Parafrasi e Analisi: "Canto XXI" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Il Canto XXI del Purgatorio si svolge, come i due precedenti, nella quinta cornice, dove vengono purificate le anime degli avari e dei prodighi. Qui Dante incontra Stazio, poeta latino appena redento e pronto a salire al Paradiso. Stazio non è solo il fulcro del Canto XXI, ma anche una figura chiave dell'ultima parte della seconda cantica, poiché accompagnerà Dante fino al Paradiso Terrestre. Questo incontro segna l'inizio di una riflessione sulla poesia, che si sviluppa dal Canto XXI fino all'ingresso nel Paradiso Terrestre. Da questo punto in poi, tutti i personaggi incontrati saranno poeti.
Il Canto si può suddividere in tre grandi momenti, tutti incentrati sul dialogo tra Dante, Virgilio e Stazio:
Stazio spiega la causa del terremoto e del canto delle anime avvenuto nel finale del Canto XX.
Si presenta e racconta la propria storia.
Manifesta la sua profonda gratitudine verso Virgilio e scopre che il suo grande maestro è proprio lì davanti a lui.
Testo e Parafrasi
La sete natural che mai non sazia se non con l'acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia, mi travagliava, e pungeami la fretta per la 'mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta. Ed ecco, sì come ne scrive Luca che Cristo apparve a' due ch'erano in via, già surto fuor de la sepulcral buca, ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa, dal piè guardando la turba che giace; né ci addemmo di lei, sì parlò pria, dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace». Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface. Poi cominciò: «Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l'etterno essilio». «Come!», diss' elli, e parte andavam forte: «se voi siete ombre che Dio sù non degni, chi v'ha per la sua scala tanto scorte?». E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni che questi porta e che l'angel profila, ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni. Ma perché lei che dì e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila, l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia, venendo sù, non potea venir sola, però ch'al nostro modo non adocchia. Ond' io fui tratto fuor de l'ampia gola d'inferno per mostrarli, e mosterrolli oltre, quanto 'l potrà menar mia scola. Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una parve gridare infino a' suoi piè molli». Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. Quei cominciò: «Cosa non è che sanza ordine senta la religïone de la montagna, o che sia fuor d'usanza. Libero è qui da ogne alterazione: di quel che 'l ciel da sé in sé riceve esser ci puote, e non d'altro, cagione. Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina più sù cade che la scaletta di tre gradi breve; nuvole spesse non paion né rade, né coruscar, né figlia di Taumante, che di là cangia sovente contrade; secco vapor non surge più avante ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai, dov' ha 'l vicario di Pietro le piante. Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che 'n terra si nasconda, non so come, qua sù non tremò mai. Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda. De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l'alma sorprende, e di voler le giova. Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento. E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent' anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia: però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii». Così ne disse; e però ch'el si gode tanto del ber quant' è grande la sete, non saprei dir quant' el mi fece prode. E 'l savio duca: «Omai veggio la rete che qui vi 'mpiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete. Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, e perché tanti secoli giaciuto qui se', ne le parole tue mi cappia». «Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto del sommo rege, vendicò le fóra ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto, col nome che più dura e più onora era io di là», rispuose quello spirto, «famoso assai, ma non con fede ancora. Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto. Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; de l'Eneïda dico, la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: sanz' essa non fermai peso di dramma. E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando». Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse 'Taci'; ma non può tutto la virtù che vuole; ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne' più veraci. Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; per che l'ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca; e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?». Or son io d'una parte e d'altra preso: l'una mi fa tacer, l'altra scongiura ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso dal mio maestro, e «Non aver paura», mi dice, «di parlar; ma parla e digli quel ch'e' dimanda con cotanta cura». Ond' io: «Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch'io fei; ma più d'ammirazion vo' che ti pigli. Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forte a cantar de li uomini e d'i dèi. Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti». Già s'inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: «Frate, non far, ché tu se' ombra e ombra vedi». Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate comprender de l'amor ch'a te mi scalda, quand' io dismento nostra vanitate, trattando l'ombre come cosa salda». |
La sete naturale di conoscenza, che non si sazia mai se non bevendo l'acqua della verità divina, quella che la donna samaritana chiese a Gesù, in quel momento mi tormentava, e nello stesso tempo ero stimolato dalla fretta di seguire la mia guida lungo quella strada ostruita dalle anime, con le quali condividevo la sofferenza per il loro giusto tormento. Ed ecco che, proprio come nel vangelo Luca è scritto che Cristo apparve a due discepoli che erano in cammino, dopo essere risorto dal suo sepolcro, ci apparve all'ora un'ombra, che avanzava dietro a noi, mentre facevamo attenzione a non calpestare la folla di anime distese sulla via; ma non ci accorgemmo subito di lei, se non quando ci parlò, dicendoci: "Fratelli miei, possa Dio darvi la pace." Ci voltammo subito indietro e Virgilio le restituì subito un adeguato cenno di saluto. Comincio poi a dire: "Possa concederti la pace nell'assemblea dei beati l'infallibile giudizio divino, che pone invece me in un eterno esilio." "Come è possibile?" disse all'ora l'anima, mentre tutti e tre comminavamo intanto in fretta: "Se voi siete anime indegne di salire fino a Dio, chi vi ha condotto così in alto sulla scala che conduce a lui?" Disse il mio maestro: "Se tu osservi i segni che costui porta sulla fronte, che vengono incisi dall'angelo custode, puoi ben comprendere che è giusto che lui faccia parte il regno dei buoni. Ma perché la Parca Lachesi, colei che fila giorno e notte, non aveva ancora finito di filare tutta la lana della sua vita, che la Parca Cloto pone ed avvolge sulla rocca, la sua anima, sorella mia e tua, nel suo salire non poteva procedere dal sola, senza una guida, non essendo in grado di percepire la realtà come possiamo noi puri spiriti. Per questo motivo fui chiamato fuori dal profondo imbuto infernale per mostrargli la via, e gli farò ancora da guida fin dove il mio insegnamento potrà condurlo. Ma dimmi tu ora, se lo sai, perché ha tremato così tanto poco fa il monte, e perché all'unisono ha innalzato un grido fin dalla sua parte più bassa, immersa nel mare." Virgilio, ponendo questa domanda, colpì così bene nel segno il mio desiderio inespresso, che già solo con la speranza di essere soddisfatta la mia sete di sapere divenne meno intensa. Cominciò a rispondere quell'anima: "Non esiste cosa che la legge sacra della montagna faccia senza obbedire all'ordine divino, o che non sia per lei usuale. Questo luogo è immune da ogni perturbazione atmosferica: solo da ciò che il Cielo riceve in sé e produce da sé, non da altro, possono essere originate delle perturbazioni. Perciò né pioggia, né grandine o neve, né rugiada o brina può cadere sul monte al di sopra del punto in cui si trova la piccola scala di ingresso formata da tre soli gradini, ingresso del Purgatorio; non si vedono nuvole, né voluminose né tenui, non si vedono fulmini e neanche Iride, l'arcobaleno, figlia di Taumante, che nel mondo terreno cambia spesso luogo; il vapore secco non sale in cielo oltre il terzo, e più alto, dei tre gradini ai quali mi sono riferito, là dove tiene appoggiati i piedi il vicario di san Pietro, l'Angelo portiere del Purgatorio. Si verificano forse terremoti più o meno intensi al di sotto dei tre gradini; ma per il vento secco che resta chiuso nella terra, non so come, qua su non si verificarono mai dei terremoti. Qui i terremoti si verificano solo quando un'anima si sente ormai purificata, così da potersi alzare o muoversi per salire in Paradiso; ed il canto che hai potuto udire accompagna queste scosse della montagna. L'unica prova dell'avvenuta purificazione è il desiderio, che, del tutto libero di cambiare luogo e compagnia, si impadronisce dell'anima è la rende appagata. Anche prima l'anima desidera salire, ma non glielo permette la volontà relativa, che la giustizia divina, contro la volontà assoluta (che tende a Dio), spinge verso la pena così come in vita la volontà relativa ha spinto l'anima a peccare. Ed io, che ho subito questa pena stando sdraiato per più di cinquecento anni, solo poco fa ho sentito la volontà, ora libera da impedimenti, di raggiungere una dimora più elevata: per tale motivo hai potuto sentire prima il terremoto e le anime buone ringraziare da ogni luogo del monte il Signore, pregandolo di farle salire presto fino a lui." Parlò così quell'anima; e poiché si ottiene tanta più soddisfazione dal bere quanto più si ha sete, non saprei esprimere a parole quanto mi fu gradito il suo discorso. Disse allora la mia saggia guida: "Comprendo ora quale sia l'impedimento che vi trattiene qui e come ve ne liberate, perché il monte tremi e per che motivo gioite tutte insieme. Ti piaccia però di rivelarmi ora anche chi sei stato nella vita terrena, ed il perché per così tanti secoli sei rimasto disteso qui me lo faccia capire le tue parole." "Nel tempo in cui il valoroso Tito, con l'aiuto di Dio, il supremo re, vendicò le ferite da cui uscì il sangue venduto per tre danari da Giuda, con il nome di poeta, che dona la fame più longeva e più grande," rispose a Virgilio quello spirito, "ero al mondo molto famoso, ma non avevo ancora la fede in Cristo. La mia poesia fu tanto armoniosa che, nato a Tolosa, fui chiamato a Roma, dove ottenni il merito di essere incoronato con le foglie di mirto. Nel mondo terreno sono ancora noto con il nome di Stazio: cantai la città di Tebe e scrissi poi dell'eroe Achille; ma morii mentre ero ancora intento a compiere questa seconda opera. Alimentarono il mio entusiasmo di poeta le scintille, ed anche mi scaldarono, di quella somma fiamma da cui furono accesi moltissimi poeti; sto parlando dell'Eneide, che fu per me come una madre e come una balia, nel campo della poesia: senza di essa non avrei fissato con la penna nulla che potesse avere il minimo peso. E per poter essere vissuto al mondo al tempo in cui visse Virgilio, sarei disposto ad uscire dal mio esilio in Purgatorio anche un anno oltre il dovuto." Queste ultime parole fecero volgere Virgilio verso di me con un'espressione tale che, senza bisogno di parole, mi diceva 'Taci'; ma la volontà non può tutto; perché il riso ed il pianto seguono così rapidamente le passioni dalle quali hanno origine, da essere nelle persone più sincere molto poco assoggettate al controllo della volontà. Feci infatti un sorriso che fu come un cenno; perciò l'anima tacque e mi fissò quindi negli occhi, là dove si concentra maggiormente l'espressione del viso; e "Possa tu concludere bene la tua grande fatica", mi disse Stazio, "ma dimmi, perché il tuo viso è stato illuminato poco fa da un sorriso?" Mi trovo questo punto combattuto tra due fuochi: uno mi ordina di tacere, l'altro mi supplica di parlare; sospiro nell'indecisione, viene poi compresa la mia condizione dal mio maestro, che "Non avere paura", mi dice, "di parlare; ma parla pura e dagli la risposta che chiede con tanto interesse." Dissi io pertanto: "Se ti sei prima stupito, oh antico spirito, del fatto che io sorridessi; voglio adesso che tu abbia un motivo di maggiore meraviglia. Questa anima che mi guida verso l'alto è quel Virgilio dal quale tu hai assunto l'abilità poetica per cantare le vicende degli uomini e degli dei. Se hai creduto che fosse un altro il motivo del mio sorriso, lascialo ora perdere in quanto non vero, credi invece al fatto che la causa furono le parole che hai detto riguardo a lui." Stanzio si era già inchinato per abbracciare i piedi del mio maestro, che però gli disse: "Fratello, non lo fare, perché sei uno spirito e davanti a te vedi un altro spirito." Stazio, rialzandosi in piedi, rispose: "Puoi adesso comprendere l'intensità dell'amore che provo per te, per il fatto che mi fa dimenticare la nostra condizione incorporea, e tratto gli spiriti come fossero corpi solidi." |
Riassunto
vv 1-39: L'apparizione di Stazio
Mentre Dante si affretta tra le anime degli avari nella quinta cornice, spinto dal desiderio di apprendere, una figura si manifesta all'improvviso e saluta cordialmente i due pellegrini. Virgilio risponde rivelando la sua condizione di anima del Limbo, incaricata di guidare Dante nel viaggio attraverso l'Oltretomba. Poi, interpretando il desiderio del suo compagno, chiede allo spirito, che si rivela essere Stazio*, poeta latino del I secolo d.C., quale fosse la causa del recente terremoto.
vv 40-75: La spiegazione sul terremoto e sul canto
Stazio chiarisce che non si è trattato di un terremoto, poiché il Purgatorio è immune da fenomeni simili. Il tremore si verifica quando un'anima, finalmente purificata, si prepara a salire verso il Paradiso terrestre e, da lì, al Cielo. Le anime avvertono il desiderio di salire anche prima, ma scelgono di trattenersi per completare il proprio processo di espiazione. Stazio racconta che, dopo cinquecento anni trascorsi nella quinta cornice, ha provato questo desiderio di ascesa, provocando il tremore del monte. In quel momento, le altre anime hanno condiviso la sua gioia, intonando un canto di ringraziamento a Dio.
vv 76-102: Stazio parla di sé e loda l'Eneide
Stazio narra di essere stato un poeta famoso ai tempi della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito nel 70 d.C., ma di non essersi ancora convertito al cristianesimo. Rivela il proprio nome e racconta di aver scritto la Tebaide, oltre a iniziare l'Achilleide, rimasta incompiuta a causa della sua morte. Sottolinea inoltre che l'Eneide è stata la sua principale fonte d'ispirazione poetica e confessa che, pur di vivere al tempo di Virgilio, sarebbe disposto a prolungare di un anno la sua permanenza in Purgatorio.
vv 103-136: Dante svela l'identità di Virgilio
Con il consenso del maestro, Dante informa Stazio che il poeta di fronte a lui è proprio Virgilio. Sopraffatto dall'emozione, Stazio si china per abbracciargli i piedi, ma Virgilio lo dissuade, ricordandogli che entrambi sono ormai soltanto spiriti privi di corpo.
Figure Retoriche
v. 10: "E dietro a noi venìa": Anastrofe.
v. 25: "Lei che dì e notte fila": Perifrasi. Per indicare la Parca Lachesi.
v. 28: "L'anima sua": Anastrofe.
vv. 31-32: "L'ampia gola / d'inferno": Enjambement.
v. 33: "Mia scola": Metonimia.
v. 39: "Si fece la mia sete": Anastrofe.
vv. 40-41: "Sanza / ordine": Enjambement.
v. 50: "Né figlia di Taumante": Perifrasi. Per indicare l'arcobaleno Iride.
v. 54: "'l vicario di Pietro": Perifrasi. Per indicare l'angelo guardiano.
v. 54: "Le piante": Sineddoche. La parte per il tutto, la pianta dei piedi anziché i piedi.
v. 55: "Trema poco o assai": Antitesi.
vv. 65-66: "Contra voglia, come fu al peccar": Similitudine.
vv. 70-71: "Li pii / spiriti": Enjambement.
v. 81: "Ne le parole tue": Anastrofe.
v. 83: "Sommo rege": Perifrasi. Per indicare Dio.
v. 85: "Col nome che più dura e più onora": Perifrasi. S'intende "col nome di poeta".
v. 97: "De l'Eneida dico": Anastrofe.
v. 109: "Sorrisi come l'uom ch'ammicca": Similitudine.
v. 136: "Trattando l'ombre come cosa salda": Similitudine.
vv. 94-96: "Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille": Allegoria.
v. 126: "Forza a cantar": Anallage.
v. 127: "Cagion altra": Anastrofe.
Personaggi Principali
Stazio nacque a Napoli nel 45 d.C., non a Tolosa come erroneamente creduto da Dante e dai suoi contemporanei. Fu uno dei principali poeti dell'età flavia e frequentò la corte dell'imperatore Domiziano. La sua opera più importante è la Tebaide, un poema epico completato intorno al 92 d.C. e chiaramente ispirato alla struttura dell'Eneide di Virgilio. Il tema centrale del poema è la lotta fratricida tra Eteocle e Polinice per il dominio di Tebe. Stazio compose anche le Silvae, una raccolta di liriche in cinque libri scritte in metro vario, e iniziò nel 95 d.C. l'Achilleide, un poema dedicato alla vita e alle imprese di Achille, eroe dell'Iliade. Tuttavia, l'opera rimase incompiuta a causa della sua morte, avvenuta a Napoli nel 96 d.C.
Stazio appare nella Divina Commedia di Dante dal Canto XXI del Purgatorio e accompagna il poeta fino al termine della cantica, nel Canto XXXIII. Questa presenza così prolungata è dovuta al fatto che Stazio ha concluso la sua espiazione ed è pronto a salire al Paradiso, meta condivisa con Dante. Nessun'altra anima, a parte Virgilio e Beatrice, è così costantemente presente nell'opera.
Nel Canto XXII, Stazio racconta di aver peccato di prodigalità ma di aver trovato la redenzione grazie alla lettura di un passo dell'Eneide, dove Virgilio condanna l'avidità. Inoltre, dichiara di essersi convertito al Cristianesimo proprio leggendo Virgilio, pur nascondendo la sua fede per timore delle persecuzioni sotto Domiziano. Per questo, Stazio ha espiato parte della sua pena nella quarta Cornice, dedicata agli accidiosi. Secondo Dante, trascorse oltre quattrocento anni in questa Cornice, dopo cinquecento anni passati tra i prodighi, prima di avanzare nell'Antipurgatorio e nelle Cornici successive.
Per Stazio, la poesia fu un mezzo di redenzione. Dante, con la Commedia, si propone come erede della tradizione di Virgilio e Stazio, non solo riprendendone lo stile e la struttura, ma anche trasmettendo attraverso la sua opera un messaggio morale e salvifico per i lettori.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto XXI del Purgatorio è ambientato nella quinta cornice, dove sono punite le anime che in vita hanno commesso i peccati di avarizia e prodigalità, due colpe opposte ma accomunate dall'eccessivo attaccamento ai beni terreni. Qui i penitenti giacciono a terra con il volto rivolto al suolo e mani e piedi legati, recitando il versetto «Adhaesit pavimento anima mea» del Salmo 118. Durante il giorno, ricordano esempi di virtù opposte ai loro peccati, come povertà e liberalità, e la notte riflettono su casi di avarizia punita. La loro pena si basa su un contrappasso per analogia: come in vita furono schiavi dei beni materiali, ora sono costretti a guardare il terreno, simbolo della loro ossessione passata.
Un evento significativo del canto è il terremoto che scuote il monte al termine del Canto XX, seguito dal canto corale del Gloria. Sarà il poeta latino Stazio, incontrato da Dante e Virgilio, a spiegare l'origine di questo fenomeno. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il terremoto non è causato da eventi naturali: esso si verifica ogni volta che un'anima, purificata dai propri peccati, è pronta a ascendere al Paradiso. Questo scuotimento rappresenta la gioia collettiva del Purgatorio per la salvezza di uno spirito, celebrata da tutte le anime attraverso un inno di lode a Dio.
Stazio, introdotto come figura centrale del Canto XXI e del successivo, è un poeta particolarmente caro a Dante, che lo considera tra i massimi autori latini. La sua presenza offre l'occasione per riflettere sul ruolo della poesia e sul rapporto con Virgilio, guida di Dante. Stazio si presenta come colui che, grazie all'influenza dell'Eneide, non solo ha trovato ispirazione poetica, ma ha anche intrapreso il cammino della fede cristiana. La sua conversione rappresenta un elemento di forte impatto simbolico, evidenziando come anche la letteratura classica possa essere un veicolo di salvezza spirituale.
L'incontro tra Stazio e Virgilio rispecchia in parte il primo incontro tra Dante e il suo maestro. Stazio, ignaro della presenza di Virgilio, esprime profonda ammirazione per il poeta dell'Eneide, considerandolo una guida intellettuale e morale. Questo momento sottolinea il dramma della figura di Virgilio, che nonostante la sua grandezza resta escluso dalla salvezza cristiana. L'ironia della scena emerge quando Stazio, colmo di gratitudine, si getta ai piedi di Virgilio, non riconoscendolo subito, in un episodio che richiama simbolicamente la scena evangelica dei discepoli di Emmaus.
Il dialogo con Stazio si distingue per la sua elevata complessità dottrinale e retorica. Egli spiega che il terremoto è causato dalla liberazione di un'anima e illustra come i penitenti accettino volontariamente la propria pena, desiderosi di purificazione. Questa riflessione si collega agli insegnamenti di San Tommaso d'Aquino e rivela la profonda conoscenza teologica di Stazio. Il poeta si presenta poi dichiarando il periodo storico della sua vita, coincidente con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, e rendendo omaggio a Virgilio come fonte della sua ispirazione artistica e spirituale.
In conclusione, il Canto XXI non è solo un momento di riflessione sulla giustizia divina e il processo di espiazione, ma anche un omaggio alla poesia e alla sua capacità di guidare l'uomo verso verità più alte. Il personaggio di Stazio diventa il simbolo di una letteratura capace di redimere e illuminare, mentre Virgilio rappresenta la grandezza poetica che, pur rimanendo fuori dalla grazia divina, conserva un valore eterno come guida verso la fede e il sapere.
Passi Controversi
I versetti 1-3 fanno riferimento a un episodio evangelico narrato da Giovanni (IV, 6-15), in cui Gesù chiede dell'acqua a una donna di Samaria. In quell'occasione, Gesù spiega che chi beve l'acqua del pozzo avrà ancora sete, ma chi berrà l'acqua che Lui offre non avrà mai più sete ("Omnis qui bibit ex aqua hac sitiet iterum; qui autem biberit ex aqua quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum"). Mentre nel Vangelo l'acqua simboleggia la grazia, qui rappresenta la rivelazione divina.
I versetti 7-9 richiamano invece il racconto dell'apparizione di Gesù risorto ai discepoli in cammino verso Emmaus (Luca XXIV, 13-17). La "verace corte" menzionata al versetto 17 è il giudizio divino, che relega Virgilio nel Limbo.
La "scaletta di tre gradi breve" (v. 48) è una scala di tre gradini che porta alla porta del Purgatorio. Al versetto 64 si fa riferimento a Iride, figlia di Taumante e messaggera degli dei, identificata nell'antichità con l'arcobaleno.
I versetti 64-66 si basano sulla dottrina tomistica relativa alla volontà, esposta nella Summa Theologiae: la volontà relativa rappresenta il talento che in vita queste anime hanno deviato verso il peccato, mentre in Purgatorio, per volontà divina, è orientata verso l'espiazione e contrasta la volontà assoluta, ovvero il desiderio naturale di ascendere al Cielo.
Il verbo cappia (v. 81) può significare "sia contenuto" o "abbia luogo"; inoltre, l'espressione ne le parole tue potrebbe avere un valore strumentale ("attraverso le tue parole") o indicare un luogo figurato.
Al versetto 89, Stazio è definito "Tolosano", sebbene fosse nato a Napoli. Questo errore nasce dalla confusione con il retore Lucio Stazio Ursolo, effettivamente originario di Tolosa. Tuttavia, l'incoronazione poetica di Stazio è storicamente attestata; Dante probabilmente trasse questa informazione dall'Achilleide (I, 9-12), poiché le Silvae erano sconosciute nel Medioevo.
L'espressione peso di dramma (v. 99) si riferisce a una misura pari a circa quattro grammi, e Stazio intende dire che senza l'ispirazione di Virgilio non avrebbe composto nulla di significativo. Infine, il termine forte al versetto 126 va inteso come "abilità" o "maestria".
Fonti: libri scolastici superiori