Parafrasi e Analisi: "Canto XX" - Purgatorio - Divina Commedia - Dante Alighieri


Immagine Dante Alighieri
1) Scheda dell'Opera
2) Introduzione
3) Testo e Parafrasi
4) Riassunto
5) Figure Retoriche
6) Analisi ed Interpretazioni
7) Passi Controversi

Scheda dell'Opera


Autore: Dante Alighieri
Prima Edizione dell'Opera: 1321
Genere: Poema
Forma metrica: Costituita da tre versi di endecasillabi. Il primo e il terzo rimano tra loro, il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva.



Introduzione


Il Canto XX del Purgatorio affronta il tema del peccato dell'avarizia e del suo contrappasso, collocandosi nella quinta cornice della montagna del Purgatorio. Qui, Dante prosegue la sua riflessione morale e spirituale sull'attaccamento smodato ai beni materiali, contrapponendo a esso l'importanza della virtù della generosità e del distacco terreno. Attraverso la poesia, il poeta sottolinea il legame tra l'avarizia e il disordine etico che genera nelle relazioni umane e sociali, presentando una condanna netta del peccato e una celebrazione della rettitudine come via di redenzione. Il Canto si distingue per la potenza evocativa dei richiami storici e biblici, che amplificano il significato universale dell'insegnamento dantesco.


Testo e Parafrasi


Contra miglior voler voler mal pugna;
onde contra 'l piacer mio, per piacerli,
trassi de l'acqua non sazia la spugna.

Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a' merli;

ché la gente che fonde a goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa,
da l'altra parte in fuor troppo s'approccia.

Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l'altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!

O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?

Noi andavam con passi lenti e scarsi,
e io attento a l'ombre, ch'i' sentia
pietosamente piangere e lagnarsi;

e per ventura udi' «Dolce Maria!»
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia;

e seguitar: «Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo».

Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,
con povertà volesti anzi virtute
che gran ricchezza posseder con vizio».

Queste parole m'eran sì piaciute,
ch'io mi trassi oltre per aver contezza
di quello spirto onde parean venute.

Esso parlava ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza.

«O anima che tanto ben favelle,
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
tu queste degne lode rinovelle.

Non fia sanza mercé la tua parola,
s'io ritorno a compiér lo cammin corto
di quella vita ch'al termine vola».

Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto
ch'io attenda di là, ma perché tanta
grazia in te luce prima che sie morto.

Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.

Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.

Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta.

Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi,

trova'mi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno,

ch'a la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa.

Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male.

Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna.

Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

Tempo vegg' io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ' suoi.

Sanz' arme n'esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.

Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta.

L'altro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l'altre schiave.

O avarizia, che puoi tu più farne,
poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne?

Perché men paia il mal futuro e 'l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo un'altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.

Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.

O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?

Ciò ch'io dicea di quell' unica sposa
de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa,

tanto è risposto a tutte nostre prece
quanto 'l dì dura; ma com' el s'annotta,
contrario suon prendemo in quella vece.

Noi repetiam Pigmalïon allotta,
cui traditore e ladro e paricida
fece la voglia sua de l'oro ghiotta;

e la miseria de l'avaro Mida,
che seguì a la sua dimanda gorda,
per la qual sempre convien che si rida.

Del folle Acàn ciascun poi si ricorda,
come furò le spoglie, sì che l'ira
di Iosüè qui par ch'ancor lo morda.

Indi accusiam col marito Saffira;
lodiam i calci ch'ebbe Elïodoro;
e in infamia tutto 'l monte gira

Polinestòr ch'ancise Polidoro;
ultimamente ci si grida: "Crasso,
dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?".

Talor parla l'uno alto e l'altro basso,
secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona
ora a maggiore e ora a minor passo:

però al ben che 'l dì ci si ragiona,
dianzi non era io sol; ma qui da presso
non alzava la voce altra persona».

Noi eravam partiti già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder n'era permesso,

quand' io senti', come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch'a morte vada.

Certo non si scoteo sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse 'l nido
a parturir li due occhi del cielo.

Poi cominciò da tutte parti un grido
tal, che 'l maestro inverso me si feo,
dicendo: «Non dubbiar, mentr' io ti guido».

'Glorïa in excelsis' tutti 'Deo'
dicean, per quel ch'io da' vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo.

No' istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che 'l tremar cessò ed el compiési.

Poi ripigliammo nostro cammin santo,
guardando l'ombre che giacean per terra,
tornate già in su l'usato pianto.

Nulla ignoranza mai con tanta guerra
mi fé desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciò non erra,

quanta pareami allor, pensando, avere;
né per la fretta dimandare er' oso,
né per me lì potea cosa vedere:

così m'andava timido e pensoso.
La volontà non può vincere contro una volontà superiore, più forte;
così che, contro ogni mio desiderio, per fare come lui voleva,
mi allontanai insoddisfatto (allontanai dall'acqua la spugna ancora asciutta).

Mi rimisi in cammino; e la mia guida Virgilio si rimise in cammino con me
attraverso gli spazi liberi, non occupati dalle anime sdraiate, tendosi
stretto alla parete rocciosa, così come ci si tiene attaccati alla merlatura quando si cammina lungo una cinta muraria;

perché le anime degli avari, che espiano lacrima dopo lacrima
quel male, quel vizio che ha oramai invaso tutto il mondo,
si trovavano dall'altra parte, troppo vicino al bordo esterno della cornice.

Che tu possa essere maledetta, lupa (avidità) di antiche origini, perché
hai fatto più vittime di tutte le altre bestie, di qualunque altro vizio,
spinta dalla tua fame infinita, insaziabile!

Oh cielo, il cui girare alcuni credono sia capace
di provocare i mutamenti nelle condizioni di vita nel mondo terrestre,
quando verrà chi potrà fare andare via questa bestia?

Noi proseguivamo il nostro viaggio con passi lenti e corti,
ad io osservavo ed ascoltavo con attenzione le anime, che sentivo
piangere e lamentarsi tanto da farmi impietosire;

e mi capitò di sentire le parole "Dolce Maria!"
essere pronunciate, poco davanti a noi, tra il pianto
con una voce simile a quella di una donna che sta partorendo;

ed in seguito "Tu sei stata tanto povera,
quanto possiamo vedere, intendere da quella stalla
nella quale hai deposto il bambino nato dal tuo santo parto."

E poco dopo sentii dire anche: "Oh buon Fabrizio,
hai voluto vivere nella povertà ma come uomo onesto
piuttosto che possedere una grande ricchezza ma vivere nella corruzione."

Queste parole mi erano piaciute a tal punto, che mi mossi
subito per riuscire a conoscere quello spirito
dal quale sembravano essere venute, che sembrava averle pronunciate.

Quello spirito parlava ancora del generoso dono
che San Nicolò fece alle tre giovani vergini,
affinché la loro giovinezza non fosse disonorata.

"Oh anima, che stai decantando esempi di generosità tanto belli,
dimmi chi sei stato in vita", chiesi, "e perché sei la sola anima
a richiamare alla memoria questi comportamenti degni di lode.

Sappi che la tua risposta non resterà senza ricompensa, se io potrò
mai ritornare nel mondo dei vivi, a ripercorrere quel breve percorso
della vita terrena che rapido arriva alla sua fine."

E lui a me: "Io ti darò una risposta, ma non per il compenso che potrei
aspettarmi di ricevere al tuo ritorno di là, ma perché vedo risplendere
così tanto in te la Grazia divina, prima ancora che tu sia morto.

Io sono stato la radice (il capostipite) di quell'albero (famiglia) malvagio
che ora danneggia tutto il mondo cristiano,
tanto che raramente da essa si può raccogliere un buon frutto.

Ma se le città di Douai, Lille, Gand e Bruges potessero,
fossero in grado, questa sua malvagità verrebbe subito punita;
ed io chiedo che accada a colui che tutto giudica.

Il mio nome in vita è stato Ugo Capeto;
da me sono discesi i Filippi ed i Luigi
da cui attualmente la Francia è governata.

Ero figlio di un macellaio di Parigi:
quando l'antica dinastia dei sovrani si estinse completamente,
tranne che per un discendente fattosi frate (che mise panni grigi),

mi trovai strette tra le mie mani le redini per guidare
sia il governo che il regno, ed una così smisurara potenza
derivante dalle nuove conquiste, ed una così ampia cerchia di amici,

che la corona rimasta vacante fu posta
sulla testa di mio figlio, dal quale
discese poi tutta la dinastia dei re consacrati (i Filippi ed i Luigi).

Finché il dominio della Provenza, ricevuto in dote da mia moglie,
non tolse ai miei discendenti la capacità di contenere i propri impulsi,
la dinastia aveva scarso valore, ma almeno non commetteva male alcuno.

Da lì iniziò però poi a compiere usando la forza e l'inganno
le sue rapine; ed in seguito, per espiare tale peccato,
estese il suo dominio sul Ponthieu, sulla Normandia e sulla Guascogna.

Carlo I d'Angiò venne in Italia e, per penitenza,
fece sua vittima, uccise, Corradino; e poi
rispedì anche in cielo Tommaso, sempre per penitenza.

Vedo che arriverà un giorno, non molto lontano da oggi,
in cui un altro Carlo uscirà fuori dai confini della Francia,
per far meglio conoscere il valore suo e dei suoi uomini.

Uscirà senza nessuna arma ma solo con la lancia (l'astuzia e l'inganno)
che fu in passato già utilizzata da Giuda, e la punterà
con una tale precisione da fare scoppiare la pancia a Firenze.

Pertanto, nessun dominio territoriale, ma solamente colpa e vergogna
guadagnerà con questo suo operare, tanto più grave per sé
quanto meno reputa valere una simile punizione.

L'altro Carlo (Carlo II d'Angiò), che era già uscito dalla Francia su di una
nave, come prigioniero, lo vedo vendere sua figlia e contrattare sul prezzo
così come fanno i corsari con le figlie degli altri catturate e fatte schiave.

Oh avidità, che cosa puoi fare peggio di così,
dopo che la mia discendenza, la mia stirpe hai tirato a te a tal punto
che non ha ora più cura nemmeno dei propri parenti stretti?

Ma perché sembri meno grave il male che verrà fatto e quello già compiuto,
vedo anche entrare nella cittadina di Anagni il giglio di Firenze,
e vedo Cristo essere catturato nella persona del suo vicario in terra, il papa.

Le vedo venire deriso ancora una volta;
lo vedo subire nuovamente l'offesa dell'aceto e del fiele,
ed essere infine nuovamente ucciso in mezzo a ladroni vivi.

Vedo il nuovo Pilato (Filippo il Bello) essere tanto crudele
da non sentirsi appagato da questa morte, e, senza permesso,
dirigere le vele della sua avidità contro l'ordine dei Templari.

Oh mio Signore, quando potrò finalmente gioire
nel vendere punita tanta crudeltà che, nascosta agli uomini,
rende più dolce la tua ira nella tua mente per noi inesplorabile?

Quanto ho prima detto parlando della Madonna, unica sposa
dello Spirito Santo, e che ti ha spinto
a rivolgerti verso di me per chiedermi delle spiegazioni,

è il canto liturgico alternato alle nostre preghiere recitate
per tutta la durata del giorno; ma non appena cala la notte, citiamo
esempi di valore opposto rispetto a quelli (esempi di virtù) che hai udito.

Durante le ore della notte ripetiamo esempi di avidità punita, come
Pigmalione, che traditore, ladro e assassino dei suoi stessi parenti
fu reso dal suo desiderio sfrenato di ricchezze;

e l'infelicità dell'avido re Mida, che fu
la conseguenza del suo continuare a chiedere in modo insaziabile,
per la quale (infelicità) conviene mettersi sempre a ridere.

Del folle Acan ciascuno di noi poi si ricorda,
che derubò i resti della citta di Gerico, così che l'ira
di Giosué sembra colpirlo ancora anche qui nel mondo dei morti.

Denunciamo quindi l'avvidità di Saffira e di suo marito;
lodiamo i calci che si prese Eliodoro come punizione;
e con disonore gira per tutto il monte del Purgatorio

il nome di Polinestore, che uccise Polidoro;
in ultimo gridiamo: "Crasso,
dicci, tu che lo sai: quale sapore ha l'oro?"

A volte uno di noi parla a volce alta ed un altro a voce bassa,
a seconda della forza dell'amore che ci spinge nel proseguire con le parole
una volta con una maggiore ed un'altra con una minore intensità:

pertanto, nell'elencare esempi di virtù, dei quali ci si ricorda durante
il giorno, io non ero da solo poco fa; ma, semplicemente, accanto a me
nessun'altra persona lo faceva come me, alzando la voce."

Io e Virgilio ci eravamo già allontanati da quello spirito,
e cercavamo in ogni modo di percorrere la strada
quanto più velocemente ci era consentito,

quando io sentii, come se stesse franando qualcosa,
tremare tutto il monte del Purgatorio; e fui colto così da un gelo
simile a quello che si impadronisce di chi va incontro alla sua morte.

Non tremò certamente così tanto l'isola di Delo,
prima che Latona la scegliesse come sua dimora
dove partorire i figli Apollo e Diana, i due occhi del cielo.

Poi da ogni parte si alzò improvvisamente in cielo un grido
tanto forte, che il mio mestro si rivolse e si avvicinò a me, dicendomi,
per tranquillizzarmi: "Non temere, intanto che ci sono io come tua guia."

"Gloria in excelsis Deo" intonavano tutte le anime presenti,
per quello che potei cogliere da quelle a me vicine,
le parole delle quali potevano essere da me meglio comprese.

Io e Virgilio stavamo immobili ed in attesa,
come fecero i pastori che per primi udirono quello stesso canto a Betlemme,
fintanto che il monte smise di tremare ed il cantare venne interrotto.

Ci riavviammo quindi lungo il nostro cammino santo,
facendo attenzione alle anime che giacevano sdraiate a terra
e che, dopo il canto, erano già tornate al loro abituale pianto.

Mai nessuna ignoranza, mancanza di conoscenza, con una tale tormento
mi fece ardere dal desiderio di sapere,
se la mia memoria non mi inganna.

quanto mi sembrò di esserlo allora ripensando ai fatti poco prima accaduti;
non osavo domandare niente a Virgilio, vista la fretta che aveva di andare,
ma non riuscivo nemmeno a capire da solo cosa poteva essere successo:

e non potei così fare a meno di camminare tutto timoroso e pensieroso.



Riassunto


Versi 1-15: Invettiva contro la cupidigia
Dopo essere stato congedato da papa Adriano, Dante si allontana con il cuore ancora in parte insoddisfatto. Camminando tra le anime dei peccatori colpevoli di avarizia e prodigalità, il poeta lancia una dura condanna contro l'antica lupa, simbolo della cupidigia e causa di molti mali nel mondo. Invoca un intervento divino che possa liberare per sempre l'umanità da questa piaga.

Versi 16-33: Esempi di povertà e generosità
Dante sente risuonare una voce che evoca esempi di povertà virtuosa e generosità. Seguendo il suono, si avvicina a un'anima che sembra aver parlato e che aggiunge un ulteriore esempio di liberalità.

Versi 34-96: Ugo Capeto
La voce appartiene allo spirito di Ugo Capeto, fondatore della dinastia dei Capetingi, descritta come oppressore della cristianità. Ugo ricorda che i suoi discendenti inizialmente non si distinsero né per grandi virtù né per gravi colpe, fino a quando, con il matrimonio di Carlo d'Angiò con Beatrice di Provenza, la cupidigia iniziò a radicarsi profondamente nella casata. Egli narra della corruzione della sua discendenza, menzionando eventi come l'arrivo di Carlo di Valois in Italia, che causerà la rovina di Firenze, e l'avidità di Carlo II d'Angiò, il quale diede in sposa la figlia Beatrice ad Azzo VIII d'Este in cambio di ricchi doni. Ugo prosegue raccontando l'oltraggio che Filippo il Bello infliggerà a Bonifacio VIII ad Anagni e invoca il giudizio di Dio affinché punisca tali colpe.

Versi 97-123: Esempi di avarizia punita
In risposta a una domanda di Dante, Ugo spiega che le anime di questa cornice durante il giorno recitano esempi di povertà e generosità, mentre di notte evocano episodi di avarizia punita, modulando il tono della voce in base all'intensità del loro pentimento.

Versi 124-151: Il terremoto e il Gloria
All'improvviso la montagna trema e, contemporaneamente, le anime intonano il Gloria in excelsis Deo, lo stesso canto che risuonò alla nascita di Cristo. Dante prosegue pensieroso, spinto da un intenso desiderio di comprendere ciò che sta accadendo.


Figure Retoriche


v. 2: "'l piacer mio": Anastrofe.
v. 3: "Non sazia la spugna": Anastrofe.
v. 4: "'l duca mio": Anastrofe.
vv. 4-5: "Per li / luoghi": Enjambement.
v. 6: "Come si va per muro stretto a' merli": Similitudine.
v. 10: "Maladetta sie tu": Anastrofe.
v. 12: "Fame sanza fine cupa": Iperbole.
v. 13: "O ciel": Apostrofe.
v. 16: "Lenti e scarsi": Endiadi.
v. 18: "Piangere e lagnarsi": Endiadi.
v. 21: "Come fa donna che in parturir sia": Similitudine.
v. 22: "Povera fosti tanto": Anastrofe.
vv. 26-27: "Con povertà volesti anzi virtute che gran ricchezza posseder con vizio": Chiasmo.
vv. 35-36: "Sola / tu": Enjambement.
v. 38: "Lo cammin corto": Anastrofe.
vv. 41-42: "Tanta / grazia": Enjambement.
v. 48: "A lui che tutto giuggia": Perifrasi.
v. 49: "Chiamato fui": Anastrofe.
v. 52: "Figliuol fu' io": Anastrofe.
v. 57: "D'amici pieno": Anastrofe.
v. 62: "Sangue mio": Anastrofe.
v. 76: "Peccato e onta": Endiadi.
v. 81: "Patteggiarne come fanno i corsar de l'altre schiave": Similitudine.
v. 82: "O avarizia": Apostrofe.
v. 96: "L'ira tua": Anastrofe.
vv. 97-98: "Sposa de lo Spirito Santo": Perifrasi. Per indicare Maria.
v. 99: "Verso me volger": Anastrofe.
v. 104: "Traditore e ladro e paricida": Enumerazione.
v. 105: "Voglia sua": Anastrofe.
vv. 110-111: "L'ira / di Iosuè": Enjambement.
v. 127: "Come cosa che cada": Similitudine.
vv. 128-129: "Onde mi prese un gelo qual prender suol colui ch'a morte vada": Similitudine.
v. 139: "Immobili e sospesi": Endiadi.
v. 140: "Come i pastor che prima udir quel canto": Similitudine.
v. 151: "Timido e pensoso": Endiadi.


Analisi ed Interpretazioni


Il canto XX del Purgatorio completa il discorso di Dante sull'avarizia, presentando Ugo Capeto come exemplum morale. Il personaggio, capostipite della dinastia capetingia, rappresenta il contraltare di papa Adriano V del canto precedente, offrendo così una critica ai massimi poteri dell'Europa cristiana: il papato e la monarchia francese. La condanna del peccato di cupidigia, radice di ogni male secondo san Paolo, si sviluppa attraverso immagini simboliche e narrative che sottolineano il ruolo distruttivo dell'avidità sia nell'ambito politico che religioso.

L'invettiva contro la cupidigia e la lupa
Dante apre il canto con una dura invettiva contro la lupa, simbolo della cupidigia, che già nel primo canto dell'Inferno aveva impedito al poeta di ascendere il dilettoso monte. Questa bestia insaziabile, inviata sulla terra da Lucifero per corrompere l'umanità, rappresenta il peccato che permea il mondo e contro cui Dante invoca l'intervento provvidenziale del Veltro, figura profetica di un redentore capace di ristabilire l'ordine e la giustizia. L'invettiva si pone come ponte tra i canti XIX e XX, legando il tema della corruzione all'interno delle massime istituzioni di potere, identificando nel Papato e nella monarchia francese i principali responsabili della decadenza morale e politica del tempo.

Ugo Capeto e la condanna della monarchia francese
La figura di Ugo Capeto emerge come emblema della cupidigia e occasione per Dante di esprimere una feroce critica politica. Pur confondendolo con tratti appartenenti al padre, Ugo il Grande, Dante lo rappresenta come un sovrano di umili origini che, dopo aver accumulato potere e ricchezze, si pente dei suoi peccati e ottiene la salvezza eterna. Tuttavia, la condanna è rivolta principalmente ai suoi discendenti, considerati responsabili di misfatti gravissimi. Ugo individua come origine del declino morale della dinastia l'acquisizione della Provenza nel 1245, attraverso il matrimonio di Beatrice con Carlo I d'Angiò, che violò accordi preesistenti e portò all'invasione della regione. Da quel momento, la dinastia francese si macchiò di avarizia e ingiustizie, come l'esecuzione di Corradino di Svevia e l'avvelenamento di san Tommaso d'Aquino.

Tra i principali bersagli di Ugo Capeto figura Filippo il Bello, accusato di tradimenti e azioni contro la cristianità. Tra questi, la repressione dei Fiamminghi, l'oltraggio di Anagni contro Bonifacio VIII e la dissoluzione dell'Ordine dei Templari per impadronirsi delle loro ricchezze. Le immagini utilizzate richiamano la Passione di Cristo, con Filippo paragonato a Pilato e il papa ai ladroni. Tali episodi, profetizzati come prossimi castighi, evidenziano il legame tra avarizia e disordine politico, tema centrale del canto.

Conclusione e preannuncio
Il canto si conclude con il terremoto che scuote il monte del Purgatorio e il canto del Gloria da parte delle anime penitenti, simboli di un evento straordinario. Questo anticipa l'incontro con Stazio nel canto successivo, che fornirà a Dante l'occasione per approfondire ulteriormente il tema della poesia e per spiegare la connessione tra avarizia e prodigalità. L'atmosfera di attesa e dubbio trasmessa al lettore prepara il terreno per nuove riflessioni morali e poetiche.


Passi Controversi


Nel verso 4, la rima per li è composta e si pronuncia «pèrli», come si riscontra in altri punti del poema (ad esempio, Inferno, VII, 28). Al verso 15, Dante invoca il Cielo chiedendo quando giungerà colui che scaccerà la lupa, un chiaro richiamo al veltro della profezia già menzionata in Inferno, I, 101 e seguenti.

Ai versi 43-45, Ugo Capeto utilizza la metafora della pianta per rappresentare la dinastia capetingia: egli stesso, come capostipite, è la radice, mentre i discendenti sono i rami. Questa pianta, però, getta un'ombra negativa sull'intera Cristianità, producendo raramente frutti benefici. Il verbo schianta si riferisce proprio alla pianta.

Le città menzionate al verso 46, Douai, Lille, Gand e Bruges, sono italianizzate e rappresentano simbolicamente la regione delle Fiandre. Al verso 49, Ugo Capeto si presenta con il soprannome Ciappetta, probabilmente derivante dal francese Chapet, che indicava la piccola cappa indossata da Ugo I e Ugo II come abati laici. Questo termine è all'origine del nome "Capeto".

Nei versi 50-51, Ugo fa riferimento ai numerosi re francesi chiamati Filippo e Luigi, che hanno regnato tra il X e il XIII secolo. Il termine beccaio al verso 52 è bisillabo grazie alla fusione del trittongo -aio. Al verso 53, i "regi antichi" sono i Carolingi, che Ugo, secondo una leggenda medievale, sostiene essere tutti morti tranne uno, costretto a ritirarsi in convento (panni bigi). Questa credenza sembra intrecciarsi con un episodio simile riguardante l'ultimo re merovingio, Childerico III.

Al verso 59, Ugo cita suo figlio Roberto I, a meno che la voce narrante non sia quella di Ugo I, in cui caso il figlio sarebbe Ugo II, evidenziando un'eventuale confusione tra i due Ughi da parte di Dante. Il verso 66 fa riferimento alle conquiste di Filippo il Bello nel 1294, quando si appropriò della contea di Ponthieu e della Guascogna, feudi inglesi. Dante include anche la Normandia, che però era stata occupata da Filippo II nel 1204.

Nei versi 73-74, la lancia con la qual giostrò Giuda simboleggia il tradimento compiuto da Carlo di Valois a Firenze nel 1301-1302, che portò alla vittoria dei Neri. L'immagine di Firenze, il cui ventre viene squarciato (v. 75), richiama probabilmente gli Atti degli Apostoli (I, 18), dove Pietro descrive Giuda impiccato e squarciato nel mezzo. Dante, con toni sarcastici, osserva che Carlo guadagnò solo vergogna da quest'azione, forse alludendo al suo fallito tentativo di riconquistare la Sicilia agli Aragonesi.

Il fiordaliso al verso 86 rappresenta il giglio, emblema della monarchia francese (cfr. Purgatorio, VII, 105; Paradiso, VI, 100 e seguenti). Il verso 92 menziona il decreto papale necessario per sciogliere l'Ordine dei Templari, azione che Filippo il Bello intraprese arbitrariamente.

Il termine risposto (v. 100) indica una forma di responsorio, con cui le anime alternano preghiere di lode agli esempi di generosità durante il giorno e di punizione dell'avarizia durante la notte. Infine, i versi 130-132 richiamano il mito di Delo, un'isola instabile che, secondo la leggenda, divenne stabile grazie ad Apollo dopo la nascita sua e di Diana da Latona.

Fonti: libri scolastici superiori

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