Parafrasi e Analisi: "Canto XXIII" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto 23 del Purgatorio di Dante Alighieri affronta una delle tematiche centrali del viaggio del poeta nell'aldilà: la lotta contro il peccato e la purificazione dell'anima attraverso il riconoscimento e il rimorso per le proprie colpe. In questo canto, Dante si confronta con il peccato dell'invidia, un vizio che, come altri, rende l'anima incapace di accedere alla vera luce e alla redenzione. L'argomento trattato non si limita alla descrizione del tormento delle anime in pena, ma si estende a una riflessione profonda sul significato dell'invidia e sulla necessità di liberarsi da essa per poter giungere alla beatitudine. L'arte poetica di Dante si fonde con il suo impegno morale e teologico, creando una visione complessa della condizione umana e della necessità di purificazione per ritrovare la comunione con Dio.


Testo e Parafrasi


Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,

lo più che padre mi dicea: «Figliuole,
vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto
più utilmente compartir si vuole».

Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
che l'andar mi facean di nullo costo.

Ed ecco piangere e cantar s'udìe
'Labïa mëa, Domine' per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.

«O dolce padre, che è quel ch'i' odo?»,
comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno
forse di lor dover solvendo il nodo».

Sì come i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
che si volgono ad essa e non restanno,

così di retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
d'anime turba tacita e devota.

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e tanto scema
che da l'ossa la pelle s'informava.

Non credo che così a buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n'ebbe tema.

Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!'.

Parean l'occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge 'omo'
ben avria quivi conosciuta l'emme.

Chi crederebbe che l'odor d'un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d'un'acqua, non sappiendo como?

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,

ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?».

Mai non l'avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso.

Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.

«Deh, non contendere a l'asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch'io abbia;

ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».

«La faccia tua, ch'io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos' io lui, «veggendola sì torta.

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr' io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d'altra voglia».

Ed elli a me: «De l'etterno consiglio
cade vertù ne l'acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio.

Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e 'n sete qui si rifà santa.

Di bere e di mangiar n'accende cura
l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.

E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,

ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire 'Elì',
quando ne liberò con la sua vena».

E io a lui: «Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu' anni non son vòlti infino a qui.

Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l'ora
del buon dolor ch'a Dio ne rimarita,

come se' tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora».

Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha condotto
a ber lo dolce assenzo d'i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.

Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m'ha de la costa ove s'aspetta,
e liberato m'ha de li altri giri.

Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;

ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov' io la lasciai.

O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica?
Tempo futuro m'è già nel cospetto,
cui non sarà quest' ora molto antica,

nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l'andar mostrando con le poppe il petto.

Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?

Ma se le svergognate fosser certe
di quel che 'l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;

ché, se l'antiveder qui non m'inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove 'l sol veli».

Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.

Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui»,

e 'l sol mostrai; «costui per la profonda
notte menato m'ha d'i veri morti
con questa vera carne che 'l seconda.

Indi m'han tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che 'l mondo fece torti.

Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.

Virgilio è questi che così mi dice»,
e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice

lo vostro regno, che da sé lo sgombra».
Mentre fissavo il mio sguardo sul verde fogliame,
con una attenzione simile a quella del cacciatore, che è solito
perdere il suo tempo stando dietro agli uccellini,

Virgilio, che è più che un padre per me, mi disse: "Figliolo,
seguimi adesso, perché il tempo che ci viene concesso
deve essere impiegato in modo più utile."

Rivolsi allora il mio sguardo, e non meno in fretta anche i miei
passi, dietro alle due sagge anime, che parlavano in modo tale
che il camminare non mi costava alcuna fatica.

In quel momento si udirono lamenti misti ad un canto
'Labia me, Domine' di dolcezza tale
da fare nascere allo stesso tempo gioia e dolore.

"Buon padre, spiegami che cos'è quello che sento?"
chiesi a Virgilio; e lui mi rispose: "Sono spiriti che percorrendo
la cornice pagano il loro debito con Dio."

Come fanno i pellegrini, chiusi nei loro pensieri, che quando
incontrano persone sconosciute durante il loro viaggio,
si limitano ad accompagnarle con lo sguardo senza fermarsi,

così da dietro a noi, muovendosi più in fretta, ci osservava
stupita, continuando a comminare per poi superarci,
quella folla di anime silenziose ed intente a pregare Dio.

Ogni anima aveva gli occhi infossati e perciò scuri,
ognuna aveva il volto pallido e tanto magro
che la pelle aveva ormai assunto la forma delle ossa.

Non credo che fino a tal punto, tanto da lasciare la sola pelle,
si fosse seccato Eresitone,
a causa del suo lungo digiuno, quando più ne ebbe paura.

Dicevo a me stesso, meditando su ciò che vedevo: "Ecco
come doveva essere ridotto il popolo ebraico che perse
Gerusalemme, quando una donna di nome Maria sbranò il proprio figlio spinta dalla terribile fame!"

Le loro occhiaie sembravano castoni di anelli senza gemme:
chi nel viso degli uomini legge la parola 'OMO'
avrebbe potuto riconoscere in loro in modo chiaro la lettera M.

Chi avrebbe mai potuto credere, senza sapere come,
che il profumo di un frutto potesse ridurre un uomo
in tali condizioni, e lo stesso potesse fare l'acqua, producendo un intenso desiderio?

Riflettevo con stupore su che cosa potesse renderli tanto
affamati, poiché non conoscevo ancora la ragione
della loro magrezza e della pietosa secchezza della loro pelle,

quando, dal profondo della sua testa,
un'ombra rivolse verso di me i suoi occhi e mi guardò fisso;
gridò poi forte: "Chi vedo, quale grazia mi è concessa?"

Non avrei mai potuto riconoscerlo solo guardandolo in viso;
fu la sua voce a rendermi nota la sua identità,
ciò che l'aspetto in se stesso aveva eliminato.

La sua voce fu la scintilla che riaccese in me
la fiamma della conoscenza di quel volto tanto trasformato,
e riconobbi quindi la faccia di Forese Donati.

"Non fare caso alla secca scabbia
che cancella i miei lineamenti", mi pregava lo spirito,
"né alla mia magrezza, alla mancanza di carne del mio corpo;

raccontami piuttosto di te, dimmi chi sono quelle
due anime che ti accompagnano nel tuo viaggio;
non restare in silenzio, parlarmi!"

"Il tuo viso, che piansi già quanto moristi, mi fa piangere
anche ora, procurandomi un dolore non minore",
risposi a lui, "poiché lo vedo così sfigurato.

Dimmi perciò, per amore di Dio, che cosa vi scarnifica in
questo modo; non farmi parlare di me mentre sono ancora
vinto dallo stupore, perché chi è distratto da un desiderio ancora insoddisfatto non riesce a parlare d'altro."

Mi disse Forese: "Dall'alto della volontà divina
scende un potere nell'acqua e nella pianta che abbiamo
ormai superato, che è la causa della mia magrezza.

Tutte queste anime che cantano tra i lamenti, per avere
in vita inseguito i piaceri della gola oltre ogni misura,
riacquistano ora qui la purezza soffrendo la fame e la sete.

Accendono il nostro desiderio di bere e mangiare
i profumi emanati dai frutti e dal getto d'acqua
che bagna il fogliame dell'albero.

E non solo per una volta, mentre percorriamo questo spiazzo
circolare, si rinnova la nostra sofferenze, ma continuamente:
uso il termine sofferenza ma dovrei parlare di piacere,

perché ci spinge verso questi alberi lo stesso desiderio
che indusse Cristo ad invocare Dio con gioia sul monte Golgota
quando liberò gli uomini dal peccato con il suo sangue."

Dissi allora io a lui: "Forese, dal giorno
in cui passasti a miglior vita ad oggi,
non sono ancora trascorsi cinque anni.

Se in te la possibilità di commettere peccato ebbe fine prima
che arrivasse l'ora dell'ultimo pentimento, del giusto dolore
che, staccando l'uomo dal peccato, lo ricongiunge a Dio,

come mai sei già arrivato quassù? Io credevo di incontrarti
laggiù di sotto, nell'antipurgatorio, dove si deve passare
tanto tempo quanto è stato quello vissuto nel peccato."

Mi rispose allora Forese: "Mi ha condotto così presto
a gustare la dolce amarezza della pena,
mia moglie Nella, con il suo pianto dirotto.

Con le sue preghiere devote e con i suoi sospiri mi ha tolto
dalla costa dell'antipurgatorio, dove le anime attendono la loro
pena, e mi ha anche liberato dalla permanenza in altre cornici.

Tanto è più cara a Dio e tanto da lui più amata
la mia dolce vedova, che tanto amai quando fui in vita,
quanto più è sola ad agire correttamente;

perché la Barbagia della Sardegna
può vantare donne più oneste e pudiche
della Barbagia di Firenze, in cui morendo l'ho lasciata.

Caro fratello, che cosa vuoi che ti dica?
Posso già vedere un tempo futuro non molto lontano,
rispetto al quale il presente non sarà così antico,

in cui dal pulpito delle chiese sarà proibito
alle sfacciate donne fiorentine
di camminare mostrando con ostentazione il proprio seno.

Quali donne barbare, quali donne saracene ci furono mai
che per farle andare in giro coperte dovessero essere convinte
con pene spirituali o di altro tipo?

Ma se queste donne senza vergogna potessero sapere
ciò che il Cielo prepara a breve per loro, avrebbero già,
ancor prima di subire la pena, la bocca spalancata per urlare;

perché, se la mia capacità di preveggenza non mi inganna,
avranno motivo di essere infelici in un tempo più breve di
quello che impiega un bambino in fasce per mettere la barba.

Ma adesso, fratello, non nascondermi più la natura del tuo
viaggio! Vedi come non solo io ma anche tutte le altre anime
osservano con meraviglia come il tuo corpo faccia da scudo ai raggi del sole."

Risposi pertanto a lui: "Se richiami alla memoria come
ci comportavamo, come operavamo quando eravamo amici,
il ricordo ti sarà ancora amaro.

Mi salvò da quella vita questo spirito
che cammina davanti a me, lo fece l'altro ieri, quando
la lune era piena, era tonda in cielo la sorella di costui",

e dicendo costui indicai il sole; "questo spirito mi ha condotto
attraverso le tenebre profonde che avvolgono i morti,
con questo mio corpo materiale, che lo segue.

Da lì mi hanno tirato fuori i suoi consigli, salendo e girando
intorno al monte del Purgatorio, che raddrizza voi, che
siete stati stortati dagli errori commessi in vita, nel mondo.

Dice che mi sarà da guida
fino al luogo in cui ci sarà Beatrice ad aspettarmi;
da lì in poi conviene che continui il viaggio senza di lui.

Virgilio è questo spirito, che queste cose mi ha detto",
e così dicendo lo indicai all'amico; "e quell'altro e colui
per il quale poco fa ha tremato ogni pendio

del vostro regno, perché ormai, essendosi lui purificato, lo allontana da sé."



Riassunto


vv. 1-36: I golosi
Dante si ferma a osservare un albero rovesciato, ma Virgilio lo esorta a riprendere il cammino, sottolineando l'importanza di sfruttare al meglio il tempo loro concesso. I tre poeti si imbattono in un gruppo di anime scheletriche, che cantano il versetto del Miserere. Questi sono i golosi, tormentati dalla fame e dalla sete, intensificata dalla visione dei frutti e dell'acqua a loro inaccessibili.

vv. 37-75: L'incontro con Forese Donati
Una voce amica si fa sentire tra gli spiriti, rivelandosi essere l'amico di Dante, Forese Donati. Dante lo riconosce nonostante l'aspetto irriconoscibile e Forese gli spiega che la loro magrezza è il risultato della fame e sete costanti, desideri mai soddisfatti. Poiché Forese è morto recentemente e si è pentito solo sul letto di morte, Dante gli chiede perché si trovi già in questa cornice del Purgatorio e non nell'Antipurgatorio.

vv. 76-114: Forese loda la moglie e condanna le donne fiorentine
Forese attribuisce la sua condizione alla preghiera incessante di sua moglie, Nella, l'ultima donna virtuosa di Firenze. Inizia poi una violenta critica contro la corruzione e il comportamento immorale delle donne fiorentine, che si vantano sfacciatamente della loro nudità. Tuttavia, Forese profetizza che l'ira divina si abbatterà presto su di loro.

vv. 115-133: Dante parla del suo viaggio ultraterreno
Curioso del viaggio ultraterreno di Dante, Forese gli chiede come sia riuscito a visitare il regno dei morti pur essendo ancora in vita. Dante risponde che è stato Virgilio a salvarlo dalla sua vita peccaminosa, guidandolo attraverso l'Inferno e ora conducendolo nel Purgatorio verso Beatrice.


Figure Retoriche


vv. 2-3: "Come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde": Similitudine.
v. 7: "Volsi 'l viso": Sineddoche. Il tutto per la parte, il viso anziché lo sguardo o gli occhi.
v. 10: "Piangere e cantar s'udìe": Anastrofe.
v. 10: "Piangere e cantar s'udìe": Ossimoro.
v. 12: "Diletto e doglia parturìe": Ossimoro.
vv. 16-21: "Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno, così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d'anime turba tacita e devota": Similitudine.
v. 21: "Tacita e devota": Endiadi. S'intende "con stupore".
v. 22: "Ne li occhi era ciascuna oscura e cava": Sineddoche.
v. 22: "Oscura e cava": Endiadi.
v. 29: "La gente che perdé Ierusalemme": Perifrasi. Per indicare gli Ebrei.
v. 31: "Parean l'occhiaie anella sanza gemme": Similitudine.
v. 44: "Voce sua": Anastrofe.
v. 46: "Questa favilla": Metafora.
v. 47: "Cangiata labbia": Metonimia. Il contenente per il contenuto, cioè usa il volto come soggetto per identificare la persona.
vv. 52-53: "Quelle / due anime": Enjambement.
v. 55: "Faccia tua": Anastrofe.
v. 72: "Io dico pena, e dovrìa dir sollazzo": Antitesi.
vv. 73-74: "Ci mena che menò": Figura Etimologica.
v. 75: "Con la sua vena": Metonimia.
vv. 76-77: "Da quel dì nel qual mutasti mondo a miglior vita": Eufemismo.
v. 81: "Buon dolor": Ossimoro. Per indicare il pentimento.
vv. 83-84: "Là giù di sotto dove tempo per tempo si ristora": Perifrasi.
v. 86: "Dolce assenzo": Ossimoro.
v. 87: "La Nella mia": Anastrofe.
v. 89: "Tratto m'ha": Anastrofe.
v. 90: "E liberato m'ha": Anastrofe.
v. 95: "Le femmine sue": Anastrofe.
vv. 119-120: "Quando tonda vi si mostrò la suora di colui": Perifrasi. Per indicare la Luna.
vv. 121-122: "Profonda / notte": Enjambement.


Analisi ed Interpretazioni


L'incontro con Forese Donati: amicizia, pentimento e critica ai costumi di Firenze
Il Canto XXIII del Purgatorio, insieme al XXIV, costituisce un dittico narrativo incentrato sulla cornice dei golosi e sull'incontro tra Dante e l'amico d'infanzia Forese Donati. Questa sezione del poema richiama, per struttura, i canti XXI e XXII dedicati a Stazio, proseguendo la riflessione sul ruolo della poesia, che culminerà nell'incontro con Beatrice nell'Eden.

La pena dei golosi e il contesto della cornice
I golosi vengono introdotti attraverso un canto di preghiera, il Salmo Labia mea, Domine, che esprime il pentimento per aver usato la bocca in vita non per lodare Dio, ma per indulgere smodatamente nel cibo. Il loro aspetto è stravolto: sono scheletrici, con visi talmente emaciati da sembrare scolpiti con la parola "OMO", in cui gli occhi formano le due "O" e la linea del naso e delle sopracciglia richiama una "M" gotica. Dante associa la loro sofferenza a due immagini: il mito di Erisìttone, condannato a una fame perpetua per aver offeso Cerere, e il dramma degli Ebrei durante l'assedio di Gerusalemme, spinti dalla fame a terribili atti di cannibalismo, come racconta Flavio Giuseppe.

L'incontro con Forese Donati
Forese Donati, fratello di Corso e Piccarda e lontano parente di Dante, è irriconoscibile a causa della magrezza. Nonostante fosse peccatore fino all'ultimo momento della sua vita, Forese è giunto direttamente alla cornice dei golosi grazie alle ferventi preghiere della moglie Nella. Dante celebra la modestia di Nella, unica tra le donne fiorentine a vivere in modo virtuoso, e ripara le offese che le aveva rivolto in gioventù nei sonetti ingiuriosi della Tenzone.

Forese ricorda il passato condiviso con Dante, un tempo caratterizzato da una vita disordinata e gaudente, da cui il poeta è stato salvato grazie alla guida di Virgilio. Questo tema del "traviamento" morale rimanda alla selva oscura e agli errori giovanili, sia sul piano personale che intellettuale, come l'adesione a una poesia comica e volgare, ora superata da Dante in favore di un'arte moralmente elevata e spiritualmente orientata.

La critica ai costumi di Firenze
Forese coglie l'occasione per lanciare una dura invettiva contro il degrado morale delle donne fiorentine, che si comportano in modo sfacciato e privo di pudore, peggio persino delle donne della Barbagia. Questo declino è posto in contrasto con il ritratto ideale della Firenze del passato, evocato da Cacciaguida nel Paradiso: una città sobria, dove le donne erano modeste e dedite alla famiglia, lontane dagli eccessi e dalle vanità. La condanna di Forese si intreccia con la critica politica e morale che pervade tutto il poema, culminando nella profezia della morte violenta del fratello Corso, simbolo di corruzione e disordine.

Il viaggio di redenzione e la funzione di Virgilio
Il dialogo con Forese si chiude con la presentazione di Virgilio e Stazio, figure guida nel cammino di Dante. Virgilio, simbolo della ragione, accompagna il poeta verso Beatrice, incarnazione della teologia, che sarà l'unica a completare il processo di redenzione. Questo percorso, che ha origine nella vita disordinata del passato, si contrappone al degrado morale denunciato nel canto e culminerà nell'incontro con Beatrice, modello di purezza e virtù.


Passi Controversi


La forma Figliuole (v. 4) conserva l'antica desinenza in -e del vocativo latino, utilizzata anche in contesti che non richiedono una rima. I golosi recitano il versetto 17 del Salmo 50: Domine, labia mea aperies, et os meum adnuntiabit laudem tuam («Signore, aprirai le mie labbra e la mia bocca proclamerà le tue lodi»). Dante crea qui un evidente contrasto tra chi utilizza la bocca per glorificare Dio e chi, come i golosi in vita, l'ha impiegata in modo smodato per soddisfare i propri appetiti.

Erisìttone, nominato al v. 26, era il figlio del re di Tessaglia Triopa. Secondo la mitologia, egli abbatté una quercia in un bosco consacrato a Cerere, provocando l'ira della dea, che lo punì infliggendogli una fame insaziabile. La sua punizione lo portò, infine, a divorare il proprio corpo. La fonte di Dante è Ovidio (Metamorfosi, VIII, 875-878), che descrive come Erisìttone, consumate tutte le risorse disponibili, iniziò a straziarsi con morsi crudeli, nutrendosi delle sue stesse membra e distruggendosi a poco a poco.

Nei vv. 28-30, Dante menziona Flavio Giuseppe, storico che nella sua Guerra giudaica narra l'assedio di Gerusalemme da parte di Tito (66-70 d.C.), durante il quale la fame tormentava gli assediati (VI, 3). Il termine spazzo (v. 70) indica lo spazio del ripiano della Cornice.

Il v. 74 richiama le parole pronunciate da Cristo sulla croce: Elì, Elì, lamma sabachtani («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», Matteo, XXVII, 46). La Barbagia (v. 94), regione centrale della Sardegna, era nota ai tempi di Dante per i costumi considerati arretrati. Forese Donati la cita per denunciare la barbarie dei costumi fiorentini, giocando sulla possibile associazione etimologica tra Barbagia e barbaries (cfr. v. 103: quai barbare...).

Nei vv. 105 e seguenti, si fa riferimento a punizioni e sanzioni imposte dalle autorità ecclesiastiche (spiritali... discipline) o civili (altre). Dante, ai vv. 110-111, prevede che il castigo contro le donne fiorentine non tarderà molti anni e si abbatterà prima che i bambini appena nati raggiungano l'età della pubertà (ovvero, mettano la barba sulle guance).

Infine, il termine altr'ier (v. 119) è usato in modo generico per indicare «alcuni giorni fa», poiché l'incontro tra Dante e Virgilio nella selva oscura avvenne la mattina dell'8 aprile 1300, mentre ora è mezzogiorno del 12 aprile. Al v. 120, Dante ricorda che la luna piena era visibile l'8 aprile, come già sottolineato da Virgilio in Inferno, XX, 127.

Fonti: libri scolastici superiori

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