Parafrasi e Analisi: "Canto XXXII" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XXXII del Purgatorio di Dante Alighieri si inserisce all'interno della seconda cornice del monte, dove le anime si purificano dal peccato di invidia. In questo Canto, Dante affronta uno dei temi più complessi e rilevanti del poema: il contrasto tra giustizia e misericordia. L'invidia, come peccato che porta alla divisione e al disprezzo degli altri, è trattata da Dante con una riflessione sulla necessità di purificarsi da quella visione egoistica che impedisce di vedere la bontà e la bellezza negli altri. La rappresentazione della pena in questo Canto e le parole che Dante scambia con le anime che incontrerà, pongono l'accento sulla tensione tra l'isolamento causato dal peccato e la speranza di redenzione, esplorando il tema della purificazione interiore e del recupero della serenità.


Testo e Parafrasi


Tant' eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m'eran tutti spenti.

Ed essi quinci e quindi avien parete
di non caler – così lo santo riso
a sé traéli con l'antica rete! -;

quando per forza mi fu vòlto il viso
ver' la sinistra mia da quelle dee,
perch' io udi' da loro un «Troppo fiso!»;

e la disposizion ch'a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.

Ma poi ch'al poco il viso riformossi
(e dico 'al poco' per rispetto al molto
sensibile onde a forza mi rimossi),

vidi 'n sul braccio destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto.

Come sotto li scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi;

quella milizia del celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno.

Indi a le rote si tornar le donne,
e 'l grifon mosse il benedetto carco
sì, che però nulla penna crollonne.

La bella donna che mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l'orbita sua con minore arco.

Sì passeggiando l'alta selva vòta,
colpa di quella ch'al serpente crese,
temprava i passi un'angelica nota.

Forse in tre voli tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese.

Io senti' mormorare a tutti «Adamo»;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo.

La coma sua, che tanto si dilata
più quanto più è sù, fora da l'Indi
ne' boschi lor per altezza ammirata.

«Beato se', grifon, che non discindi
col becco d'esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi».

Così dintorno a l'albero robusto
gridaron li altri; e l'animal binato:
«Sì si conserva il seme d'ogne giusto».

E vòlto al temo ch'elli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato.

Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,

turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che 'l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;

men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, s'innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.

Io non lo 'ntesi, né qui non si canta
l'inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.

S'io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;

come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com' io m'addormentai;
ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.

Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velo
del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?».

Quali a veder de' fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,

Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,

e videro scemata loro scuola
così di Moïsè come d'Elia,
e al maestro suo cangiata stola;

tal torna' io, e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de' miei passi lungo 'l fiume pria.

E tutto in dubbio dissi: «Ov' è Beatrice?».
Ond' ella: «Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice.

Vedi la compagnia che la circonda:
li altri dopo 'l grifon sen vanno suso
con più dolce canzone e più profonda».

E se più fu lo suo parlar diffuso,
non so, però che già ne li occhi m'era
quella ch'ad altro intender m'avea chiuso.

Sola sedeasi in su la terra vera,
come guardia lasciata lì del plaustro
che legar vidi a la biforme fera.

In cerchio le facevan di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri d'Aquilone e d'Austro.

«Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.

Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive».

Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi
d'i suoi comandamenti era divoto,
la mente e li occhi ov' ella volle diedi.

Non scese mai con sì veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto,

com' io vidi calar l'uccel di Giove
per l'alber giù, rompendo de la scorza,
non che d'i fiori e de le foglie nove;

e ferì 'l carro di tutta sua forza;
ond' el piegò come nave in fortuna,
vinta da l'onda, or da poggia, or da orza.

Poscia vidi avventarsi ne la cuna
del trïunfal veiculo una volpe
che d'ogne pasto buon parea digiuna;

ma, riprendendo lei di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser l'ossa sanza polpe.

Poscia per indi ond' era pria venuta,
l'aguglia vidi scender giù ne l'arca
del carro e lasciar lei di sé pennuta;

e qual esce di cuor che si rammarca,
tal voce uscì del cielo e cotal disse:
«O navicella mia, com' mal se' carca!».

Poi parve a me che la terra s'aprisse
tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse;

e come vespa che ritragge l'ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.

Quel che rimase, come da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna,

si ricoperse, e funne ricoperta
e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta.

Trasformato così 'l dificio santo
mise fuor teste per le parti sue,
tre sovra 'l temo e una in ciascun canto.

Le prime eran cornute come bue,
ma le quattro un sol corno avean per fronte:
simile mostro visto ancor non fue.

Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m'apparve con le ciglia intorno pronte;

e come perché non li fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e basciavansi insieme alcuna volta.

Ma perché l'occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;

poi, di sospetto pieno e d'ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo

a la puttana e a la nova belva.
I miei occhi era tanto concentrati ed impegnati
a soddisfare finalmente quella sete che durava da dieci anni,
che tutti gli altri miei sensi si annullarono.

Ed avevano dall'una e dall'altra parte come una parete
che ne impediva ogni distrazione – a tal punto il sorriso beato di Beatrice
li attirava a sé con il suo antico fascino! -;

quando, infine, a forza mi venne fatto girare il viso
verso la mia sinistra per opera di una di quelle donne,
perché sentii loro dire "Guardi troppo intensamente";

e la condizione, simile a quella che si ha alla vista
quando gli occhi sono stati appena colpiti dalla luce intensa del sole,
mi lasciò per un certo periodo senza possibilità di vedere.

Ma non appena la mia vista si fu riabituata a vedere cose di minor luminosità
(e dico "di minor" per confronto con quella intensa
luminosità dalla quale fuoi distolto con la forza),

vidi che verso destra si era rivolta
quella processione trionfale, e stava ora ritornando indietro
tenendosi davanti il sole ed i sette candelabri.

Così come sotto gli scudi alzati si ritira per salvarsi
una schiera di soldati, e fa una conversione intorno al proprio stendardo,
prima di potersi girare tutta indietro, verso la fuga;

allo stesso modo quella schiera del regno celeste, del regno di Dio
che avanzava, mi passò tutta davanti
prima che il carro potesse a sua volta girare il proprio timone.

A quelo punto le donne tornarono a danzare intorno alle ruote,
ed il grifone tornò a spingere quel carico benedetto
facendo in modo che nessuna sua penna si muovesse.

La bella donna che mi aveva fatto attraversare il fiume Lete
e Stazio ed anche io, seguivamo la ruota del carro
che nel girarsi aveva descritto l'arco di minor raggio.

Così, mentre passeggiavamo attraverso l'alta foresta, disabitata
per colpa di Eva, colei che credette alle parole del serpente,
un canto angelico scandiva i nostri passi.

Forse una tale distanza potrebbe coprire in tre lanci consecutivi
una freccia scoccata, quanto ci eravamo
spostati noi, quando alla fine Beatrice scese dal carro.

Io sentii tutti i presenti mormorare il nome "Adamo";
poi si misero tutti in cerchio intorno ad una pianta che aveva spogliati
tutti i suoi rami di ogni foglia e di ogni ramoscello.

La chioma di questo albero, che si allarga tanto
di più quanto più si va in alto, dagli abitanti dell'India sarebbe
ammirata per la sua altezza se fosse vista nei loro boschi.

"Sei beato tu, grifone, che non spezzi
con il tuo becco questo legno dal gusto dolce,
poiché per causa sua il tuo ventre si contorcerebbe dal dolore."

Queste parole, stando intorno a quel grosso albero,
gridarono tutti insieme; e l'animale dalla doppia natura:
"In questo modo viene conservato il seme, il fondamento di ogni giustizia."

E voltato il timone del carro che aveva tirato, lo portò
fino ai piedi di quell'albero spoglio dalle sue foglie e dai suoi ramoscelli,
e lo lascio legato a quello, dal cui legno era stato fatto.

Come succede con le nostre piante, del nostro mondo, quando scende
giù dal cielo la luce del sole mischiata con la luce
che brilla il Ariete, nella costellazione che segue quella dei Pesci,

che iniziano a rigonfiarsi, e poi rinnova
ciascuna loro foglia il proprio colore originale, prima che il sole
porti i cavalli che ne tirano il carro fino ad un'altra costellazione;

così, con un colore poco meno intenso di quello delle rose ma molto
più delle viole, fiorendo, rinacque quella pianta,
che poco prima aveva i suoi rami così spogli.

Io non riuscii a comprendere, né si canta qui sulla terra
l'inno che quella gente intonò allora, in quel momento,
e non riuscii nemmeno ad udirne tutta la melodia.

Se io potessi rappresentare in un quadro come alla fine si chiusero per il sonno
gli occhi spietati di Argo mentre ascoltava le vicende amorose di Siringa,
quegli occhi a cui costò tanto caro l'essere stati svegli di continuo;

come un pittore che dipinge avendo davanti a se un modello,
riuscirei bene io a rappresentare in un disegno il modo in cui mi addormentai;
ma lo faccia pure chi vuole, non io, di descrivere il modo in cui ci si addormenta.

Passo quindi oltre, al momento in cui mi svegliai,
e vi racconto di quella luce splendente che interruppe
il mio sonno, e di quella voce che mi chiamava: "Alzati: che stai facendo?"

Come a vedere i fiorellini del melo,
dei cui frutti sono golosi gli Angeli
ai quali fanno fare continue feste nel cielo,

furono condotti Pietro e Giovanni e Iacopo
e sopraffatti dalla luce di Cristo, ripresero poi i sensi sentendo la sua voce
che fu in grado di interrompere sonni ben più profondi,

e videro diminuito il numero del loro gruppo di persone
per l'improvvisa assenza sia di Elia che di Mosè,
ed anche che il loro maestro Gesù aveva cambiato l'abito;

allo stesso modo mi ripresi io dal sonno, e vidi Matelda, quella donna devota,
stare in piedi accanto a me, colei che aveva guidato
i miei passi lungo il fiume Lete prima che mi addormentassi.

Ed io, completamente preso dal dubbio, chiesi: "Dove è Beatrice?"
Lei mi rispose allora: "Puoi vederla sotto i rami
appena rinati, appena rigermogliati, sedere sulle radici dell'albero.

Osserva la compagnia di donne che la circonda:
tutti gli altri proseguono il loro cammino verso il cielo dietro al grifone
intonando un canto più dolce e profondo di quello di prima."

Se il suo discorso fu più ampio di come lo riporto,
non lo so dire, perché già i miei occhi erano pieni di Beatrice,
quella donna che aveva annullato qualunque mia altra capacità.

Sedeva da sola sulla nuda terra,
come se fosse stata messa a guardia del carro che avevo visto
venire legato all'albero dall'animale a due forme, il grifone.

Disposte in cerchio, creavano una corona intorno a lei
le sette ninfe, con in mano quelle luci che non temono,
che non possono essere spente nemmeno dai venti Aquilone e Austro.

"Tu potrai essere abitante di questa foresta per poco tempo;
ma sarai insieme a me per sempre cittadino
di quella Roma celeste di cui fa parte anche Cristo.

Perciò, per il bene dei mortali che vivono nel peccato,
fissa adesso il tuo sguardo sul carro, e ciò che vedi adesso qui, una volta
che sarai tornato nuovamente di là, fa in modo di descriverlo bene nei tuoi versi."

Così parlò Beatrice; ed io, che con tutto me stesso
ero devoto agli ordini che lei mi dava,
fissai i miei occhi e tutta la mia attenzione là dove voleva lei.

Mai scese con un movimento tanto rapido
un fulmine, quando cade sulla terra
dalla zona più remota del cielo,

come io vidi scendere in quel momento un'aquila (l'Impero)
veloce verso l'albero, rompendone tutta la corteccia,
oltre ad i fiori ed alle foglie da poco spuntati;

e danneggiò anche il carro con tutta la sua forza;
così che esso si piegò come farebbe una nave nel bel mezzo di una tempesta,
sopraffatta dalle onde, ora alla sua destra ed ora alla sua sinistra.

Dopo vidi avventarsi contro la parte interna
del carro trionfale una volpe (l'eresia)
tanto magra che sembrava non aver fatto da lungo tempo un buon pasto;

ma, rimproverandole i suoi vergognosi errori,
la mia donna, Beatrice, l'obbligò ad una fuga tanto precipitosa
quanto potevano concederla le sue ossa senza carne.

Successivamente, dallo stesso punto da cui era prima venuta,
vidi scendere nuovamente dal cielo l'aquila fin dentro
al carro e lasciare lì le proprie penne;

e come quando ci si dispiace di cuore per qualcosa,
con lo stesso tono uscì dal cielo una voce e disse:
"Oh mia navicella, che brutto carico che porti!"

Poi mi sembrò come se la terra si aprisse
sotto entrambe le ruote, e ne vidi uscire un drago (Satana)
che conficcò la propria code sul carro;

e come una vespa che ritrae il proprio pungiglione
tirando verso di sé la propria coda malvagia, allo stesso modo
il drago tirò a sé il fondo del carro e se ne andò via lentamente.

Quel poco che rimase del carro, come fosse un terreno
fertile alla gramigna, di piume, offerte
forse anche con intenzioni oneste e benevoli,

si ricoprì tutto, e furono ricoperte
sia l'una che l'altra ruota ed anche il timone, in un tempo tanto breve
che la bocca aperta impiega di più per emettere un sospiro.

Così trasformata quella costruzione sacra,
spuntarono fuori teste da tutte le sue parti,
tre sopra il suo timone ed una per ogni suo angolo.

Le prime tre avevano doppie corna come quelle di un bue,
mentre le altre quattro avevano in mezzo alla fronte un solo corno:
un simile mostro non fu mai visto.

Come fosse una roccaforte sulla cima di un monte, mi apparve
a quel punto sedere saldamente sul carro una prostituta senza vergogna
con le ciglia pronte a distribuire sguardi provocanti tutt'intorno;

e come se fosse pronto a intervenire perché non le fosse tolto quanto aveva,
vidi dritto in piedi di fianco a lei un gigante;
e si davano a volte baci l'uno all'altra.

Ma poiché il suo sguardo sfrontato e provocante
rivolse verso di me, quel feroce amante che lo accompagnava
la frustò dalla testa fino alle piante dei piedi;

poi, agitato da tanta gelosia e rabbia,
liberò il mostro a sette teste, e lo condusse con sé attraverso la foresta,
tanto che solo così potei evitare di vedere

sia la prostituta che quella bestia mai vista prima.



Riassunto


vv. 1-33: La Processione Ritorna Indietro
Dante è immerso nella contemplazione di Beatrice, tanto da attirare le critiche delle tre donne alla sua sinistra, che lo rimproverano per la sua intensa fissazione e lo spingono a volgere lo sguardo altrove. Inizialmente accecato dal fulgore della sua visione, Dante non riesce a percepire nulla, ma dopo aver recuperato la sua vista, si accorge che la processione sta tornando verso oriente. Insieme a Stazio e Matelda, decide di seguirla, posizionandosi accanto alla ruota destra del carro.

vv. 34-63: L'Albero di Adamo
Beatrice scende dal carro, e tutti i partecipanti si riuniscono in un cerchio attorno a un albero dalle fronde larghe, spoglio a causa del peccato originale. Dante percepisce un sussurro collettivo che loda Adamo e il grifone, evitando di danneggiare questa pianta con il suo becco. Il grifone avvicina il carro all'albero e vi lega il timone. Immediatamente, l'albero rifiorisce.

vv. 64-84: Sonno e Risveglio di Dante
Dante, senza comprenderne il motivo, si addormenta improvvisamente. Al suo risveglio, trova solo Matelda accanto a lui. Il suo stupore è paragonato a quello dei discepoli Pietro, Giovanni e Giacomo, che si erano destati sorpresi dopo la Trasfigurazione di Cristo e la scomparsa di Mosè ed Elia.

vv. 85-108: beatrice Seduta sotto l'Albero e la Missione di Dante
Matelda indica Beatrice, seduta ai piedi dell'albero, circondata dalle sette donne-virtù e dai sette candelabri. Nel frattempo, la processione comincia il suo ritorno al cielo. Beatrice esorta Dante a osservare attentamente gli eventi che riguarderanno il carro e a riportare sulla Terra, per il bene dell'umanità, ciò che avrà appreso.

vv. 109-129: L'Aquila
Un'aquila scende rapidamente dall'albero e si lancia contro il carro, facendolo oscillare come una nave in tempesta. Subito dopo, una volpe attacca il fondo del carro, ma viene scacciata da Beatrice, che le rimprovera i suoi peccati. L'aquila ritorna sul carro, questa volta senza danneggiare l'albero, e vi lascia cadere alcune delle sue penne.

vv. 130-141: Il Drago
Un drago emerge dalla terra e con la coda penetra nel carro, strappandone una parte. Le penne dell'aquila si moltiplicano, ricoprendo il timone e le ruote del carro. Poi il carro subisce una trasformazione: sul timone appaiono tre teste, ognuna con due corna, e quattro teste con un solo corno nei quattro angoli.

vv. 142-160: La Puttana e il Gigante
Sul carro si trova una meretrice dal sguardo seducente, cui si avvicina un gigante che la bacia. La donna, notando Dante, lo fissa intensamente. Il gigante, infuriato, prima la frusta violentemente, poi slega il carro dall'albero e lo trascina con la meretrice nella selva.


Figure Retoriche


v. 1: "Fissi e attenti": Endiadi.
v. 2: "Sete": Analogia.
v. 3: "Che li altri sensi m'eran tutti spenti": Iperbole.
v. 6: "L'antica rete": Allegoria.
v. 11: "Dal sol percossi": Anastrofe.
v. 17: "Glorioso essercito": Perifrasi. Per indicare la processione.
vv. 19-24: "Come sotto li scudi per salvarsi volgesi schiera, e sé gira col segno, prima che possa tutta in sé mutarsi; quella milizia del celeste regno che procedeva, tutta trapassonne pria che piegasse il carro il primo legno": Similitudine.
v. 32: "Quella ch'al serpente crese": Perifrasi. Per indicare Eva.
v. 33: "Nota": Sineddoche. La parte per il tutto, la nota anziché il canto.
v. 33: "Un'angelica nota": Anastrofe.
v. 35: "Disfrenata saetta": Anastrofe.
vv. 35-36: "Eramo / rimossi": Enjambement.
vv. 38-39: "Dispogliata / di foglie": Enjambement.
v. 40: "La coma sua": Anastrofe.
v. 42: "Ne' boschi lor": Anastrofe.
vv. 43-44: "Non discindi / col becco": Enjambement.
v. 47: "L'animal binato": Perifrasi. Per indicare il grifone.
vv. 52-60: "Come le nostre piante, quando casca giù la gran luce mischiata con quella che raggia dietro a la celeste lasca, turgide fansi, e poi si rinovella di suo color ciascuna, pria che 'l sole giunga li suoi corsier sotto altra stella; men che di rose e più che di viole colore aprendo, s'innovò la pianta, che prima avea le ramora sì sole": Similitudine.
vv. 61-62: "Non si canta / l'inno": Enjambement.
vv. 64-65: "Assonnaro / li occhi spietati": Enjambement.
vv. 67-68: "Come pintor che con essempro pinga, disegnerei com'io m'addormentai": Similitudine.
vv. 71-72: "'l velo / del sonno": Enjambement.
vv. 73-84: "Quali a veder de' fioretti del melo che del suo pome li angeli fa ghiotti e perpetue nozze fa nel cielo, Pietro e Giovanni e Iacopo condotti e vinti, ritornaro a la parola da la qual furon maggior sonni rotti, e videro scemata loro scuola così di Moisè come d'Elia, e al maestro suo cangiata stola; tal torna' io, e vidi quella pia sovra me starsi che conducitrice fu de' miei passi lungo 'l fiume pria": Similitudine.
vv. 86-87: "Fronda / nova": Enjambement.
v. 93: "Quella ch'ad altro intender m'avea chiuso": Perifrasi. Per indicare Beatrice.
vv. 94-96: "Sola sedeasi in su la terra vera, come guardia lasciata lì del plaustro che legar vidi a la biforme fera": Similitudine.
v. 102: "Di quella Roma onde Cristo è romano": Perifrasi. Per indicare il Paradiso, Roma celeste.
v. 106: "Così Beatrice": Ellissi.
vv. 109-114: "Non scese mai con sì veloce moto foco di spessa nube, quando piove da quel confine che più va remoto, com'io vidi calar l'uccel di Giove per l'alber giù, rompendo de la scorza, non che d'i fiori e de le foglie nove": Similitudine.
vv. 116-117: "Piegò come nave in fortuna, vinta da l'onda, or da poggia, or da orza": Similitudine.
vv. 118-119: "Ne la cuna / del triunfal veiculo": Enjambement.
v. 122: "La donna mia": Anastrofe.
vv. 125-126: "L'arca / del carro": Enjambement.
vv. 127-128: "E qual esce di cuor che si rammarca, tal voce uscì del cielo": Similitudine.
vv. 133-135: "E come vespa che ritragge l'ago, a sé traendo la coda maligna, trasse del fondo, e gissen vago vago": Similitudine.
vv. 136-137: "Come da gramigna vivace terra": Similitudine.
v. 138: "Sana e benigna": Endiadi.
vv. 139-141: "Si ricoperse, e funne ricoperta e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto che più tiene un sospir la bocca aperta": Similitudine.
v. 145: "Cornute come bue": Similitudine.
v. 148: "Quasi rocca in alto monte": Similitudine.


Analisi ed Interpretazioni


Il Canto costituisce una continuazione e conclusione della processione allegorica iniziata nel Canto XXIX, che si divide in due fasi: la prima parte descrive la processione che ritorna indietro e si ferma presso l'albero simbolico, mentre la seconda rappresenta le vicissitudini del carro, simbolo della Chiesa, attraverso le sue vicende storiche. Il Canto si apre con Dante, abbagliato dalla luce di Beatrice, che viene richiamato dalle tre donne, le virtù teologali, che gli chiedono di volgere lo sguardo altrove. Questo abbagliamento simboleggia la distanza tra la grazia divina, rappresentata da Beatrice, e la fragilità dell'essere umano, incapace di affrontare la sua luce. Dopo aver riacquistato la vista, Dante osserva che la processione, dopo essersi fermata, torna indietro, scendendo lungo il fiume Lete e dirigendosi verso levante, con Dante, Stazio e Matelda che li seguono. Questo movimento potrebbe avere un significato simbolico che sfugge alla comprensione immediata, ma ciò che è certo è che l'albero presso cui il corteo si ferma è l'albero della conoscenza del bene e del male, richiamando Adamo e il peccato originale. Quest'albero, con la sua forma conica rovesciata, rappresenta la giustizia divina, offesa dal peccato di Adamo, come testimoniato dalla sua apparente morte (mancanza di foglie e fiori). Il grifone, simbolo di Cristo, lega il carro a questo albero, segno che con la Redenzione la giustizia divina è restaurata. La pianta rifiorisce, probabilmente simbolizzando il sangue di Cristo o la porpora imperiale. Tutti lodano il grifone per non aver danneggiato l'albero, riconoscendo che la giustizia divina è la base di ogni giustizia, anche terrena. Alla fine di questo episodio, Dante si addormenta, un fatto che è descritto come un'interruzione che rimanda al mito di Argo e Mercurio, e viene spesso interpretato come un simbolo di una pausa di riflessione o di rivelazione.

Quando Dante si risveglia, il paesaggio è cambiato: Beatrice è ai piedi dell'albero, circondata dalle sette donne-virtù che reggono lampade, e l'intera processione sta tornando al cielo. Beatrice, con un richiamo severo, ammonisce Dante a osservare attentamente le vicende che seguiranno, poiché il suo compito è quello di riferirle sulla Terra, per il bene dell'umanità (un compito che si ripeterà anche nel Paradiso). La seconda parte della rappresentazione allegorica riguarda gli eventi che vanno dalla Redenzione di Cristo alla sua seconda venuta, con una serie di eventi simbolici che rappresentano le difficoltà storiche della Chiesa.

Il carro, che simboleggia la Chiesa, subisce diversi attacchi che alludono a momenti storici significativi. L'aquila, che simboleggia l'Impero romano, attacca il carro per punire l'offesa alla giustizia divina, ma il carro resiste. Successivamente, una volpe, che rappresenta le eresie, attacca il carro ma viene messa in fuga da Beatrice, simbolo della scienza divina. L'intervento di Beatrice difende la purezza della fede contro le falsità che minacciano la Chiesa. Più tardi, il carro viene colpito da un drago che emerge dalla terra, simboleggiando gli scismi all'interno della Chiesa e, in particolare, l'Islam, che Dante collega alla disgregazione della fede. Il drago strappa una parte del carro, simbolizzando le ferite che la Chiesa ha ricevuto a causa delle divisioni interne. Inoltre, l'aquila lascia alcune delle sue penne sul carro, un chiaro riferimento alla Donazione di Costantino e all'inizio della corruzione della Chiesa, che Dante attribuisce alla mescolanza tra potere temporale e spirituale.

La trasformazione del carro in un mostro con sette teste cornute, simboleggianti i peccati capitali, segna la degenerazione della Chiesa. La figura della meretrice seduta sul carro e del gigante che la bacia simboleggiano la corruzione della Curia papale e la connivenza della Chiesa con il potere secolare, in particolare con il re di Francia Filippo il Bello, che è stato accusato da Dante di aver trasportato la sede papale ad Avignone, simbolo della cattività della Chiesa. La violenza del gigante che trascina il carro nella selva rappresenta la cattività avignonese e la critica di Dante al potere francese, che ha indebolito la Chiesa. Il finale del Canto annuncia una profezia che sarà spiegata nel Canto successivo, dove si prevede un futuro riscatto attraverso un messo di Dio che ripristinerà la giustizia.

Il Canto non solo presenta un'allegoria delle vicende storiche della Chiesa, ma anche un'allegoria delle vicende interiori di Dante stesso. Il carro, simbolo della sua anima, attraversa momenti di degradazione e di redenzione, e l'incontro con la meretrice rappresenta forse una riflessione sul dramma interiore del poeta, sulle sue difficoltà e tentazioni, che ora vengono rivelate in una luce nuova. Il poema, così, diventa anche una riflessione sul cammino personale di Dante, sul suo sforzo di superare i propri desideri e la propria infedeltà verso Beatrice.


Passi Controversi


Nel secondo verso della Decenne sete, si fa riferimento al fatto che Beatrice è deceduta nel 1290, quindi nel 1300 sono passati circa dieci anni dall'ultima volta che Dante l'aveva vista. Nei versi 4-5, l'espressione "parete di non caler" suggerisce che Dante, completamente immerso nella visione di Beatrice, non presta attenzione a ciò che accade intorno a lui.

La similitudine dei versi 19-24 descrive la processione che non compie un semplice "dietro-front", ma una rotazione che mantiene invariato l'orientamento di ogni partecipante. Così, i candelabri riaprono il corteo, seguiti dai ventiquattro anziani, e via dicendo. Nei versi 22-24, si afferma che la processione supera Dante, Matelda e Stazio prima che il carro, al centro del corteo, compia una rotazione verso destra.

Il fatto che le penne del grifone non si muovano mentre traina il carro (v. 27) potrebbe simboleggiare il fatto che Cristo guida la Chiesa attraverso mezzi spirituali e non materiali, come nell'immagine dell'angelo nocchiero di Inferno II, 31-33, oppure che la giustizia divina è immutabile.

La "rota che fé l'orbita sua con minor arco" (vv. 29-30) si riferisce alla ruota destra del carro, che ruotando verso destra percorre un arco più ristretto. Nel verso 51, "e quel di lei a lei lasciò legato" sembra indicare che il grifone lega il timone all'albero con un ramo dello stesso albero.

Il termine "lasca" nel verso 54 si può tradurre genericamente come "pesce", sebbene la lasca sia un tipo di pesce della famiglia dei Ciprinidi; Dante allude qui alla costellazione dei Pesci, che precede l'Ariete, il quale è congiunto al sole in primavera.

Nei versi 64-69, Dante utilizza una similitudine apparentemente paradossale, poiché non ha un modello diretto per descrivere come si addormentò; per questo motivo, si rifà al mito di Argo, che fu ucciso da Mercurio. Quest'ultimo, per sottrarre alla sua custodia la ninfa Io (trasformata in vacca da Giunone), lo fece addormentare raccontandogli storie sugli amori di Pan e Siringa, come narrato da Ovidio (Metamorfosi, I, 568 ss.).

La similitudine nei versi 73-84 si riferisce all'episodio evangelico della trasfigurazione di Gesù, avvenuta sul monte Tabor, durante la quale gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo assistettero alla visione di Cristo trasfigurato, accompagnato da Mosè ed Elia, con la sua veste che brillava. La frase "fioretti del melo" (v. 73) significa un "saggio dello splendore di Cristo", facendo riferimento alla tradizione biblica che associa il melo a Cristo.

I "lumi" dei versi 98, tenuti dalle sette ninfe, potrebbero essere i sette candelabri descritti precedentemente, anche se questi sono stati raffigurati come alberi giganteschi (cfr. XXIX, 43-50). Alcuni interpretano questi "lumi" come un riferimento alle sette lampade della parabola delle vergini sagge.

Il termine "or da poggia, or da orza" (v. 117) proviene dal linguaggio marinaro, indicando il lato sottovento e sopravvento della nave. Qui Dante intende dire che il carro ondeggia alternativamente da una parte all'altra.

Nel verso 119, la "volpe" rappresenta l'eresia, un animale che nel Medioevo veniva usato come simbolo per l'astuzia e l'inganno. Infine, nel verso 122, "futa" è una forma popolare di "fuga", simile al termine dialettale genovese "füta".

Fonti: libri scolastici superiori

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