Parafrasi e Analisi: "Canto XXIV" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XXIV del Purgatorio si apre con il proseguimento del viaggio di Dante e Virgilio attraverso la sesta cornice, dedicata ai golosi. In questo contesto, il poeta approfondisce il tema della penitenza come atto di purificazione e redenzione, con un'attenzione particolare alla dimensione spirituale del peccato di gola. Il canto offre inoltre una riflessione sulla natura del desiderio e sul rapporto tra i bisogni materiali e la tensione verso l'elevazione morale. Qui, Dante pone in dialogo la condizione dei penitenti con la virtù della temperanza, rivelando come il cammino verso la salvezza richieda non solo la rinuncia all'eccesso, ma anche la riscoperta di un ordine interiore fondato sull'amore divino.


Testo e Parafrasi


Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento;

e l'ombre, che parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte.

E io, continüando al mio sermone,
dissi: «Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione.

Ma dimmi, se tu sai, dov' è Piccarda;
dimmi s'io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda».

«La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, trïunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona».

Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch'è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta.

Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l'altre trapunta

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l'anguille di Bolsena e la vernaccia».

Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch'io però non vidi un atto bruno.

Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.

Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio.

Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza
più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza.

El mormorava; e non so che «Gentucca»
sentiv' io là, ov' el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.

«O anima», diss' io, «che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda,
e te e me col tuo parlare appaga».

«Femmina è nata, e non porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come ch'om la riprenda.

Tu te n'andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.

Ma dì s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
'Donne ch'avete intelletto d'amore'».

E io a lui: «I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando».

«O frate, issa vegg' io», diss' elli, «il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!

Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;

e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l'uno a l'altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.

Come li augei che vernan lungo 'l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo,

così tutta la gente che lì era,
volgendo 'l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera.

E come l'uom che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l'affollar del casso,

sì lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?».

«Non so», rispuos' io lui, «quant' io mi viva;
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
ch'io non sia col voler prima a la riva;

però che 'l loco u' fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto».

«Or va», diss' el; «che quei che più n'ha colpa,
vegg' ïo a coda d'una bestia tratto
inver' la valle ove mai non si scolpa.

La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch'ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto.

Non hanno molto a volger quelle ruote»,
e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro
ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote.

Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro
in questo regno, sì ch'io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro».

Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo,

tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi.

E quando innanzi a noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue,

parvermi i rami gravidi e vivaci
d'un altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci.

Vidi gente sott' esso alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani

che pregano, e 'l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde.

Poi si partì sì come ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta.

«Trapassate oltre sanza farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso».

Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva.

«Ricordivi», dicea, «d'i maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Tesëo combatter co' doppi petti;

e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver' Madïan discese i colli».

Sì accostati a l'un d'i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni.

Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola.

«Che andate pensando sì voi sol tre?».
sùbita voce disse; ond' io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre.

Drizzai la testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi,

com' io vidi un che dicea: «S'a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace».

L'aspetto suo m'avea la vista tolta;
per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori,
com' om che va secondo ch'elli ascolta.

E quale, annunziatrice de li albori,
l'aura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da l'erba e da' fiori;

tal mi senti' un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti' mover la piuma,
che fé sentir d'ambrosïa l'orezza.

E senti' dir: «Beati cui alluma
tanto di grazia, che l'amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,

esurïendo sempre quanto è giusto!».
Né il parlare rallentava l'andatura, né il camminare rallentava
il discorso, ma, continuando a parlare, camminavamo in fretta
come una nave sospinta da un buon vento;

e le anime, che sembravano essere morte una seconda volta,
dalle loro orbite infossate si meravigliavano
della mia persona, essendosi accorte che ero ancora in vita.

Ed io, continuando il mio discorso con Forese Donati, dissi:
"L'anima di Stazio sale verso il Paradiso forse più lentamente
di quello che dovrebbe essere, a causa di altri, di Virgilio.

Ma dimmi, se lo sai, dove si trova tua sorella Piccarda;
dimmi anche se posso incontrare qualcuno degno di nota
in questo gruppo di anime che mi fissano così tanto."

"Mia sorella, che non so se fosse più bella
o più buona, trionfa ormai beata
della sua gloria nell'alto Cielo."

Così disse inizialmente e poi aggiunse: "In questa cornice è
necessario nominare ogni anima, essendo così consumato
il nostro aspetto a causa del lungo digiuno.

Questa anima", e indicò uno con il dito, "è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quello poco più lontano
che ha il viso più squamato degli altri

ebbe tra le sue braccia, in sposa, la Santa Chiesa (fu Papa):
fu 'da Tours', e sconta con il digiuno l'aver mangiato
troppe anguille di Bolsena e bevuto troppa vernaccia."

Molte altre anime mi nominò una ad una;
e tutti sembravano contenti di venire nominati,
tanto che non vidi nessun gesto di disappunto.

Vidi fare andare i denti, masticare a vuoto per la tanta fame
Ubaldino degli Ubaldini e Bonifacio Fieschi,
che fu in vita vescovo di una diocesi molto numerosa.

Vidi Marchese degli Argugliosi, che ebbe occasione di bere
a Forlì con meno sete di quella che aveva in Purgatorio,
e fu tanto ingordo da non sentirsi mai sazio.

Ma come fa chi guarda più persone e poi si compiace
più d'una che di un'altra, così feci il con Bonagiunta da Lucca,
che più degli altri sembra essere volermi parlare.

Mormorava sotto voce; ed un certo nome 'Gentuccia'
distinguevo sulla sua bocca, là dove egli sentiva più il
tormento della giustizia divina che li consuma nel digiuno.

"Oh anima", dissi io a lui, "che sembri così desiderosa
di parlare con me, fa in modo che ti capisca,
e soddisfa entrambi, me e te, con le tue parole."

"È già nata una donna, ma non indossa ancora il copricapo
nuziale", cominciò a dire l'anima, "che farà in modo che a te
piaccia la mia città, per quanto se ne parli male.

Te ne andrai di qui con questa profezia: se le parole
da me mormorate ti hanno fatto nascere dei dubbi,
saranno poi i fatti a scioglierteli.

Ma adesso dimmi se vedo qui di fronte a me colui che
inventò un nuovo modo di fare poesia, scrivendo la canzone
'Donne che avete intelletto d'amore'."

Gli risposi: "Io sono un poeta che, quando
l'Amore lo ispira, scrive, ed esprime esattamente
ciò che gli viene dettato dal cuore."

"Oh fratello, adesso riesco a vedere bene", mi disse,
"l'ostacolo che trattenne il notaio Iacopo da Lentini, Guidone
d'Arezzo e me lontano dal dolce stile nuovo che sento da te!

Vedo bene adesso come le vostre penne
riescano a seguire da vicino l'Amore, che vi detta i versi,
come certamente non riuscirono a fare le nostre;

e chi dovesse indagare oltre, non vedrebbe
nessuna altra differenza tra l'una e l'altra penna";
e, come se fosse soddisfatto, tacque.

Come le Gru, che passano l'inverno lungo il fiume Nilo,
qualche volta formano delle schiere in cielo,
per poi volare più velocemente e formare una sola fila,

così tutte le anime che si trovavano in quella cornice,
rivolgendo lo sguardo altrove, affettarono i loro passi, leggere
e veloci sia per la magrezza che per la volontà di andare.

E come un uomo stanco di correre
lascia andare avanti i compagni e cammina poi lentamente,
finché non diminuisce l'affanno del petto,

così Forese lasciò andare avanti la folla di anime devote,
e procedette in mia compagnia,
dicendo: "Quando potrò rivederti?"

Gli risposi: "Non so per quanto rimarrò ancora in vita;
ma non sarà mai il mio ritorno al Purgatorio così veloce
quanto vorrei che lo fosse;

perché il luogo in cui nacqui, in cui fui posto a vivere,
continua a perdere giorno dopo giorno i suoi buoni valori,
e sembra oramai destinato ad una tragica fine."

"Va adesso", disse Forese; "perché l'uomo che è più colpevole
per la condizione di Firenze (Corso Donati), lo vedo trascinato
da una animale verso quella valle in cui non si ottiene il perdono per i propri peccati.

L'animale accelera la propria corsa ad ogni passo,
in un continuo crescendo, finché non gli dà il colpo finale,
lasciando orribilmente sfigurato il corpo dell'uomo.

Non passeranno molti anni",
e disse drizzando gli occhi al cielo, "prima che ti sarà chiaro
ciò che le mie parole non possono chiarirti oltre.

Ma adesso accetta di restare indietro; perché il tempo è
importante in questo regno, ed io ne sto perdendo troppo
procedendo al tuo passo."

Come talvolta esce da solo al galoppo un cavaliere
da una schiera di cavalieri lanciati contro il nemico,
e va veloce per poter avere l'onore del primo scontro,

allo stesso modo Forese si allontanò da noi allungando il
passo; ed io restai in cammino solo con i due (Virgilio e
Stazio) che furono in vita così grandi maestri per il mondo.

E quando Forese si fu allontanato da noi a tal punto
che i miei occhi poterono seguirlo a fatica, allo stesso modo
in cui la mia mente seguì le sue parole profetico,

mi apparvero i rami carichi di frutti e di verdi foglie
di un altro albero, non molto lontano da noi,
essendomi solo in quel momento voltato in quella direzione.

Vidi delle anime alzare le proprie mani da sotto ai rami,
e gridare qualcosa verso i rami stessi,
come bambini pieni di desiderio che pregano inutilmente

perché colui che pregano non risponde loro, ma, anzi,
per fare in modo che il loro desiderio cresca ulteriormente,
tiene ben in alto sopra loro l'oggetto del desiderio.

Poi quella folla si allontanò, come se avesse capito l'inutilità
del gesto; noi raggiungemmo subito il grande albero,
sordo verso così tanti pianti e tante preghiere.

"Passate oltre senza avvicinarvi: più in alto
si trova l'albero che produsse il frutto morso da Eva,
questa stessa pianta è nata da quell'albero."

Fu detto così da una voce sconosciuta proveniente dai rami;
per cui Virgilio, Stanzio ed io, stando vicini,
procedemmo oltre lungo il pendio della cornice.

Diceva ancora quella voce: "Ricordatevi di quei maledetti
nati da una nuvola, i Centauri, che, sazi ed ubriachi,
combatterono contro Teseo con i loro corpi per metà di uomini e metà di animali;

ed anche degli Ebrei che si mostrarono troppo incontrollati nel
bere e furono pertanto rifiutati come compagni da Gedeone,
quando discese dai monti per combattere contro i Madianiti."

Rasentando uno dei bordi della cornice
passammo così oltre, ascoltando esempi di peccati di gola
a cui fecero seguito ben miseri guadagni.

Poi, di nuovo distanziati tra noi grazie alla strada deserta,
procedemmo oltre per più di mille passi,
ciascuno meditando tra sé senza pronunciare parola.

"A cosa pensate così camminando, voi tre soli?"
chiese improvvisamente una voce; fui perciò scosso dai miei
pensieri come fanno gli animali spaventati da un rumore che li ha colti nel sonno.

Alzai subito la testa per cercare di vedere chi avesse parlato;
e non si videro mai in una fornace
dei vetri o dei metalli tanto lucenti e rossi

quanto lo era l'angelo che vidi allora, che disse: "Se volete
salire il pendio, dovete voltare qui; passa da qui infatti
chi vuole raggiungere la pace del Paradiso."

Il suo aspetto splendente mi rendeva faticosa la sua vista; mi
volsi pertanto indietro verso i due maestri, come chi procede
affidandosi soltanto alle indicazioni verbali che riceve.

E come, annunciando l'alba,
l'aria di Maggio soffia e dona profumo,
tutta impregnata dall'odore di erbe e di fiori;

cos'ì sentii allora una brezza piacevole sulla mia fronte,
mentre percepivo il movimento delle penne dell'angelo,
che odoravano di ambrosia.

E sentii dire dall'angelo: "Beati coloro che sono tanto illuminati
dalla Grazia, che l'istinto della gola non riesce
a suscitare in loro il fumo di una desiderio senza controllo,

ed hanno invece sempre fame di ciò che è giusto!"



Riassunto


vv. 1-33
Dante continua il suo viaggio in compagnia di Forese Donati, procedendo a passo spedito. Durante il percorso, Forese parla della sorella Piccarda, rivelando che è già beata in Paradiso (sarà infatti la prima anima che Dante incontrerà nel Cielo). Forese aggiunge che non c'è alcun impedimento nel nominare le anime dei penitenti e indica a Dante diverse figure, tra cui Bonagiunta da Lucca e papa Martino IV. Tra tutte le anime mostrate, Dante annota in particolare i nomi di Ubaldino della Pila, Bonifazio Fieschi e Marchese degli Argugliosi.

vv. 34-63
Dante nota che Bonagiunta è particolarmente interessato a parlargli e mormora la parola "Gentucca". Curioso, Dante gli chiede il motivo, e Bonagiunta spiega che un giorno una giovane donna gli farà apprezzare la città di Lucca, nonostante la cattiva reputazione che essa ha. Da qui prende vita una discussione sul modo di fare poesia. Dante descrive il proprio stile, e il poeta lucchese riconosce di aver finalmente compreso la differenza tra la nuova scuola poetica e quella del passato. Dopo questa riflessione, Bonagiunta si allontana in silenzio.

vv. 64-81
Bonagiunta e gli altri spiriti che si erano radunati attorno a Dante riprendono rapidamente il loro cammino. Forese, rimasto accanto a Dante, gli chiede quando potranno rivedersi. Dante risponde di non saperlo, ma confessa che lascerà Firenze volentieri e presto, perché ormai non tollera più la corruzione che domina la città.

vv. 82-93
Forese prevede quindi la tragica fine del fratello Corso Donati, leader della fazione dei Guelfi neri, profetizzando il suo destino drammatico.

vv. 94-120
Terminato il discorso, Forese si ricongiunge con il gruppo delle anime penitenti. Dante, insieme a Virgilio e Stazio, riprende il cammino e giunge presso un albero. Sotto i suoi rami, un gruppo di anime tende le mani cercando inutilmente di coglierne i frutti profumati. Deluse, si allontanano. Una voce, proveniente dall'albero stesso, rivela che esso è nato dall'albero del Paradiso, quello violato da Eva quando osò mangiarne il frutto proibito.

vv. 121-129
La stessa voce prosegue con un ammonimento, ricordando due episodi di golosità punita. Il primo è quello dei centauri ubriachi durante le nozze di Piritoo; il secondo riguarda gli ebrei che, sopraffatti dalla sete, persero l'opportunità di condividere la gloria della vittoria sui nemici.

vv. 130-154
Dante, Virgilio e Stazio riprendono a camminare e, dopo circa mille passi, giungono al cospetto dell'angelo della temperanza. L'angelo li invita a proseguire verso l'alto, ma il suo volto risplende così intensamente che Dante non riesce a sostenere quella luce. Intonando una delle beatitudini, l'angelo cancella un'altra delle "P" incise sulla fronte di Dante.


Figure Retoriche


vv. 2-3: "Andavam forte, sì come nave pinta da buon vento": Similitudine.
v. 4: "Ombre, che parean cose rimorte": Similitudine.
vv. 5-6: "Ammirazione traean di me": Anastrofe.
v. 6: "Di mio vivere accorte": Anastrofe.
v. 28: "A vòto usar li denti": Anastrofe.
vv. 34-36: "Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca, che più parea di me aver contezza": Similitudine.
vv. 38-39: "La piaga / de la giustizia": Enjambement.
vv. 40-41: "Vaga / di parlar": Enjambement.
v. 58: "Le vostre penne": Metonimia.
vv. 64-68: "Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan più a fretta e vanno in filo, così tutta la gente che lì era, volgendo 'l viso, raffrettò suo passo": Similitudine.
vv. 70-74: "E come l'uom che di trottare è lasso, lascia andar li compagni, e sì passeggia fin che si sfoghi l'affollar del casso, sì lasciò trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva": Similitudine.
v. 82: "Che quei che più n'ha colpa": Perifrasi. Per indicare Corso Donati.
vv. 94-98: "Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo, tal si partì da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due": Similitudine.
v. 101: "Li occhi miei": Anastrofe.
v. 114: "Parole sue": Anastrofe.
v. 108: "Quasi bramosi fantolini e vani": Similitudine.
v. 114: "Prieghi e lagrime": Endiadi.
v. 116: "Legno": Sineddoche.
v. 122: "Nei nuvoli": Sineddoche.
v. 122: "Nei nuvoli formati": Anastrofe.
vv. 134-135: "Mi scossi come fan bestie spaventate e poltre": Similitudine.
vv. 137-139: "E già mai non si videro in fornace vetri o metalli sì lucenti e rossi, com'io vidi un": Similitudine.
v. 142: "L'aspetto suo": Anastrofe.
v. 144: "Com'om che va secondo ch'elli ascolta": Similitudine.
vv. 148-149: "Per mezza / la fronte": Enjambement.
vv. 145-150: "E quale, annunziatrice de li albori, l'aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l'erba e da' fiori; tal mi senti' un vento dar per mezza la fronte, e ben senti' mover la piuma, che fé sentir d'ambrosia l'orezza": Similitudine.


Personaggi Principali


Martino IV (Simone de Brie)
Simone de Brie, noto come Martino IV, fu papa dal 1281 al 1285, succedendo a Niccolò III. Sebbene originario di Montpincé, nella regione francese della Brie, il suo legame con Tours, dove ricoprì l'incarico di tesoriere, gli valse il riferimento nel testo come "dal Torso". Considerato un buon pontefice secondo le cronache di Villani, è ricordato soprattutto per la sua fama di golosità. La sua passione per le anguille era talmente nota che alla sua morte gli fu dedicato un epitaffio scherzoso: "Gaudent anguillae quia mortuus iacet ille / qui quasi morte reas excoriabat eas", traducibile in "Gioiscano le anguille, poiché è morto colui che le scorticava come se fossero colpevoli di un crimine".

Ubaldino da la Pila
Ubaldino da la Pila, appartenente alla potente famiglia degli Ubaldini, deve il suo nome al castello della Pila nel Mugello, in Toscana. Era fratello del cardinale Ottaviano e di Ugolino d'Azzo, nonché padre dell'arcivescovo Ruggieri, celebre per il tradimento ai danni del Conte Ugolino.

Bonifazio Fieschi
Bonifazio Fieschi, membro della famiglia dei conti di Lavagna, fu arcivescovo di Ravenna dal 1274 al 1295. È descritto come un uomo gioviale e generoso, noto per la sua passione per il buon vivere.

Marchesino degli Argugliosi
Marchesino degli Argugliosi, originario di una prestigiosa famiglia forlivese, ricoprì il ruolo di podestà di Faenza nel 1296. È ricordato per la sua inclinazione al bere, un aspetto che gli valse il posto tra i golosi.


Analisi ed Interpretazioni


Bonagiunta da Lucca: poeta e giudice tra tradizione e innovazione
Bonagiunta Orbicciani degli Overardi, noto anche come Bonagiunta da Lucca, è stato un rimatore lucchese attivo nel XIII secolo, appartenente alla scuola toscana. Svolse la professione di giudice e notaio, come documentano alcuni atti compresi tra il 1242 e il 1257. Nonostante non si conoscano con precisione i dettagli sulla sua nascita, si può supporre che abbia vissuto abbastanza a lungo da riconoscere Dante di persona e conoscere la celebre canzone "Donne ch'avete intelletto d'amore".

Bonagiunta giocò un ruolo cruciale nel trasferire i canoni della scuola poetica siciliana in Toscana, tanto che attorno a lui si sviluppò una piccola cerchia di poeti che ne adottarono gli stilemi. Tuttavia, Dante lo giudicò severamente sia nel De vulgari eloquentia sia nel Canto XXIV del Purgatorio, dove Bonagiunta è presentato come rappresentante di una generazione poetica ormai superata. In questa cornice, Dante sottolinea la superiorità del dolce stil novo, sottolineando come la nuova poesia fosse ispirata direttamente dall'amore, contrariamente alla retorica più artificiosa e formale degli autori precedenti.

Nel dialogo tra i due, Bonagiunta riconosce la rivoluzione poetica introdotta da Dante e Guinizelli, ammettendo la differenza tra il loro stile e quello più tradizionale suo e dei siculo-toscani. La novità dello stil novo, secondo Dante, risiedeva nella semplicità e immediatezza espressiva, contrapposta alla complessità retorica dei poeti che lo avevano preceduto.

Forese e Corso Donati: tra virtù e corruzione
Forese Donati, protagonista dei Canti XXIII e XXIV del Purgatorio, apparteneva a una famiglia di spicco a Firenze. Figlio di Simone di Forese e di Contessa, era fratello di Corso e Piccarda Donati. Quest'ultima è ricordata da Dante nel Paradiso come esempio di virtù, in netto contrasto con Corso, figura simbolo della corruzione politica e della violenza. Forese, cugino di terzo grado della moglie di Dante, è noto anche per la tenzone poetica in stile comico scambiata con l'autore.

Corso Donati, figura turbolenta e ambiziosa, fu capo dei guelfi neri e protagonista delle lotte politiche a Firenze. La sua carriera fu segnata da intrighi e alleanze opportunistiche. Tra i suoi atti più infamanti, spicca il rapimento della sorella Piccarda dal convento, per costringerla a un matrimonio politicamente vantaggioso. La sua morte, avvenuta nel 1308, è evocata da Forese in una profezia oscura: Corso verrà trascinato all'Inferno legato alla coda di un cavallo selvaggio, simbolo della giustizia divina che punisce le sue colpe.

Nel dialogo tra Dante e Forese, quest'ultimo sottolinea il contrasto tra la purezza della sorella Piccarda e la dannazione del fratello Corso, offrendo un quadro simbolico della decadenza morale di Firenze.

Un incontro tra poesia e redenzione
Il Canto XXIV del Purgatorio si chiude con la descrizione del secondo albero della Cornice dei golosi, il cui frutti, irraggiungibili, rappresentano la tentazione e il castigo. Forese, dopo aver salutato Dante, si allontana, mentre l'attenzione si sposta su Bonagiunta. Quest'ultimo, ammirato, riconosce in Dante il poeta che ha aperto una nuova strada con le rime nuove, avviando un dialogo teorico sulle differenze tra i due stili. Dopo la conclusione di questo scambio, l'angelo della temperanza appare, cancella la sesta P dalla fronte di Dante e guida i poeti verso la cornice successiva, preludio a ulteriori riflessioni sulla natura dell'amore e dell'ispirazione poetica.


Passi Controversi


Nei vv. 16-17 (Qui non si vieta / di nominar ciascun), probabilmente si sottolinea soltanto la necessità di nominare le anime, rese irriconoscibili dalla loro estrema magrezza, piuttosto che un divieto di indicare i penitenti, assente in questa Cornice (e mai menzionato negli altri canti).

Al v. 21, trapunta assume il significato di "screpolata", un effetto della magrezza estrema.

Il personaggio citato nei vv. 20-24 è Simone de Brie, originario di Tours (Torso), che divenne papa col nome di Martino IV. La sua fama di ghiottone era proverbiale; si racconta che, spesso, al termine dei concistori, esclamasse: O Sanctus Deus, quanta mala patimur pro Ecclesia Dei! Ergo bibamus! ("O Dio Santo, quante fatiche sopportiamo per il bene della Chiesa! Dunque, beviamo!").

La vernaccia menzionata al v. 24 si riferisce al vino delle Cinque Terre, e non a quello sardo dallo stesso nome.

Il v. 30 (che pasturò col rocco molte genti), relativo a Bonifacio Fieschi, arcivescovo di Ravenna, è stato interpretato in vari modi. Il termine rocco potrebbe indicare la punta del pastorale, che, nella tradizione ravennate, aveva una forma prismatica e derivava dal persiano rokh (da cui il termine scacchistico "arroccare"). Il verso potrebbe quindi significare che Bonifacio guidò (pasturò) molte genti con il suo pastorale, senza alcuna ironia legata alla gola o al "pascolare".

Il nome Gentucca, pronunciato da Bonagiunta (v. 37), è stato oggetto di diverse ipotesi, ma l'interpretazione più plausibile è che si tratti di una giovane lucchese che, secondo i vv. 43-45, ospiterà Dante durante il suo soggiorno a Lucca in esilio. Si pensa fosse ancora giovinetta, dato che non indossava la benda nera, copricapo riservato alle donne maritate secondo gli statuti comunali.

Al v. 55, Issa è un termine lucchese che significa "ora", simile al lombardo Istra di Inf. XXVII, 21.

La valle ove mai non si scolpa (v. 84) si riferisce all'Inferno, sebbene alcuni abbiano ipotizzato che possa indicare Firenze, dove il peccato è continuo.

Nel v. 99, marescalchi (dal franco marhskalk, "servo del cavallo") è usato con il senso di "maestri" o "guide".

Al v. 104, pomo indica "albero", mentre il significato del v. 105 (per essere pur allora vòlto in laci) è ambiguo: potrebbe significare che Dante vede l'albero solo dopo aver girato una curva del monte, oppure che in quel momento volge lo sguardo verso la pianta, dopo aver seguito Forese con gli occhi.

La rima sol tre (v. 133) è composta e va letta sòltre.

Al v. 135, poltre viene interpretato principalmente come "pigre" o "tranquille", ma potrebbe anche significare "giovani".

Infine, ai vv. 151-154, l'angelo della temperanza recita parte della quarta beatitudine: Beati qui esuriunt iustitiam, mentre l'angelo della giustizia aveva pronunciato Beati qui sitiunt iustitiam. Qui Dante parafrasa il Vangelo, esaltando coloro che nutrono un amore giusto e moderato per il cibo.

Fonti: libri scolastici superiori

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