Parafrasi e Analisi: "Canto XXXIII" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Personaggi Principali
7) Analisi ed Interpretazioni
8) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Dante è giunto alla fine del suo cammino nel Purgatorio, pronto a innalzarsi verso le stelle del Paradiso, puro e spiritualmente rinnovato. Ci troviamo nel Paradiso Terrestre, luogo idilliaco in cui Dio creò i primi esseri umani, Adamo ed Eva, e dove si erge maestoso l'albero della sapienza. Questo luogo rappresenta simbolicamente un ritorno alle radici dell'umanità, alla prima origine del genere umano. Dante, uomo rappresentativo, si riconnette qui alla figura di Adamo, il primo a desiderare la conoscenza attraverso il frutto proibito.

Il percorso di Dante è stato lento e faticoso, scandito da momenti di purificazione rituale, visioni intense, sogni significativi e incontri affettuosi con anime amiche. Abbiamo seguito il poeta in questo snodo centrale della "Commedia", vedendolo esprimere la sua indignazione per le condizioni dell'Italia nel VI canto e riflettere profondamente sull'amore e sul libero arbitrio nei canti XVI, XVII e XVIII, situati nel cuore dell'opera.

Negli ultimi canti, abbiamo assistito alla solenne processione sacra e al momento in cui Virgilio, maestro e guida paterna di Dante, si è congedato, lasciando spazio a Beatrice. Questa figura, amata dal poeta, diventa il suo faro teologico e lo guida verso l'Amore divino. Nel canto XXX, tra cori angelici e presenze femminili, e accompagnato dal poeta latino Stazio, simbolo del mondo classico, Dante inizia a comprendere i limiti della ragione umana. La filosofia razionale, tanto preziosa nel mondo terreno, non può più bastare: è il momento di aprirsi ai misteri della fede e alla logica divina.

Per affrontare il Paradiso, Dante deve abbandonare i criteri della realtà terrena. Deve affidarsi completamente a Beatrice, come farebbe un bambino con la propria madre. Dopo aver bevuto dal fiume Lete nel canto precedente, ha cancellato dalla sua anima ogni traccia del peccato. Ora, guidato da Matelda e Stazio, beve l'acqua dell'Eunoè, che riaccende in lui i pensieri giusti, puri e amorevoli. Questo rito finale di purificazione ha un valore simile a quello dell'estrema unzione, preparando il poeta a un passaggio sereno verso l'aldilà.

Beatrice conduce Dante verso la visione delle gioie celesti. Il poeta si sente leggero e sereno, una sensazione che forse non provava dalla sua infanzia. La selva oscura, simbolo del peccato e dello smarrimento, è ormai solo un ricordo sbiadito. Sta per iniziare una nuova fase appassionante del viaggio dantesco, culminante nella visione di Dio, momento culminante della terza cantica della "Divina Commedia".


Testo e Parafrasi


'Deus, venerunt gentes', alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando;

e Bëatrice, sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.

Ma poi che l'altre vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:

'Modicum, et non videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me'.

Poi le si mise innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e 'l savio che ristette.

Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;

e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s'io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».

Sì com' io fui, com' io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t'attenti
a domandarmi omai venendo meco?».

Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,

avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono».

Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com' om che sogna.

Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.

Non sarà tutto tempo sanza reda
l'aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;

ch'io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d'ogn' intoppo e d'ogne sbarro,

nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia;

ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.

Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a' vivi
del viver ch'è un correre a la morte.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch'è or due volte dirubata quivi.

Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l'uso suo la creò santa.

Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l'anima prima
bramò colui che 'l morso in sé punio.

Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.

E se stati non fossero acqua d'Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,

per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l'interdetto,
conosceresti a l'arbor moralmente.

Ma perch' io veggio te ne lo 'ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t'abbaglia il lume del mio detto,

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che 'l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».

E io: «Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.

Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s'aiuta?».

«Perché conoschi», disse, «quella scuola
c'hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;

e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».

Ond' io rispuosi lei: «Non mi ricorda
ch'i' stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».

«E se tu ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;

e se dal fummo foco s'argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.

Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».

E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,

quando s'affisser, sì come s'affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,

le sette donne al fin d'un'ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l'alpe porta.

Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d'una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.

«O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».

Per cotal priego detto mi fu: «Priega
Matelda che 'l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,

la bella donna: «Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l'acqua di Letè non gliel nascose».

E Bëatrice: «Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura.

Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se' usa,
la tramortita sua virtù ravviva».

Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;

così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».

S'io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i' pur cantere' in parte
lo dolce ber che mai non m'avria sazio;

ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l'arte.

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire a le stelle.
Il triste salmo 'Deus , venerunt gentes', alternandosi
in cori da tre e quattro voci,
le sette donne incominciarono ad intonare, piangendo;

Nel frattempo Beatrice, sospirando pietosamente,
rimaneva in ascolto con una espressione di dolore
quasi simile a quella di Maria ai piedi della croce.

Ma dopo che le altre donne, terminato il salmo, le diedero la
possibilità di parlare, Beatrice, alzatasi in piedi,
con il viso acceso dalla commozione, rispose così al loro canto:

' Un po' di tempo, e non mi vedrete;
e ancora un po' di tempo, mie amate sorelle,
e mi vedrete '

Poi fece venire dinnanzi a sé tutte e sette le donne,
e dietro di sé, con un solo gesto, fece muovere
me, Matelda e Stazio, il poeta rimasto nel paradiso terrestre.

Con questa compagnia si incamminò; e non credo che avesse
ancora poggiato a terra il decimo passo,
quando con il suo sguardo colpì il mio sguardo;

e, con espressione serena del volto, "Vieni più vicino"
mi disse, "così che, se io mi rivolgo a te,
tu sia nella condizione ideale per ascoltarmi."

Non appena mi fui avvicinato a lei, com'era mio dovere,
mi disse: "Fratello, perché non provi a
porgermi qualche domanda, ora che cammini insieme a me?"

Come accade a coloro che, troppo reverenti,
quando si trovano dinnanzi ad un loro superiore e devono
parlargli, non riescono a farlo con voce chiara,

lo stesso modo accadde a me, e con voce strozzata
incominciai a dire: "Mia signora, le mie esigenze voi
le conoscete, e conoscete anche ciò che serve per soddisfarle."

Mi rispose Beatrice: "Dal timore e dalla vergogna
voglio tu ti liberi adesso, così da smettere
di parlare in modo confuso, come un uomo che dorme.

Sappi che il carro (la Chiesa) che è stato squarciato dal drago
(corrotto), è stato, ma non è più; ma chi ne ha la colpa, sappia
che la vendetta, la giustizia di Dio, non può essere evitata.

Non rimarrà ancora per tanto tempo senza erede l'aquila
(impero) che lasciò le sue penne al carro (poteri alla Chiesa),
divenendo così un mostro e quindi preda del gigante (la Francia);

perché io vedo con certezza, è quindi lo dico,
che si avvicina ormai una costella favorevole,
protetta da ogni impedimento e da ogni ritardo, inevitabile,

con i favori della quale, qualcuno
mandato da Dio ucciderà la ladra (la Chiesa)
insieme a quel gigante che con lei commette peccati.

Ma forse le mie dichiarazioni, poco comprensibili,
simili alle profezie dei Temi e della Sfinge, ti convincono poco,
perché a loro modo confondono la mente;

ma presto saranno i fatti
a rendere chiari questi complessi enigmi,
senza provocare alcun danno.

Prendi nota delle mie parole; e così come io le ho dette a te,
allo stesso modo tu dovrai farle conoscere ai vivi,
che vivono una esistenza mortale, destinata alla morte.

E ricordati bene, quando le trascriverai,
di non tralasciare di raccontare della pianta (la conoscenza)
che hai visto essere stata per due volte spogliata, depredata.

Chiunque la saccheggi o la danneggi,
offende di fatto Dio commettendo un atto sacrilego,
perché fu creata da Dio per suo uso, per non essere toccata.

Per aver voluto mordere un suo frutto, soffrendo il rimorso e la
lontananza di Dio, per più di cinquemila anni la prima anima, Adamo, desiderò la venuta di Gesù Cristo,
colui che con il proprio sacrificio punì il peccato originale.

La tua intelligenza è assopita se non riesce a comprendere
che c'è un motivo straordinario per cui questa pianta
è tanto alta e ha la cima capovolta, è più larga in punta che alla sua base.

E se i tuoi inutili pensieri, le tue speculazioni razionali, non
avessero incrostato la tua mente, come fa l'acqua del fiume Elsa,
ed il loro fascino non avesse avuto su di te l'effetto del sangue di Priamo sul frutto del gelso,

solo attraverso tutti questi indizi
sapresti riconoscere nell'albero, nel divieto di toccarlo,
il simbolo del senso morale della giustizia di Dio.

Ma poiché vedo che la tua mente è divenuta
dura come pietra e quindi, così pietrificata, anche offuscata,
tanto che la luce, la chiarezza delle mie parole ti abbaglia,

voglio che tu porti, se non proprio inciso con le parole, almeno
dipinto in te, il ricordo delle mie parole, per lo stesso motivo
per cui al ritorno dalla Terrasanta si porta un bastone ornato di foglie di palma."

Dissi allora io: "Proprio come una cera da sigillo
a cui non si può cambiare la figura che le è stata impressa,
le vostre parole sono state adesso incise nella mia memoria.

Ma poiché è molto al di sopra dalla mia capacità di comprensione
il senso delle vostre parole, tanto da me desiderate,
vi chiedo: perché tanto più mi sforzo di afferrare il senso, tanto più lo perdo?"

Disse: "Perché tu possa renderti conto di quanto poco la scuola
che hai seguito, e la sua scienza,
possano comprendere le mie parole;

e perché tu possa vedere che è tanto lontana da Dio
la via da voi seguita, quanto dista dalla terra
il cielo più alto e che ruota più velocemente."

Le risposi allora: "Non ricordo
di essermi mai allontanato dalla vostra via,
né provo alcun rimorso per un simile errore."

"Se non riesci a ricordarti di questo errore", rispose sorridendo
Beatrice, "ricordati almeno che oggi hai bevuto l'acqua
del fiume Lete, che cancella la memoria dei propri peccati;

e se è vero che il fumo è indizio della presenza del fuoco,
questa tua dimenticanza dimostra chiaramente
che peccavi, rivolgendo i tuoi desideri verso altri beni.

Ma d'ora in avanti saranno per te più chiare
le mie parole, poiché sarà necessario
renderle tali alla tua mente rozza."

Il sole, più incandescente e più lento nei suoi movimenti,
occupava ormai la posizione corrispondente a mezzogiorno,
che si sposta da una parte o all'altre a seconda di come la guardi,

quando, così come si ferma all'improvviso
chi procede davanti a qualcuno facendogli da guida,
se trova qualche novità e qualche traccia di essa,

si fermarono di colpo le sette donne al margine di una ombra
pallida, simile a quella che, sotto a verdi foglie e rami neri,
è possibile trovare in montagna al di sopra dei freddi ruscelli.

Davanti a loro mi sembrò di vedere i fiumi Tigri ed Eufrate
sgorgare da una sola sorgente,
e, come fanno due amici, allontanarsi lentamente l'uno dall'altro.

"Oh luce e gloria dell'umanità,
che fiume è questo che viene qui alla luce da una unica sorgente,
per poi allontanarsi da sé stesso, dividendosi in due?"

A questa mia preghiera mi fu data la risposta: "Chiedi
a Matelda ti dirtelo." E mi rispose,
con il tono di che cerca di discolparsi,

la bella donna Matelda: "Gli ho già spiegato
questa ed altre cose; e sono anche sicura
che l'acqua del fiume Lete non gliele ha fatte dimenticare."

Disse allora Beatrice: "Forse una preoccupazione maggiore, che
può capitare spesso possa ridurre la capacità di memoria,
gli ha oscurato il ricordo di ciò che ora vede con gli occhi.

Ma vedi il fiume Eunoé che scorre di là:
conducilo ad esso, e come sei abituata a fare,
ravviva la sua memoria indebolita."

Come una anima nobile, che non cerca scuse,
ma al contrario fa propria la volontà altrui,
non appena questa viene espressa;

così, dopo avermi preso per mano,
la bella donna subito si mise in viaggio, e a Stazio disse con signorilità:
"Vieni anche tu con lui."

Caro lettore, anche se avessi un spazio maggiore
su cui scrivere, riuscirei solo in parte ad esprimere
il dolce sapore di quell'acqua, di cui non mi sarei mai saziato;

ma poiché sono ormai tutti pieni i fogli
che avevo preparato per scrivere questa seconda cantica,
il limite di spazio, freno dell'arte, non mi lascia proseguire oltre.

Riemersi da quell'acqua sacra
ringiovanito, come fossi una giovane pianta
rinnovata da giovani fronde,

purificato e finalmente pronto per salire fino alle stelle.



Riassunto


Beatrice sospira (vv. 1-12)
Conclusa la processione e dopo aver assistito alla trasformazione del carro e al suo rapimento da parte del gigante, le sette donne iniziano a cantare in lacrime il salmo Deus, venerunt gentes. Beatrice, colpita da un dolore intenso e compassionevole, cambia espressione al punto da ricordare Maria ai piedi della croce. Quando le donne le lasciano la parola, Beatrice parla con fervore e solennità, dicendo: "Tra poco non mi vedrete, e poi, poco dopo, mi rivedrete".

La profezia di Beatrice (vv. 13-51)
Beatrice invita le sette donne a precederla e chiama Dante, Matelda e Stazio a seguirla. Raccomanda a Dante di starle vicino per ascoltare con attenzione e gli suggerisce di porle liberamente qualsiasi domanda, senza timore o esitazione. Dante risponde che non è necessario chiedere, poiché lei già conosce i suoi desideri e ciò che è necessario sapere. Beatrice lo esorta ad affrontare ogni dubbio con coraggio.

Prosegue spiegando che il carro, rovinato dal drago (simbolo della Chiesa corrotta), un tempo rappresentava una realtà autentica, ma ora non più. Tuttavia, coloro che ne sono responsabili devono sapere che la giustizia divina non conosce ostacoli e si manifesterà presto. L'aquila (simbolo dell'Impero) che ha lasciato tracce sul carro non resterà senza eredi per sempre. Un momento propizio è vicino: un inviato divino punirà la meretrice e il gigante. Sebbene il significato di queste parole sia oscuro per Dante, gli eventi futuri lo chiariranno.

La missione di Dante e il linguaggio enigmatico di Beatrice (vv. 52-78)
Beatrice esorta Dante a ricordare e a trascrivere ciò che ha visto e udito, affinché lo riferisca al mondo terreno senza omissioni. Deve parlare dell'albero due volte spogliato, simbolo dell'albero del bene e del male, creato da Dio per sé. Beatrice sottolinea che chi lo danneggia offende Dio. Se Dante non comprende il significato profondo della struttura e della posizione dell'albero, significa che la sua mente è offuscata da falsità.

Beatrice, accorgendosi della difficoltà di Dante nel comprendere, gli consiglia di custodire almeno un'immagine simbolica delle sue parole, come un bastone ornato da una palma, ricordo di un pellegrinaggio.

L'insufficienza dottrinale di Dante (vv. 79-102)
Dante ammette che, sebbene le parole di Beatrice siano impresse nella sua memoria, non riesce a capirne pienamente il senso. Beatrice spiega che questa incomprensione serve a fargli riconoscere i limiti della conoscenza umana rispetto alla sapienza divina, che è tanto distante quanto il Primo Mobile dalla Terra. Dante afferma di non ricordare di essersi mai allontanato da Beatrice o di avere colpe. Lei gli risponde che questo è segno dell'oblio provocato dall'acqua del Lete, che ha cancellato ogni rimorso dal suo cuore. Promette di usare un linguaggio più chiaro e diretto.

L'acqua dell'Eunoè (vv. 103-135)
Quando il sole raggiunge il culmine, le sette donne si fermano all'ombra della foresta, simile a quella che copre i fiumi montani sotto fitte fronde. Dante vede un'unica sorgente da cui nascono due corsi d'acqua, che gli ricordano l'Eufrate e il Tigri. Chiede a Beatrice quali siano i fiumi, e Matelda, per ordine di Beatrice, risponde che si tratta del Lete e dell'Eunoè. Beatrice invita Matelda a condurre Dante al fiume Eunoè, affinché possa bere l'acqua che ravviva la memoria del bene.

Con grazia, Matelda prende Dante per mano e invita anche Stazio a seguirli.

La purezza ritrovata (vv. 136-145)
Dante descrive la dolcezza dell'acqua dell'Eunoè, che non avrebbe mai smesso di bere. Tuttavia, consapevole delle esigenze artistiche e strutturali del poema, decide di non dilungarsi oltre. Si limita a dire che, dopo aver bevuto, si sente rigenerato, puro e pronto a salire verso le stelle, proprio come una pianta che in primavera si riveste di nuove foglie.


Figure Retoriche


vv. 5-6: "Poco / più": Enjambement.
vv. 5-6: "Sì fatta, che poco più a la croce si cambiò Maria": Similitudine.
v. 9: "Colorata come foco": Similitudine.
vv. 14-15: "Mosse / me": Enjambement.
v. 15: "'l savio": Perifrasi. Per indicare Stazio.
vv. 25-29: "Come a color che troppo reverenti dinanzi a suo maggior parlando sono, che non traggon la voce viva ai denti, avvenne a me, che sanza intero suono incominciai": Similitudine.
v. 33: "Sì che non parli più com'om che sogna": Similitudine.
v. 34: "'l vaso": Perifrasi.
vv. 47-48: "E forse che la mia narrazion buia, qual Temi e Sfinge": Similitudine.
v. 50: "Enigma forte": Anastrofe.
vv. 53-54: "Vivi / del viver": Enjambement.
v. 54: "Viver ch'è un correre a la morte": Antitesi.
v. 60: "L'uso suo": Anastrofe.
v. 62: "L'anima prima": Perifrasi. Per indicare Adamo.
v. 63: "Colui che 'l morso in sé punio": Perifrasi.
v. 64: "Lo 'ngegno tuo": Anastrofe.
vv. 68-69: "E se stati non fossero acqua d'Elsa li pensier vani intorno a la tua mente": Similitudine.
v. 69: "E 'l piacer loro un Piramo a la gelsa": Similitudine.
v. 75: "T'abbaglia il lume del mio detto": Metafora.
vv. 76-78: "Voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, che 'l te ne porti dentro a te per quello che si reca il bordon di palma cinto": Similitudine.
vv. 79-81: "Sì come cera da suggello, che la figura impressa non trasmuta, segnato è or da voi lo mio cervello": Similitudine.
vv. 88-90: "Vostra via da la divina distar cotanto, quanto si discorda da terra il ciel che più alto festina": Similitudine.
vv. 97-99: "E se dal fummo foco s'argomenta, cotesta oblivion chiaro conchiude colpa ne la tua voglia altrove attenta": Similitudine.
vv. 103-109: "E più corusco e con più lenti passi teneva il sole il cerchio di merigge, che qua e là, come li aspetti, fassi, quando s'affisser, sì come s'affigge chi va dinanzi a gente per iscorta se trova novitate o sue vestigge, le sette donne": Similitudine.
vv. 109-111: "Al fin d'un'ombra smorta, qual sotto foglie verdi e rami nigri sovra suoi freddi rivi l'Alpe porta": Similitudine.
v. 113: "Veder mi parve": Anastrofe.
vv. 113-114: "Uscir d'una fontana, e, quasi amici, dipartirsi pigri": Similitudine.
v. 115: "O luce, o gloria de la gente umana": Apostrofe.
v. 118: "Detto mi fu": Anastrofe.
vv. 118-119: "Priega / Matelda": Enjambement.
vv. 119-120: "Rispuose, come fa chi da colpa si dislega": Similitudine.
v. 125: "La memoria priva": Anastrofe.
v. 126: "Fatt'ha la mente sua ne li occhi oscura": Metafora.
v. 126: "La mente sua": Anastrofe.
vv. 130-134: "Come anima gentil, che non fa scusa, ma fa sua voglia de la voglia altrui tosto che è per segno fuor dischiusa; così, poi che da essa preso fui, la bella donna mossesi": Similitudine.
vv. 136-137: "Spazio / da scrivere": Enjambement.
v. 140: "Cantica seconda": Anastrofe.
vv. 143-144: "Rifatto sì come piante novelle rinnovellate di novella fronda": Similitudine.
vv. 143-144: "Piante novelle rinnovellate di novella fronda": Allitterazione della N.
v. 144: "Rinnovellate di novella": Annominazione.


Personaggi Principali


Beatrice: la musa spirituale di Dante
Beatrice rappresenta per Dante molto più di una figura storica, spesso identificata con Bice di Folco Portinari. È una musa poetica e spirituale, descritta nella Vita Nova come una presenza fondamentale che guida il poeta anche dopo la sua morte. Dante teme di perderne il ricordo, ma proprio questa perdita lo spinge a cercarla in una dimensione superiore.

Nella Divina Commedia, Beatrice appare nel canto XXX del Purgatorio, ma la sua presenza è anticipata in più occasioni. È lei che scende da Virgilio per chiedergli di aiutare Dante nel suo viaggio, guidandolo fino a raggiungerla. La loro interazione culmina nel Paradiso, dove accompagna Dante fino al canto XXXI, prima di lasciarlo con un sorriso enigmatico, simbolo del suo affetto.

Beatrice ha un ruolo complementare a quello di Virgilio: se il poeta latino rappresenta la razionalità e la guida paterna, Beatrice incarna la grazia e la fede illuminante, spesso manifestando un atteggiamento severo verso Dante. La sua figura richiama il concetto stilnovista di "donna angelicata", dotata di "intelletto d'amore" e capace di elevare l'animo del poeta verso Dio.

Matelda: il simbolo della felicità primigenia
Matelda è un personaggio misterioso della Divina Commedia, citata per nome una sola volta nel canto XXXIII del Purgatorio. La sua identità storica non è chiara: alcuni studiosi la associano alla contessa Matilde di Canossa, altri a figure come Matilde di Hachemborn o Matilde di Magdeburgo, entrambe scrittrici di opere ascetiche. Tuttavia, è probabile che Matelda sia un'allegoria, concepita per rappresentare la felicità originale dell'uomo prima del peccato originale.

Matelda ha il compito di immergere le anime purificate nel Lete, simbolo del perdono e dell'oblio del peccato. La sua descrizione richiama Lia, personaggio biblico che Dante sogna nel canto XXVII, e che rappresenta la vita attiva, necessaria per perfezionare le virtù e raggiungere la felicità terrena del Paradiso Terrestre. Entrambe, infatti, sono descritte come giovani, gioiose e immerse nella natura.

Un ulteriore legame è suggerito con Proserpina, dea associata alla rinascita e alla primavera, citata nel canto XXVIII. Questo accostamento, però, sembra più poetico che allegorico.

Stazio: il poeta che celebra la salvezza
Publio Papinio Stazio, poeta latino del I secolo d.C., visse durante l'età dei Flavi. Nato a Napoli, fu figlio di un grammatico e ottenne grande notorietà grazie alla partecipazione a competizioni poetiche. Le sue opere principali includono la Tebaide, un poema epico ispirato all'Eneide di Virgilio, e l'incompiuta Achilleide. Inoltre, compose le Silvae, una raccolta di liriche d'occasione. Durante il Medioevo, la Tebaide ebbe un'enorme diffusione, influenzando autori come Chaucer, Boccaccio e molti altri.

Nella Commedia, Stazio appare nel canto XXI del Purgatorio tra i penitenti della quinta Cornice, dove si sconta il peccato di prodigalità. Qui si presenta a Dante e Virgilio, spiegando che il terremoto avvertito sul monte segna il suo passaggio dal Purgatorio al Paradiso. Stazio è profondamente grato a Virgilio, le cui opere lo hanno condotto al pentimento e alla conversione al Cristianesimo.

Dopo l'arrivo di Beatrice e la partenza di Virgilio, Stazio accompagna Dante fino all'Eunoè, il fiume che restituisce la memoria del bene compiuto, preparandolo all'ascesa al Paradiso. Attraverso Stazio, Dante celebra la poesia come strumento di redenzione e mezzo per elevarsi spiritualmente, sottolineando la sua importanza nella vita civile e religiosa.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto Finale del Purgatorio: Profezia, Rinnovamento e Ascesa
L'ultimo canto della seconda cantica della Divina Commedia rappresenta il culmine della "sacra rappresentazione" iniziata con l'ingresso di Dante nell'Eden. Qui si intrecciano temi di natura allegorica, religiosa e politica, che culminano nella profezia di Beatrice sull'avvento di un inviato divino destinato a restaurare giustizia e ordine sulla Terra.

Il Contesto: Il Carro e la Cattività Avignonese
Il canto si apre riprendendo l'episodio conclusivo del Canto XXXII, in cui il gigante trascina via il carro, simbolo della Chiesa corrotta, atto che Dante associa alla cattività avignonese. Le sette virtù piangono intonando il Salmo Deus, venerunt gentes, che richiama la profanazione del Tempio di Gerusalemme, stabilendo un parallelismo con la corruzione ecclesiastica del Trecento. Filippo il Bello, identificato nel gigante, rappresenta il potere temporale che opprime la Chiesa, mentre Beatrice, paragonata a Maria dolente sotto la croce, lamenta la divisione della cristianità.

Le parole di Beatrice, ricche di riferimenti scritturali, prefigurano non solo la punizione dei colpevoli, ma anche una speranza di rinnovamento. Attraverso un tono solenne, ella richiama l'immagine di Cristo durante l'Ultima Cena, annunciando una futura redenzione per il mondo corrotto.

L'Esortazione e la Purificazione di Dante
Nel corso della processione, Beatrice invita Dante a superare la vergogna derivante dai suoi errori passati e ad assumere un atteggiamento più consapevole. Il carro, danneggiato dal drago, simboleggia la Chiesa corrotta, la cui rinascita è legata alla venuta di un inviato divino. Tra le parole più enigmatiche del canto, spicca la profezia del «cinquecento diece e cinque» (DXV), un numero che ha dato adito a molteplici interpretazioni.

Per alcuni studiosi, esso rappresenta l'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, che tentò di riportare ordine in Italia tra il 1310 e il 1313; per altri, è una figura simbolica destinata a incarnare il rinnovamento morale e politico. Il numero è stato interpretato come un anagramma di DVX (condottiero) o come un'acronimia religiosa, ma il significato resta volutamente oscuro, suggerendo un messaggio universale più che un riferimento storico specifico.

La Foresta del Paradiso Terrestre
Il canto si sviluppa nella cornice della foresta del Paradiso terrestre, un luogo idilliaco dove scorrono due fiumi: il Lete, che cancella il ricordo del peccato, e l'Eunoè, che rafforza la memoria del bene. Beatrice incarica Matelda di guidare Dante e Stazio a bere dalle acque dell'Eunoè, completando così il rito di purificazione. Quest'azione segna la preparazione del poeta alla sua ascesa verso il Paradiso.

La foresta del Paradiso terrestre non è solo un luogo simbolico, ma anche un punto di convergenza dei grandi temi della Divina Commedia: la riflessione morale, il rinnovamento politico e il compimento religioso. Qui, l'esperienza personale di Dante si intreccia con la dimensione collettiva, offrendo una visione di speranza per il futuro.

Coralità e Profezia: Beatrice come Guida Spirituale
Il canto si distingue per un tono corale che anticipa le atmosfere celesti del Paradiso. Le sette virtù teologali e cardinali introducono la profezia di Beatrice, che unisce visione religiosa e fervore politico. La figura della donna assume qui una doppia valenza: da un lato è assimilata alla Vergine Maria, dall'altro incarna il rigore morale necessario per denunciare la corruzione ecclesiastica.

I riferimenti scritturali, in particolare al Vangelo di Giovanni e all'Apocalisse, conferiscono alla profezia una dimensione rivelatrice, collocandola al confine tra storia ed eternità. Beatrice sottolinea come il tempo umano sia in attesa di ciò che, nella prospettiva divina, è già compiuto.

La Profezia del «DXV»
La profezia del «DXV» è tra le più misteriose dell'opera, insieme a quella del «veltro» nel primo canto dell'Inferno. Entrambe prefigurano la venuta di un salvatore, ma il «DXV» appare più definito, con riferimenti all'aquila imperiale e al ruolo centrale dell'Italia. Indipendentemente dall'identificazione esatta, la figura del «DXV» rappresenta la speranza in una giustizia rinnovata, capace di riequilibrare i poteri terreni e spirituali.

Conclusione: L'Ascesa alle Stelle
Il canto si chiude con Dante, purificato e rigenerato, che si prepara a salire verso le stelle. Quest'immagine di rinnovamento riflette non solo la redenzione personale del poeta, ma anche un ideale collettivo di giustizia e armonia. La nostalgia per la giovinezza e per le esperienze descritte nella Vita Nuova si fonde con la piena maturità poetica di Dante, culminando in una visione di speranza eterna.

L'epilogo del Purgatorio è quindi un ponte tra storia e eternità, dove il viaggio individuale di Dante si eleva a simbolo di un cammino universale verso il bene supremo.


Passi Controversi


Il verso 1 richiama l'inizio del Salmo LXXVIII: Deus, venerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum («O Dio, le genti hanno invaso la tua eredità, hanno profanato il tuo santo Tempio»). Dante accosta la distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 587 a.C. ad opera di Nabucodonosor, alla cattività avignonese della Chiesa.

Nei versetti 10-12, Beatrice riprende le parole pronunciate da Gesù nell'Ultima Cena (Giov., XVI, 16): Modicum, et iam non videbitis me, et iterum modicum, et videbitis me quia vado ad Patrem («Ancora un poco, e non mi vedrete più; e un altro poco, e mi vedrete di nuovo, perché vado al Padre»). Da notare che i versi 10 e 12 presentano una metrica irregolare, salvo accentuare fortemente et.

Il "savio che ristette" del verso 15 è Stazio, che rimane accanto a Dante mentre Virgilio si allontana. I versi 16-18 fanno riferimento al momento in cui Beatrice si rivolge a Dante dopo aver compiuto nove passi, un numero simbolico che potrebbe richiamare la Vita Nuova, dove il numero nove è associato a Beatrice.

L'espressione fu e non è del verso 35 deriva dall'Apocalisse (XVII, 8): bestia, quam vidisti, fuit et non est. Qui, la «bestia» è il mostro in cui si è trasformato il carro della Chiesa nel canto precedente, e Dante sottolinea come la corruzione renda la Chiesa quasi inesistente.

Il verso 36, che vendetta di Dio non teme suppe, è stato interpretato in diversi modi a causa del termine enigmatico suppe. Alcuni commentatori antichi lo collegavano a un rito secondo cui un omicida poteva evitare la punizione mangiando una zuppa sulla tomba della vittima per nove giorni consecutivi. Altri hanno ipotizzato un legame con un'usanza francese, in cui i vassalli giuravano fedeltà ai re mangiando pane intriso nel vino. Un'ulteriore interpretazione, suggerita da Pietro di Dante, associa suppa a offa, riferendosi al cane da caccia (il veltro) che non si può placare con una focaccia, contrariamente a Cerbero. In ogni caso, il senso generale del verso indica l'inevitabilità del castigo divino.

Nel verso 44, fuia significa «ladra» e si riferisce alla prostituta, simbolo della Curia papale corrotta. Al verso 48, il verbo attuia sembra indicare lo sforzo dell'intelletto.

Le Naiadi menzionate nel verso 49 si riferiscono alle ninfe della mitologia classica, che non sono tradizionalmente legate alla risoluzione di enigmi. Qui Dante si basa su un passo di Ovidio (Metamorfosi, VII, 759 ss.), in cui si legge: Carmina Laiades non intellecta priorum / solverat ingeniis («Edipo, figlio di Laio, aveva risolto l'enigma che nessuno era riuscito a comprendere»). Tuttavia, alcuni manoscritti medievali riportavano erroneamente Naiades al posto di Laiades, generando confusione. Nel testo originale, la dea Temi vendica la morte della Sfinge inviando una belva contro le greggi tebane, mentre nel Medioevo si credeva che Temi fosse una profetessa rivale della Sfinge, che si sarebbe vendicata dei Tebani ricorrendo alle Naiadi per risolvere gli enigmi.

Nel verso 67, Beatrice menziona l'acqua del fiume Elsa, che, grazie al suo alto contenuto di calcare, tende a incrostare gli oggetti immersi. Questa immagine rappresenta l'ottundimento e l'indurimento dell'ingegno di Dante causato dai pensieri vani.

L'aggettivo smorta del verso 109 può significare «attenuata», riferendosi alla luce solare che penetra debolmente tra i rami, o «cupa».

Nei versi 112-113, i fiumi Tigri ed Eufrate sono citati come un paragone: secondo Genesi (II, 10-14), essi scorrevano nell'Eden insieme al Gehon e al Phison, tutti originati da una stessa fonte.

Il verso 119 rappresenta l'unico punto in cui Matelda è nominata direttamente nella Divina Commedia. Infine, l'avverbio donnescamente del verso 135, unico nel poema, significa «con grazia signorile». Il Purgatorio si chiude con il verso 145, che, come gli ultimi versi di Inferno e Paradiso, termina con la parola stelle.

Fonti: libri scolastici superiori

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