Parafrasi e Analisi: "Canto XXXI" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri

1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi
Scheda dell'Opera
Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.
Introduzione
Nel Canto XXXI del Purgatorio, Dante affronta uno degli aspetti più alti e complessi della sua narrazione: la rivelazione della giustizia divina attraverso l'ordine e la severità che caratterizzano il Purgatorio. Questo canto si inserisce in un contesto in cui la purificazione delle anime si compie con una intensità crescente, e il lettore è chiamato a riflettere sul significato del peccato, della penitenza e della redenzione. La tematica centrale riguarda la natura dell'espiazione, il rapporto tra le anime e la divinità, nonché il destino di quelle che cercano il perdono. L'ambientazione, la tensione tra giustizia e misericordia, e la continua evoluzione del cammino di Dante verso la salvezza, sono le coordinate in cui si sviluppano le riflessioni teologiche e filosofiche che punteggiano il canto.
Testo e Parafrasi
«O tu che se' di là dal fiume sacro», volgendo suo parlare a me per punta, che pur per taglio m'era paruto acro, ricominciò, seguendo sanza cunta, «dì, dì se questo è vero; a tanta accusa tua confession conviene esser congiunta». Era la mia virtù tanto confusa, che la voce si mosse, e pria si spense che da li organi suoi fosse dischiusa. Poco sofferse; poi disse: «Che pense? Rispondi a me; ché le memorie triste in te non sono ancor da l'acqua offense». Confusione e paura insieme miste mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca, al quale intender fuor mestier le viste. Come balestro frange, quando scocca da troppa tesa, la sua corda e l'arco, e con men foga l'asta il segno tocca, sì scoppia' io sottesso grave carco, fuori sgorgando lagrime e sospiri, e la voce allentò per lo suo varco. Ond' ella a me: «Per entro i mie' disiri, che ti menavano ad amar lo bene di là dal qual non è a che s'aspiri, quai fossi attraversati o quai catene trovasti, per che del passare innanzi dovessiti così spogliar la spene? E quali agevolezze o quali avanzi ne la fronte de li altri si mostraro, per che dovessi lor passeggiare anzi?». Dopo la tratta d'un sospiro amaro, a pena ebbi la voce che rispuose, e le labbra a fatica la formaro. Piangendo dissi: «Le presenti cose col falso lor piacer volser miei passi, tosto che 'l vostro viso si nascose». Ed ella: «Se tacessi o se negassi ciò che confessi, non fora men nota la colpa tua: da tal giudice sassi! Ma quando scoppia de la propria gota l'accusa del peccato, in nostra corte rivolge sé contra 'l taglio la rota. Tuttavia, perché mo vergogna porte del tuo errore, e perché altra volta, udendo le serene, sie più forte, pon giù il seme del piangere e ascolta: sì udirai come in contraria parte mover dovieti mia carne sepolta. Mai non t'appresentò natura o arte piacer, quanto le belle membra in ch'io rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte; e se 'l sommo piacer sì ti fallio per la mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel suo disio? Ben ti dovevi, per lo primo strale de le cose fallaci, levar suso di retro a me che non era più tale. Non ti dovea gravar le penne in giuso, ad aspettar più colpo, o pargoletta o altra novità con sì breve uso. Novo augelletto due o tre aspetta; ma dinanzi da li occhi d'i pennuti rete si spiega indarno o si saetta». Quali fanciulli, vergognando, muti con li occhi a terra stannosi, ascoltando e sé riconoscendo e ripentuti, tal mi stav' io; ed ella disse: «Quando per udir se' dolente, alza la barba, e prenderai più doglia riguardando». Con men di resistenza si dibarba robusto cerro, o vero al nostral vento o vero a quel de la terra di Iarba, ch'io non levai al suo comando il mento; e quando per la barba il viso chiese, ben conobbi il velen de l'argomento. E come la mia faccia si distese, posarsi quelle prime creature da loro aspersïon l'occhio comprese; e le mie luci, ancor poco sicure, vider Beatrice volta in su la fiera ch'è sola una persona in due nature. Sotto 'l suo velo e oltre la rivera vincer pariemi più sé stessa antica, vincer che l'altre qui, quand' ella c'era. Di penter sì mi punse ivi l'ortica, che di tutte altre cose qual mi torse più nel suo amor, più mi si fé nemica. Tanta riconoscenza il cor mi morse, ch'io caddi vinto; e quale allora femmi, salsi colei che la cagion mi porse. Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, la donna ch'io avea trovata sola sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!». Tratto m'avea nel fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola. Quando fui presso a la beata riva, 'Asperges me' sì dolcemente udissi, che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva. La bella donna ne le braccia aprissi; abbracciommi la testa e mi sommerse ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi. Indi mi tolse, e bagnato m'offerse dentro a la danza de le quattro belle; e ciascuna del braccio mi coperse. «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle. Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi le tre di là, che miran più profondo». Così cantando cominciaro; e poi al petto del grifon seco menarmi, ove Beatrice stava volta a noi. Disser: «Fa che le viste non risparmi; posto t'avem dinanzi a li smeraldi ond' Amor già ti trasse le sue armi». Mille disiri più che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi. Come in lo specchio il sol, non altrimenti la doppia fiera dentro vi raggiava, or con altri, or con altri reggimenti. Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, quando vedea la cosa in sé star queta, e ne l'idolo suo si trasmutava. Mentre che piena di stupore e lieta l'anima mia gustava di quel cibo che, saziando di sé, di sé asseta, sé dimostrando di più alto tribo ne li atti, l'altre tre si fero avanti, danzando al loro angelico caribo. «Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi», era la sua canzone, «al tuo fedele che, per vederti, ha mossi passi tanti! Per grazia fa noi grazia che disvele a lui la bocca tua, sì che discerna la seconda bellezza che tu cele». O isplendor di viva luce etterna, chi palido si fece sotto l'ombra sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna, che non paresse aver la mente ingombra, tentando a render te qual tu paresti là dove armonizzando il ciel t'adombra, quando ne l'aere aperto ti solvesti? |
"Tu, che stai dall'altra parte del fiume sacro Lete", rivolgendo adesso direttamente a me le sue parole, che prima, rivolte a me indirettamente, mi erano sembrate tanto dure, che ricominciò a parlare Beatrice, proseguendo senza esitazione, dì se è vero tutto ciò che ho detto; una accusa tanto grave deve essere accompagnata da una confessione." Le mie facoltà mentali erano in quel momento talmente confuse, che la voce si mosse per parlare, ma subito si spense, prima ancora di essere liberata dagli organi che la generano. Beatrice portò pazienza un poco; poi disse: "A che pensi? Rispondimi; dal momento che i ricordi negativi che hai in te non sono stati ancora sopraffatti dall'acqua del fiume Lete." La confusione e la paura miste insieme tra loro mi spinsero fuori dalla bocca un "sì" tanto impercettibile che per comprenderlo fu necessario anche l'uso della vista. Così come una balestra spezza, quando scatta, scocca da una condizione di troppa tensione, sia la sua corda che l'arco, ed il dardo raggiunge infine il suo bersaglio con minore forza, allo stesso moodo io scoppiai sotto quell'eccessivo peso dato da paura e confusione, non riuscii a contenere lacrime e sospiri, e la mia voce si indebolì nell'uscire attraverso la bocca. Beatrice mi domandò allora: "Nel tempo in cui i tuoi desideri erano rivolti a me, e ti guidavano ad amare il bene supremo, oltre il quale non c'è nulla di meglio a cui si possa aspirare, quali ostacoli, quali fossati hai dovuto attraversare e quali catene ha trovato sul tuo cammino, a causa delle quali di proseguire lungo la giusta via hai dovuto abbandonare ogni speranza? E quali agi, quali benefici, quali vantaggi ti è sembrato vedere nell'aspetto altri beni, da spingerti alla fine a corteggiarli, a ripassare tentato davanti a loro?" Dopo aver tratto un sospiro amaro, doloroso, a fatica trovai la voce per rispondere, e le mie stesse labbra a fatica riuscirono a dargli forma. Piangendo dissi: "I beni terreni, con il piacere illusorio che sono capaci di dare, mi allontanarono dalla giusta via non appena il vostro viso scomparve alla mia vista." E lei mi disse: "Se tu non dicessi o se negassi anche ciò che adesso stai confessando, non sarebbe comunque meno nota la tua colpa: un certo giudice, Dio, la conosce infatti benissimo! Ma quando esplode fuori dal colpevole stesso l'accusa della colpa, il nostro tribunale celeste diventa allora più clemente (rivolge la mola contro il filo della lama). In ogni caso, affinchè tu possa adesso portare la vergogna per il tuo errore, e sappia quindi in un'altra simile occasione, udendo il canto tentatore delle sirene, essere più forte, abbandona la paura e la confusione che ti fanno piangere e ascolta: potrai cosi ascoltare come in tutt'altra direzione avrebbe dovuto spingerti la mia morte, la mia sepoltura. Mai la natura o l'arte risucirono a mostrarti una bellezza paragonabile a quelle del bel corpo in cui ero rinchiusa quando fui in vita, ed i cui resti sono ora sparsi sulla terra; e se la bellezza del bene supremo venne così subito a mancarti, a causa della mia morte, quale bene materiale ha potuto poi attirare su di sé il tuo desiderio? Avresti dovuto, dopo aver ricevuto il primo colpo (la mia morte) dal piacere ingannevole delle cose materiali, innalzarti per seguire spiritualmente me, che non ero allora più ingannevole. Non avresti dovuto appesantire le tue ali, tenendole a terra, aspettando di ricevere un nuovo colpo, dato da un'altra donna o un'altra novità materiale capace solo di dare un piacere tanto breve. Un uccellino nato da poco sta ad aspettare due o tre colpi; ma davanti a quelli adulti, che hanno le penne, le reti vengono invece tese invano ed invano vengono lanciate frecce." Come fanno i ragazzini, quando si vergognano, che, muti, se ne stanno con gli occhi fissi a terra ascoltando i rimproveri, riconoscendo le proprie colpe e pentendosi, allo stesso modo stavo io allora; e Beatrice disse: "Quando senti dispiacere per i rimproveri che ascolti, alza la testa, solleva la barba, e proverai ancora più dolore guardandomi in viso." con una minore resistenza viene sradicato un albero robusto di cerro, battuto dal nostro vento di tramontana o da quello che giunge dall'Africa, dalla terra del re Iarba, di quella con cui io alzai il mento sentendo il suo comando; quando mi chiese di sollevare il viso nominando la mia barba, fui subito ben consapevole il contenuto doloroso di quelle parole. E non appena il mio viso si distese verso l'alto, il mio sguardo si posò sugli angeli, prime creature create da Dio, e mi resi conto che avevano oramai smesso di spargere fiori; ed i miei occhi, ancora un poco insicuri nel guardarsi intorno, videro Beatrice rivolta verso quell'animale, il grifone, che contiene in un unica identità due diverse nature. Vista attraverso il suo velo e dall'altra parte del fiume Beatrice mi sembrava essere ancora più bella di come lo era stata quando, ancora in vita, superava tutte le altre per bellezza. Mi punse allora a tal punto il pentimento, che tutte le altre cose terrene che mi avevano attirato verso di loro, allontanandomi da Beatrice, mi andarono in odio. Un tale dura consapevolezza della colpa mi colpì al cuore che caddi a terra sopraffatto; e cosa fu di me allora lo sa solo colei, Beatrice, che ne fu la ragione. Poi, quando il cuore restituì al mio corpo la sua vitalità, vidi Matelda, quella donna che avevo incontrato sola nell'Eden, china sopra di me, mi diceva: "Tieniti, tieniti a me!" Mi avevo portato nell'acqua del fiume fino alla gola, e tirandomi dietro a sé proseguiva il suo cammino sopra il pelo dell'acqua, leggera come una piccola barca. Quando fui oramai vicino all'altra riva del fiume, quella della beatitudine, il salmo 'Asparges me' sentii cantare tanto dolcemente che non sono ora capace non solo di descriverlo ma neanche di ricordarlo. La bella donna aprì a quel punto le sue braccia; mi abbracciò la testa e me la immerse nell'acqua del Lete tanto che non potei fare a meno di inghiottirla. Subito dopo mi tolse dall'acqua e tutto bagnato mi pose al centro delle quattro donne che danzavano; e ciacuna di loro mi coprì con il proprio braccio. "Noi qui nell'Eden appariamo come Ninfe, nel cielo come stelle; prima ancora che Beatrice scendesse sulla terra, che nascesse, fummo assegnate da Dio al suo servizio. Ti condurremo agli occhi di Beatrice; ma alla luce della beatitudine che c'è nei suoi, adatteranno i tuoi di occhi le tre donne che si trovano là, che sanno guardare più in profondità." Mi dissero questo cantando; e poi mi condussero con sè fino a davanti al petto del grifone, là dove si trovava Beatrice, rivolta verso di noi. Dissero: "Fa in modo di non risparmiare gli sguardi; ti abbiamo posto dinnanzi a due occhi splendenti come smeraldi, dai quali un tempo Amore ti lanciò le sue frecce." Un desiderio immenso, più caldo del fuoco, spinse i miei occhi a fissare quegli occhi splendeti, che stavano invece ancora fissi sul grifone. Così come fa il sole in uno specchio, non diversamente l'animale dalla doppia natura risplendeva negli occhi di Beatrice ora con uno ed ora con l'altro dei suoi aspetti. Prova ad immaginare, lettore, quanto mi meravigliai vedendo l'animale, il grifone, rimanere immutato nella sua figura, mentre la sua immagine riflessa invece si frasformava. Nel mentre che, piena di stupore e di felicità, la mia anima gustava quel cibo, della conoscenza assoluta, che più viene mangiato e più rende affamati, dimostrandosi nei gesti di più alto livello rispetto alle precedenti, le altre tre donne si fecero avanti danzando con il loro ritmo angelico. "Rivolgi, Beatrice, rivolgi i tuoi occhi santi", era la loro canzone, "al tuo fedele (Dante) che, per poterti vedere, ha compiuto un lungo cammino! Per grazia verso di lui, fai a noi la grazia di mostrare a lui la tua bocca, così che possa vedere chiaramente la seconda bellezza che adesso tieni nascosta con un velo." Oh splendore dell'eterna luce divina, quale vero poeta, colui è divenuto pallido in viso stando all'ombra del monte Parnaso o che ha bevuto dalla sua fonte Castalia, non potrebbe che mostrarsi incapace di descriverti come mi sei apparsa allora, là dove prendi forma grazie all'armoniosa bellezza del Cielo, quando all'aria aperta ti sei liberata del velo? |
Riassunto
vv 1-36: I rimproveri di Beatrice e la confessione di Dante
Beatrice, che fino a quel momento aveva parlato con gli angeli, si rivolge direttamente a Dante, cercando conferma delle sue parole. Dante si sente sopraffatto, e nonostante il desiderio di rispondere, non riesce a emettere suoni. Dopo un nuovo invito di Beatrice, riesce a balbettare un «sì» quasi impercettibile, e subito dopo scoppia in lacrime, confessando che, dopo la sua morte, si era allontanato dalla retta via, cullato dalle illusioni dei piaceri terreni.
vv 37-63: Ulteriori rimproveri di Beatrice
Dopo la confessione, Beatrice continua con i suoi rimproveri, sperando che Dante, provato dalla vergogna, non ricada negli stessi errori. Gli spiega come la sua morte avrebbe dovuto fargli comprendere la transitorietà delle cose mondane.
vv 64-90: Il pentimento di Dante
Beatrice lo invita quindi a guardarla negli occhi, affinché possa provare un dolore ancora più profondo. Dante, con fatica, solleva lo sguardo verso di lei, comprendendo che la sua apparente durezza deriva dal desiderio di spingerlo verso un vero pentimento. Colpito dal rimorso, Dante sviene.
vv 91-102: Immersione nel Letè
Quando Dante riprende i sensi, si accorge di trovarsi immerso nelle acque del Letè, dove incontra Matelda. Lei lo esorta a non lasciarsi andare e lo guida, con cautela, verso la riva. Mentre attraversano il fiume, gli angeli intonano il salmo "Asperges me", e Matelda lo immerge completamente nell'acqua, facendogli così bere dal fiume.
vv 103-145: Beatrice si svela a Dante
Matelda affida Dante alle quattro virtù cardinali, che lo avvolgono nelle loro braccia mentre continuano a danzare, annunciando che sono al servizio di Beatrice e lo condurranno davanti a lei. Per rendere la sua vista ancora più acuta, le virtù teologali, che si trovano alla destra del carro, lo preparano ad affrontare la visione di Beatrice. Giunti davanti a lei, Dante è invitato a guardare negli occhi della sua guida e ad osservare le trasformazioni del grifone-Cristo, simbolo della doppia natura di Cristo, sia umana che divina. Le altre donne, danzando e cantando con gli angeli, esortano Beatrice a rivelare finalmente a Dante la bellezza del suo volto, la cui luce sovrumana è talmente intensa che nessun poeta potrebbe mai riuscire a descriverla, nemmeno nel Paradiso terrestre.
Figure Retoriche
v. 1: "Fiume sacro": Anastrofe.
vv. 16-21: "Come balestro frange, quando scocca da troppa tesa la sua corda e l'arco, e con men foga l'asta il segno tocca, sì scoppia' io sottesso grave carco, fuori sgorgando lagrime e sospiri, e la voce allentò per lo suo varco": Similitudine.
v. 31: "Sospiro amaro": Sinestesia. Sfera sensoriale dell'udito e del gusto.
v. 39: "La colpa tua": Anastrofe.
v. 39: "Tal giudice": Perifrasi. Per indicare Dio.
v. 43: "Vergogna porte": Anastrofe.
v. 45: "Seme del piangere": Metafora.
vv. 49-51: "Mai non t'appresentò natura o arte piacer, quanto le belle membra in ch'io rinchiusa fui": Similitudine.
v. 51: "Rinchiusa fui": Anastrofe.
v. 58: "Le penne": Sineddoche. La parte per il tutto, le penne anziché le ali.
v. 63: "Rete si spiega": Sineddoche. Il singolare per il plurale, dispiega le reti.
vv. 64-67: "Quali fanciulli, vergognando, muti con li occhi a terra stannosi, ascoltando e sé riconoscendo e ripentuti, tal mi stav'io": Similitudine.
v. 66: "Riconoscendo e ripentuti": Endiadi.
v. 68: "Alza la barba": Sineddoche. La parte per il tutto, la barba anziché il mento.
vv. 70-73: "Con men di resistenza si dibarba robusto cerro, o vero al nostral vento o vero a quel de la terra di Iarba, ch'io non levai al suo comando il mento": Similitudine.
v. 79: "Le mie luci": Metafora. Per indicare i suoi occhi.
v. 81: "Sola una": Anastrofe.
vv. 83-84: "Vincer pariemi più sé stessa antica, vincer che l'altre qui, quand'ella c'era": Similitudine.
v. 90: "Colei che la cagion mi porse": Perifrasi. Per indicare Beatrice.
v. 96: "Lieve come scola": Similitudine.
v. 108: "Fummo ordinate a lei per sue ancelle": Similitudine.
vv. 109-110: "Giocondo / lume": Enjambement.
v. 110: "I tuoi": Ellissi.
v. 112: "Cantando cominciaro": Anastrofe.
v. 116: "Posto t'avem": Anastrofe.
v. 116: "A li smeraldi": Metafora. Per indicare i suoi occhi verdi.
v. 118: "Più che fiamma caldi": Anastrofe.
v. 118: "Più che fiamma caldi": Similitudine.
vv. 121-122: "Come in lo specchio il sol, non altrimenti la doppia fiera dentro vi raggiava": Similitudine.
v. 128: "L'anima mia": Anastrofe.
v. 135: "Passi tanti": Anastrofe.
v. 137: "La bocca tua": Anastrofe e Sineddoche.
v. 139: "O isplendor di viva luce etterna": Apostrofe.
vv. 140-141: "L'ombra / sì di Parnaso": Enjambement.
Analisi ed Interpretazioni
Il Canto si suddivide in due parti, la prima delle quali riprende il dialogo tra Dante e Beatrice che era stato interrotto nel canto precedente, con Beatrice che continua le sue accuse nei confronti di Dante, il suo pentimento e il suo svenimento. La seconda parte descrive l'immersione di Dante nel fiume Lete e il suo incontro con Beatrice, che finalmente si svela al poeta. L'inizio del Canto riprende la situazione finale del Canto XXX, con Beatrice che esorta Dante a confessare i suoi peccati per completare il rito della purificazione. La confessione, infatti, ha lo scopo di smorzare la durezza della giustizia divina, ma per Dante è difficile ammettere le sue colpe. In un primo momento, infatti, non riesce a parlare, ma successivamente, pronunciando parole deboli, ammette di aver tradito la memoria di Beatrice, morta troppo presto, per inseguire beni terreni ingannevoli che lo allontanarono dalla retta via. Questi beni sono le immagini di un "ben... falso", già accennate nel Canto XXX, che Beatrice definisce "serene", ossia quelle lusinghe che con il loro canto melodioso avevano attratto Dante su una strada peccaminosa. Questo errore, definito da Beatrice come un traviamento morale e, forse, intellettuale, aveva ostacolato il cammino del poeta, creando barriere tra lui e la verità. Beatrice, nel suo rimprovero, aggiunge che Dante non avrebbe dovuto essere attratto da altre donne dopo la sua morte, visto che nessuna mortale era mai stata tanto bella quanto lei. Tuttavia, una giovane donna, descritta come una "pargoletta", lo fece innamorare di sé, distruggendo così il suo legame con Beatrice. La figura di questa donna potrebbe essere allegorica, come la "donna gentile" che Dante menziona nelle Rime o forse simboleggiare un altro amore terreno che ha deviato il poeta dal suo destino spirituale. La metafora dell'uccello che, attirato dall'esca, cade nella rete del cacciatore, illustra l'errore di Dante, che avrebbe dovuto restare fedele alla memoria di Beatrice, consapevole che la bellezza materiale è effimera e fugace.
Il richiamo di Beatrice produce in Dante un acuto pentimento, e il poeta riconosce la sua donna come più bella ora che è morta, più di quanto lo fosse rispetto ad altre donne. Egli ripudia tutto ciò che lo ha distolto dal suo amore per lei, che potrebbe essere inteso sia come un amore terreno, sia come la ricerca della filosofia, in contrasto con il significato allegorico di Beatrice come teologia. Lo svenimento di Dante segna il passaggio tra le due parti del Canto. Quando si riprende, si trova immerso nel fiume fino alla gola, e Matelda lo guida verso l'altra riva, obbligandolo a bere l'acqua che cancellerà il suo peccato. Inizia così un complesso rituale di purificazione, in cui, insieme a Matelda, intervengono quattro donne che danzano a sinistra del carro. Queste donne rappresentano le virtù cardinali, e le loro parole confermano questa interpretazione, poiché si presentano come ninfe dell'Eden e stelle nel cielo. Esse dichiarano di aver preparato il mondo all'arrivo di Cristo, la cui Rivelazione è simboleggiata da Beatrice. Le quattro donne conducono Dante a Beatrice affinché possa guardarla negli occhi, ma per aiutarlo intervengono le virtù teologali, simbolo di una condizione più elevata, infusa dalla Grazia divina nell'uomo redento. Queste virtù sono superiori a quelle cardinali e segnano il passaggio a una purificazione più profonda.
Dante fissa lo sguardo negli occhi di Beatrice, che sono paragonati a smeraldi, pietra simbolo della giustizia. Questi occhi sono gli stessi da cui l'Amore lo aveva colpito in vita, e ora in essi vede riflessa l'immagine del grifone, simbolo di Cristo, la cui duplice natura (umana e divina) si alterna nel suo sguardo. Il legame tra Beatrice e il grifone si spiega attraverso il fatto che Beatrice rappresenta la Verità rivelata e la Grazia, rendendo possibile il salvataggio dell'uomo attraverso Cristo. In questo momento di visione intensa, le tre donne invitano Beatrice a svelarsi completamente, mostrando al poeta la sua bellezza divina, che è ora talmente perfetta che le parole di Dante non sono in grado di descriverla. Questo episodio si inserisce in quella che è la "poetica dell'inesprimibile", che sarà un tema ricorrente nella descrizione del Paradiso, dove la bellezza eterea e trascendente è ineffabile e va oltre le capacità del linguaggio umano.
Passi Controversi
Al verso 4, l'espressione "sanza cunta" significa "senza indugio", derivando dal latino medievale "cuncta", come attestato da Uguccione da Pisa. La similitudine nei versi 16-21, interpretata in vari modi, suggerisce che Dante stia parlando con difficoltà a causa del dolore che lo sovrasta, come una balestra che, tesa troppo, lancia la freccia con scarsa forza. Il verso 42 implica che la giustizia divina diventi più indulgente di fronte alla confessione, simile a una mola che smussa la lama quando si muove contro il taglio. I versi 50-51 si riflettono anche nel Canzoniere di Petrarca (CXXVI, 2; 34-35), con il riferimento alle membra belle e alla terra tra le pietre. Nei versi 61-63, si paragona un giovane uccellino che può cadere nelle trappole del cacciatore, mentre l'adulto riesce a evitarle. Il termine "barba" al verso 68 si riferisce genericamente al viso o al mento, ma Beatrice lo usa con un'ironia per indicare l'età adulta di Dante. Il vento menzionato al verso 72 è il libeccio, che soffia dall'Africa, la terra di Iarba, il re dei Getuli, amante di Didone. Il verso 91 suggerisce che il cuore restituisce la forza vitale alle membra esterne, spiegando la fisiologia medievale in cui lo svenimento era causato dal ritorno del sangue al cuore. Al verso 96, "scola" si riferisce probabilmente a una "gondola", una barca piatta e leggera, come indicato nella tradizione veneto-romagnola, più che a "spola", poiché Matelda scivola sull'acqua senza avanzare e indietreggiare. Il verso 98 cita un passo del Salmo Miserere (L): "Mi aspergerai con l'issopo e sarò puro; mi laverai e sarò più bianco della neve". Al verso 117, "ti trasse le sue armi" significa "ti scagliò i suoi dardi". Al verso 126, "ne l'idolo suo" vuol dire "nella sua immagine riflessa", cioè negli occhi di Beatrice. Il verso 132, "caribo", probabilmente fa riferimento a una danza. La "seconda bellezza" di Beatrice al verso 138 potrebbe indicare la bellezza della bocca oltre a quella degli occhi, ma è anche possibile che rappresenti la sua bellezza sovrumana, non più legata alla mortalità. Il verso 144 è stato interpretato in vari modi, ma il significato rimane oscuro: potrebbe alludere al luogo dove le sfere celesti, con la loro armonia, circondano l'individuo.
Fonti: libri scolastici superiori