene infinito e impossibile da esprimere a parole
che si trova lassù in Cielo, raggiunge chi nutre amore nei suoi confronti
allo stesso modo in cui un raggio di luce raggiunge una superficie lucida.

Si offre alle anime in misura uguale all'ardore di carità che esse nutrono
verso di lui; così che, quanto più grande è questa carità,
tanto più aumenta sopra di essa l'eterno bene divino.

E quante più anime lassù nel Cielo si amano, più c'è la possibilità
che l'amore sia diretto verso il giusto bene, e più quindi si ama, e come
fossero specchi le anime si restituiscono l'un altra la propria luce d'amore.

Ma se la mia spiegazione no riesce a soddisfare la tua fame di conoscenza,
sappi che incontrerai Beatrice, e le ti toglierà completamente
questo e qualunque tuo altro dubbio, tuo desiderio di sapere.

Tu preoccupati solo che vengano presto cancellate dalla tua fronte,
come è già successo per due, le altre cinque ferite che ancora ti rimangono
e che possono rimarginarsi solo con la penitenza."

Proprio nel momento in cui stavo per dirgli "Tu mi soddisfi",
mi accorsi di essere infine giunto alla cornice successiva, la terza,
così che i miei occhi incuriositi mi fecero invece tacere.

La sopresa del luogo in cui mi trovai mi fece sembrare
di essere stato portato all'improvviso in una visione estatica,
e di vedere alcune persone riunite in un tempio;

ed una donna, all'ingresso dello stesso tempio, con un atteggiamento
che esprimeva un profondo amore materno dire: "Figlio mio,
perché ti sei comportato in questo modo nei nostri confronti?

Guarda come, pieni di dolore, sia io che tu padre ti abbiamo a lungo
cercato." E non appena, terminata la frase, rimase poi in silenzio,
la scena che mi era apparsa poco prima alla fine scomparve.

Mi apparve poi un'altra figura femminile con le guancie rigate
dalle lacrime, quell'acqua che sgorga per il dolore
e quando si prova sdegno, disprezzo verso un'altra persona,

che diceva: "Se tu sei il signore di Atene,
la città il cui nome creò tanto disaccordo tra gli dei,
e dalla quale si diffonde lo splendore di ogni forma di conoscenza,

allora vendica, Pisistrato, l'arroganza di quel giovane
che osò abbracciare nostra figlia." E l'uomo
al quale erano rivolte queste parole mi apparve, calmo e benevolo,

risponderle con espressione serena:
"Che saremmo disposti a fare a chi ci odia,
se siamo disposti a condannare chi al contrario ci ama?"

Vidi poi delle persone accese, animate dal fuoco dell'ira,
uccidere un ragazzo a colpi di pietre, gridando forte
l'uno l'altro: "Ammazzalo, ammazzalo!"

E vedevo anche il giovane chinarsi verso terra,
a causa della morte che già gli appesantiva il corpo,
ma con gli occhi tenuti sempre bene aperti verso il cielo,

pregando Dio, il supremo signore, mentre veniva ucciso,
affinché perdonasse i suoi persecutori, con una espressione del viso
capace di sucitare pietà in chiunque lo osservasse.

Quando infine la mia anima tornò al mondo oggettivo,
alle cose vere che la circondano, che stanno fuori da lei,
mi resi infine conto che quelle mie visioni rappresentavano avvenimenti reali.

La mia guida, che mi poteva vedere comportarmi
come un uomo che si è appena risvegliato faticosamente dal sonno,
disse: "Cosa ti è successo che non riesci a reggerti bene in piedi,

ma hai camminato per più di mezza lega
tenendo gli occhi semichiusi e con le gambe malferme,
come se fossi sopraffatto dall'alcool o dal sonno?"

"Mio caro padre, se sei disposto ad ascoltarmi, io ti racconterò",
risposi allora io, "le visioni che mi sono apparse
quando, come hai detto, persi la capacità di camminare."

E lui a me: "Anche se tu avessi cento maschere
sopra la faccia, non mi sarebbero comunque nascosti
i tuoi pensieri, pur piccoli che siano.

Le visioni che hai avuto ti sono state mostrate perché tu non possa
rifiutare di aprire il cuore all'acqua della pace
che sgorga dalla fonte eterna di Dio.

Non ti chiesi "Che cosa hai?" per esserti comportato come chi
è in estasi, ha visioni pur non vedendo con gli occhi
e giace a terra svenuto;

ma te lo chiesi solamente per incitarti a camminare:
allo stesso modo bisogna infatti stimolare le persone pigre, troppo lente
a svegliarsi quando escono dal sonno."

Noi camminavamo oramai nelle ore serali, prestando attenzione
nel guardare davanti a noi per quanto potevano fare i nostri occhi
con tro i raggi tardivi del sole prossimo al tramonto.

Quando all'improvviso ecco a poco a poco un denso fumo venirci
incontro, scuro come la notte;
e non c'era nessun luogo per poter trovare riparo contro di lui.

Questo fumo ci tolse la vista e la possibilità di respirare aria pura.



Riassunto


vv. 1-39 L'Apparizione dell'Angelo della Misericordia
I due poeti sono improvvisamente avvolti da una luce intensa, che proviene dall'angelo della misericordia. Quest'ultimo li esorta a salire verso la terza cornice, dove si trovano le anime dei peccatori iracondi.

vv. 40-81 Il Dubbio di Dante e la Risposta di Virgilio
Dante, colpito dalla visione, esprime un dubbio, e Virgilio gli spiega che, mentre il desiderio di beni terreni, alimentato dall'invidia, porta esclusivamente alla sofferenza di chi non li possiede, i beni spirituali, al contrario, arricchiscono chiunque, moltiplicando il bene tanto più quanto maggiore è il numero di chi li condivide.

vv. 82-93 Gli Esempi di Mansuetudine: Maria
Dante assiste a una visione di mansuetudine, virtù contraria all'ira. Il primo esempio che appare è quello di Maria, che, dopo aver ritrovato Gesù, scomparso per tre giorni, invece di rimproverarlo, lo accoglie con dolcezza e affetto.

vv. 94-105 Gli Esempi di Mansuetudine: Pisistrato
Pisistrato, il tiranno di Atene, si mostra con un comportamento mite e riesce a dissuadere sua moglie dal cercare vendetta per l'offesa ricevuta dalla figlia, mostrando come l'approccio pacato possa abbattere il desiderio di vendetta.

vv. 106-114 Gli Esempi di Mansuetudine: Santo Stefano
Nel momento in cui una folla lo sta lapidando, il giovane santo Stefano, con serenità, rivolge il suo sguardo al cielo e prega per coloro che lo stanno uccidendo, incarnando la virtù della mansuetudine in una situazione di estrema sofferenza.

vv. 115-138 Le Parole di Virgilio
Al termine di queste visioni, Dante, che per un momento aveva camminato con gli occhi chiusi, riacquista il contatto con la realtà. Virgilio lo esorta a riflettere sull'esempio di mansuetudine e lo incita a riprendere il cammino con determinazione.

vv. 139-145 L'Ingresso nel Fumo della Terza Cornice
Con il calar della sera, i due poeti giungono in un luogo opprimente, dove un fumo denso e nero avvolge tutto, limitando la vista e rendendo difficile il respiro.


Figure Retoriche


v. 3: "A guisa di fanciullo scherza": Similitudine.
v. 6: "Mezza notte era": Anastrofe.
v. 7: "Per mezzo 'l naso": Sineddoche.
vv. 13-14: "La cima / de le mie ciglia": Enjambement.
vv. 16-23: "Come quando da l'acqua o da lo specchio salta lo raggio a l'opposita parte, salendo su per lo modo parecchio a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta, sì come mostra esperienza e arte; così mi parve da luce rifratta quivi dinanzi a me esser percosso": Similitudine.
v. 17: "L'opposita parte": Anastrofe.
v. 34: "Giunti fummo": Anastrofe.
v. 42: "Prode acquistar": Anastrofe.
v. 42: "Ne le parole sue": Anastrofe.
v. 52: "Il disiderio vostro": Anastrofe.
v. 69: "Com'a lucido corpo raggio vene": Similitudine.
v. 75: "E come specchio l'uno a l'altro rende": Similitudine.
vv. 85-86: "Visione / estatica": Enjambement.
. vv. 97-99: "La villa del cui nome ne' dèi fu tanta lite, e onde ogni scienza disfavilla": Perifrasi. Per indicare Atene.
v. 102: "Benigno e mite": Endiadi.
vv. 107-108: "Forte / gridando": Enjambement e Anastrofe.
v. 114: "Pietà diserra": Anastrofe.
v. 115: "L'anima mia": Anastrofe.
v. 118: "Lo duca mio": Anastrofe.
v. 119: "Far sì com'om che dal sonno si slega": Similitudine.
v. 123: "A guisa di cui vino o sonno piega": Similitudine.
v. 131-132: "D'aprir lo core a l'acque de la pace che da l'etterno fonte son diffuse": Metafora.
v. 133-135: "Per quel che face chi guarda pur con l'occhio che non vede, quando disanimato il corpo giace": Similitudine.
v. 136: "Per darti forza al piede": Metonimia.
v. 143: "Come la notte oscuro": Similitudine.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto che stiamo analizzando si presenta come un intermezzo narrativo e dottrinale che prepara Dante al passaggio nella Cornice successiva. Inizia con l'apparizione dell'angelo, che annuncia un insegnamento fondamentale sulla mansuetudine, e si sviluppa attraverso il discorso di Virgilio, che offre una spiegazione dettagliata sulla distinzione tra beni materiali e beni spirituali. Allo stesso modo, i tre esempi di mansuetudine, che appaiono sotto forma di visioni estatiche, rimarcano l'importanza di controllare l'ira e sono tratti dalla tradizione biblica e classica, come la visione di Maria che rimprovera Gesù al Tempio, il martirio di San Stefano e l'episodio di Pisistrato che perdona un giovane che aveva baciato sua figlia.

L'incontro con l'angelo, che abbaglia Dante, ha una funzione simile a quello del Canto XII, in cui l'angelo dell'umiltà illuminava il poeta. Qui, tuttavia, l'angelo rappresenta la misericordia, e il fulgore della sua luce diventa simbolo della purificazione morale di Dante. Virgilio spiega che la sua incapacità di guardare direttamente l'angelo è una conseguenza della sua natura umana, limitata rispetto agli esseri celesti. Il viaggio nel Purgatorio segue il principio della purificazione graduale, per cui, mano a mano che Dante sale, si avvicina sempre di più alla verità divina.

Il Canto segna anche un passaggio importante nella riflessione dottrinale di Virgilio, che discute le differenze tra i beni terreni, limitati e causa di invidia, e i beni celesti, illimitati e fonte di vera felicità. Virgilio introduce il concetto di bene supremo, che può essere raggiunto solo attraverso l'amore di Dio, il quale aumenta proporzionalmente a quello delle anime verso di Lui. La riflessione si arricchisce di immagini scientifiche, come la luce che si riflette da uno specchio all'altro, anticipando il linguaggio luminoso che caratterizzerà il Paradiso. Virgilio riconosce i limiti della ragione umana nel comprendere appieno il mistero divino e rimanda al chiarimento definitivo che Beatrice offrirà a Dante.

In seguito, Dante entra nella III Cornice, quella degli iracondi, e viene accompagnato da tre esempi di mansuetudine, che rappresentano la virtù contraria all'ira. Le visioni estatiche che il poeta vive, ispirate alla tradizione mistica medievale, mostrano come la mansuetudine possa prevalere sull'ira. Gli esempi proposti provengono dalla Bibbia e dalla letteratura classica, ma Dante li rielabora per enfatizzare il valore del perdono e della dolcezza dell'amore. La mente di Dante è così aperta alla pace, simbolizzata dall'acqua che scorre dall'eterno fonte.

Nel finale del Canto, l'ingresso nella cornice dell'ira segna una nuova fase del viaggio. Virgilio invita Dante a non indulgere nella pigrizia, sottolineando che gli esempi di mansuetudine devono stimolare il pellegrino ad avanzare nel suo cammino senza esitazioni. Il Canto si conclude con l'immersione nel buio che avvolge la III Cornice, un luogo che rappresenta il contrappasso degli iracondi, la cui ira in vita li ha allontanati dalla luce dell'amore divino.

Questo Canto si configura quindi come un passaggio fondamentale nell'ascesa spirituale di Dante, che, pur ancora limitato nella sua comprensione, si prepara ad affrontare il prossimo stadio del suo viaggio verso la salvezza, illuminato dalla luce dell'amore divino e guidato dalla saggezza di Virgilio.


Passi Controversi


I versi 1-6 indicano che, al momento descritto, mancano tre ore al tramonto, il che corrisponde al percorso del sole (la "spera" nel v. 2) che si muove al mattino dalle 6 fino alla fine della terza ora, ovvero le 9. Pertanto, in Purgatorio è il vespro, mentre in Italia è mezzanotte. Il verso 3, che paragona il sole a un fanciullo che scherza, è oggetto di discussione; potrebbe alludere al movimento mutevole del sole, che determina il ciclo delle stagioni, ma è improbabile che Dante intenda con "spera" il Cielo del Sole o l'eclittica.

Il termine "solecchio" (v. 14) si riferisce al gesto di ripararsi gli occhi dal sole con la mano, derivato dal latino soliculus. Il "soverchio visibile" (v. 15) indica ciò che supera le capacità visive, con una terminologia aristotelica e scolastica.

I versi 16-21 descrivono il fenomeno della riflessione della luce, in cui l'angolo di incidenza è uguale a quello di riflessione, e quindi i raggi (quello che colpisce la superficie riflettente e quello riflesso) formano due angoli di pari ampiezza rispetto alla verticale del piano (il "cader de la pietra in igual tratta"). Il termine "parecchio" significa "uguale".

L'espressione "Godi tu che vinci" (v. 39) non è del tutto chiara, ma potrebbe essere una parafrasi delle parole di Cristo al termine delle beatitudini: "Gaudete et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in coelis" (Matteo 5, 12: "Gioite ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli").

I versi 44-45 si riferiscono a una citazione di Guido del Duca (XIV, 86-87). Il verso 69 fa riferimento alla credenza della fisica del tempo di Dante, secondo cui la luce si dirigeva solo verso i corpi lucidi.

Il verbo "s'intende" (v. 73) significa "si ama" e deriva dal provenzale s'entendre en; alcuni manoscritti riportano "s'incende".

I versi 88-92 si ispirano a Luca 2, 41-48, quando Maria e Giuseppe smarriscono Gesù, dodicenne, nella folla di Gerusalemme, per poi ritrovarlo tre giorni dopo al Tempio, intento a discutere con i dottori. Maria lo rimprovera, ma senza ira, con le parole "Fili, quid fecisti nobis sic? Ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te" (Dante traduce letteralmente).

I versi 94-105 si rifanno a un passo di Valerio Massimo (Mem., V, I), che racconta un episodio su Pisistrato, tiranno di Atene nel VI secolo a.C. Un giovane aveva baciato pubblicamente la figlia di Pisistrato, e la moglie, indignata, gli aveva chiesto di punirlo. Pisistrato rispose con calma, dicendo: "Si eos, qui nos amant, interficimus, quid iis faciemus quibus odio sumus?" (tradotto: "Se uccidiamo coloro che ci amano, cosa faremo a quelli che ci odiano?"). La "villa" (v. 97) è Atene, la cui fondazione fu segnata da una lunga contesa tra Nettuno e Minerva.

Le visioni descritte da Dante sono definite "non falsi errori" (v. 117), poiché, pur non essendo reali al di fuori della sua anima, sono veritiere. Le "larve" citate da Virgilio (v. 127) sono maschere latine, mentre "parve" (v. 129) è un latinismo che significa "piccole".

I versi 134-135 sono ambigui e possono essere interpretati in due modi, a seconda che il verso 135 intenda "non vede più quando il corpo giace morto" o "quando vede qualcuno che cade a terra svenuto".

Fonti: libri scolastici superiori

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