John Stuart Mill - Utilitarismo e differenza tra piaceri


Immagine John Stuart Mill
1) Introduzione
2) Lettura
3) Guida alla lettura
4) Guida alla Comprensione

Introduzione


Nel 1861, Mill presenta al pubblico il suo lavoro "Utilitarismo", in cui espone una teoria morale che si è spesso trovata sotto il fuoco delle critiche. In particolare, Mill difende l'utilitarismo dall'accusa di ridurre l'umanità a meri cercatori di piaceri sensoriali, sostenendo che gli uomini aspirino a qualcosa di più elevato. Egli respinge l'idea che l'essenza umana sia semplicemente la ricerca del piacere fisico, sottolineando invece l'importanza di piaceri di natura superiore. Questa posizione segna una netta divergenza da Bentham, il quale considerava i piaceri e i dolori misurabili solo in termini quantitativi.


Lettura


La dottrina che accetta l'utilità o principio della massima felicità come fondamento della morale sostiene che le azioni sono moralmente corrette nella misura in cui tendono a procurare felicità, moralmente scorrette se tendono a produrre il contrario della felicità.

Per felicità, si intende il piacere e l'assenza di dolore; per infelicità il dolore e la privazione di piacere. Per dare una visione chiara del parametro morale proposto da questa teoria, bisognerebbe però aggiungere molto di più: in particolare, quali cose rientrino nelle idee di dolore e di piacere, e fino a che punto invece la questione venga lasciata aperta. Ma queste spiegazioni supplementari non toccano la teoria della vita su cui si fonda la teoria utilitarista della moralità: e cioè, che il piacere e la liberazione dal dolore siano le uniche cose desiderabili come fini; e che tutte le cose desiderabili (che nello schema utilitarista sono tante quante in tutti gli altri) sono desiderabili o per il piacere insito in esse o come mezzo per promuovere il piacere e prevenire il dolore.

Ora, questa teoria della vita suscita una inveterata avversione nella mente di molti, talvolta in persone anche degne della massima stima per sentimenti e propositi. Supporre che la vita non abbia altro fine più alto del piacere (così si esprimono), altro oggetto migliore o più nobile da desiderare e a cui ambire, è cosa che costoro definiscono come assolutamente meschina e abietta: una dottrina degna soltanto di quei porci, cui un tempo venivano paragonati sprezzantemente i seguaci di Epicuro. [...]

Paragonare la vita epicurea a quella delle bestie viene sentito come qualcosa di degradante, proprio perché i piaceri di una bestia non soddisfano la concezione che della felicità hanno gli esseri umani. Gli uomini hanno facoltà molto più elevate rispetto agli appetiti animali, e una volta che ne siano consapevoli vedono la felicità solo e soltanto in qualcosa che includa la gratificazione di quelle facoltà.

Certo, non credo che gli Epicurei siano stati proprio ineccepibili nel delineare il loro schema di conseguenze derivate dal principio utilitarista; perché la cosa sia in qualche modo accettabile, bisogna includervi molti elementi stoici, e anche molti elementi cristiani. Ma non mi risulta una sola teoria epicurea della vita che non assegni ai piaceri dell'intelletto, dei sentimenti e dell'immaginazione, nonché ai piaceri dei sentimenti morali, un valore molto più alto, proprio in quanto piaceri, rispetto a quelli della semplice sensazione.

Tuttavia, bisogna ammettere che gli autori utilitaristi hanno riposto in genere la superiorità dei piaceri mentali su quelli del corpo, soprattutto nel fatto che i primi sono più duraturi, più sicuri, meno costosi ecc.: cioè grazie ai vantaggi dovuti alle circostanze, piuttosto che alla loro natura intrinseca. Certo, ogni singolo punto gli utilitaristi son sempre riusciti a ribatterlo fornendo prove esaurienti; ma, sempre restando perfettamente coerenti con se stessi, avrebbero anche potuto passare sull'altro piano, al livello per così dire più alto.

Riconoscere che alcuni tipi di piacere siano più desiderabili e apprezzabili di altri è del tutto compatibile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri dipenda solo dalla quantità, quando invece per valutare tutte le altre cose si prende in considerazione anche la qualità, oltre alla quantità.

Se mi si chiede cosa intendo per differenza di qualità fra i piaceri, o che cosa renda un piacere più apprezzabile di un altro solo in quanto piacere, a prescindere cioè dalla sua maggior quantità, non c'è che una risposta possibile. Fra due piaceri, il più desiderabile è quello cui va decisamente la preferenza di tutti o quasi tutti coloro che abbiano esperienza di entrambi, a prescindere da qualsiasi sentimento di obbligazione morale a preferirlo.

Se coloro che hanno una conoscenza qualificata di entrambi pongono uno dei due tanto al di sopra dell'altro, da preferirlo pur sapendo che a esso si accompagnerà una maggior dose di insoddisfazione, e non accetterebbero mai in cambio l'altro piacere quale che fosse la sua quantità, neanche tutta quella di cui la loro natura è capace, si è giustificati allora ad attribuire al godimento da essi prescelto una superiorità qualitativa, che va tanto al di là dell'aspetto quantitativo da renderlo, al paragone, di ben poco conto.

Ora, è fuori discussione che, data una eguale conoscenza di due tipi di vita, e data una eguale capacità di apprezzarli e di goderne, diamo la nostra preferenza più marcata a quello dei due che impegna le nostre facoltà più elevate.

Ben poche creature umane acconsentirebbero a esser tramutate in un animale inferiore, neanche se si promettesse loro di potersi concedere tutti i piaceri di quell'animale; nessun essere umano intelligente acconsentirebbe a diventare uno sciocco, nessuna persona istruita vorrebbe essere un ignorante, nessuna persona dotata di sentimenti e di coscienza vorrebbe essere egoista e meschina, anche quando fossero tutti convinti che è più soddisfatto lo sciocco, l'ottuso o il furfante per ciò che ha, di quanto lo siano loro per ciò che a loro è toccato. Non rinuncerebbero mai a quel di più che possiedono rispetto a lui, neanche in cambio del più completo appagamento di tutti quei desideri che hanno in comune con lui. [...]

A un essere di facoltà più elevate occorre di più per essere felice; egli è probabilmente capace di sofferenza più acuta, e certamente è più vulnerabile di quanto non lo sia un essere di tipo inferiore; ma non per questo, e malgrado tutti gli svantaggi, potrà mai desiderare davvero di precipitare in ciò che sente come un grado inferiore di esistenza.

Non lo vorrà di certo; e di questo rifiuto possiamo dare la spiegazione che più ci aggrada: possiamo attribuirlo all'orgoglio, un nome che viene dato indiscriminatamente ad alcuni dei sentimenti più stimabili e ad alcuni dei meno stimabili di cui l'uomo è capace; possiamo imputarlo all'amore della libertà e dell'indipendenza personale, cui gli Stoici ricorrevano come al miglior mezzo per inculcarlo; all'amore del potere o all'amore per le emozioni esaltanti, che effettivamente vi partecipano e vi contribuiscono: ma il suo nome più appropriato è quel certo senso di dignità che tutti gli esseri umani in una forma o nell'altra possiedono, e che è in qualche modo proporzionale alle loro facoltà più elevate, anche se la proporzione non è mai esatta; chi lo sente con forza, lo sentirà come una parte così essenziale della propria felicità da non poter desiderare nulla che gli sia avverso, se non forse per un attimo.

Pensare che questa preferenza comporti un sacrificio di felicità – che l'essere superiore non sia cioè più felice dell'essere inferiore date eguali circostanze – vuol dire confondere due idee molto diverse: l'idea di felicità e quella di appagamento. È fuor di dubbio che l'essere fornito di scarse capacità di godimento ha maggiori probabilità di appagarle pienamente; mentre un essere altamente dotato sentirà sempre come imperfetta, per com'è fatto questo mondo, qualsiasi felicità possa inseguire.

Ma può imparare a tollerarne le imperfezioni, purché siano appena tollerabili; ed esse non lo indurranno a invidiare quell'altro essere che, certo, non si accorge delle imperfezioni, ma solo perché non si accorge neanche del bene da loro circoscritto. È meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto. E se lo sciocco o il maiale sono di diverso parere, è perché vedono soltanto una faccia della questione: l'altro termine del nostro raffronto ne conosce tutte e due le facce. [...]

Nella natura umana, la capacità di nutrire i sentimenti più nobili è il più delle volte una pianta molto tenera, che muore facilmente, uccisa non soltanto da influenze ostili ma anche solo da mancanza di sostentamento; e nella maggioranza dei giovani muore rapidamente, se le occupazioni cui li assegna la loro posizione nella vita, e l'ambiente sociale in cui quella posizione li ha inseriti, non sono favorevoli a mantenere in esercizio le capacità più elevate.

Gli uomini perdono le loro aspirazioni più alte, così come perdono i loro gusti intellettuali, perché non hanno tempo o occasione per dedicarvisi; e si danno a piaceri inferiori, non perché deliberatamente li preferiscano, ma o perché sono gli unici cui hanno accesso oppure gli unici di cui riescono ormai a godere. Ci si può chiedere se chi è rimasto egualmente disponibile ai piaceri di entrambe le specie abbia mai potuto preferire la specie inferiore, scientemente e ponderatamente; certo è che molti, e in ogni epoca, hanno visto fallire tutti i loro vani tentativi di combinare insieme gli uni e gli altri.

Non credo proprio sia possibile impugnare questo verdetto, emesso com'è dagli unici giudici competenti. Se ci si domanda quale fra due piaceri sia meglio concedersi, o quale fra due modi di vivere sia più gradito ai sentimenti, astrazion fatta dai loro attributi morali e dalle loro conseguenze, dobbiamo accettare come definitivo il giudizio di chi è qualificato a darlo perché li conosce entrambi, oppure quello della maggioranza, in caso di giudizi diversi. E visto che neanche per dirimere la questione della quantità dei piaceri esistono altri tribunali cui ricorrere, tanto meno dovremmo esitare ad accettare questo giudizio quando si tratta della loro qualità.

Che strumenti abbiamo per determinare quale sia il più acuto fra due dolori, o la più intensa fra due sensazioni piacevoli, se non il suffragio generale di coloro che conoscono entrambi? Dolori e piaceri non sono omogenei fra loro, né gli uni né gli altri, e il dolore è sempre eterogeneo rispetto al piacere. Cos'altro abbiamo per poter decidere se valga o no la pena procurarci un certo particolare piacere al prezzo di un certo particolare dolore, se non i sentimenti e il giudizio di coloro che ne hanno esperienza? Se quindi quei sentimenti e quel giudizio affermano che i piaceri derivati dalle facoltà più elevate, a prescindere dalla loro intensità, sono di un tipo preferibile a quelli cui è dedita la natura animale disgiunta dalle facoltà più elevate, ebbene anche in questa materia essi hanno diritto a una pari considerazione.


Guida alla lettura


1) Che cosa sostiene la dottrina che accetta il «principio della massima felicità»?
La dottrina che accetta il "principio della massima felicità" sostiene che le azioni sono moralmente corrette nella misura in cui tendono a procurare felicità e moralmente scorrette se tendono a produrre il contrario della felicità. La felicità è definita come il piacere e l'assenza di dolore, mentre l'infelicità è definita come il dolore e la privazione di piacere.

2) Che cosa intende l'utilitarista per felicità?
L'utilitarista intende per felicità il piacere e l'assenza di dolore. Questo concetto è definito nel testo come segue: "Per felicità, si intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità il dolore e la privazione di piacere."

3) Quali criteri utilizzano gli utilitaristi come Bentham per valutare i piaceri?
Gli utilitaristi come Bentham valutano i piaceri principalmente utilizzando criteri quantitativi. Nel testo si afferma che secondo Bentham, i piaceri e i dolori possono essere misurati soltanto con criteri quantitativi. Tuttavia, Mill si distanzia da questa visione e sostiene che la valutazione dei piaceri non dipende solo dalla quantità ma anche dalla qualità. Egli argomenta che ci sono piaceri che sono più desiderabili e apprezzabili di altri e che la valutazione dei piaceri dovrebbe tener conto anche di questo aspetto, non limitandosi solo alla quantità.

4) A chi spetta il giudizio sui piaceri, secondo Mill?
Il giudizio sui piaceri, secondo Mill, spetta a coloro che hanno esperienza di entrambi i tipi di piaceri. Mill afferma che il giudizio di coloro che sono qualificati a darlo perché conoscono entrambi i tipi di piaceri o quello della maggioranza, in caso di giudizi diversi, dovrebbe essere considerato definitivo.

5) In quale contesto Mill richiama il senso di dignità?
Mill richiama il senso di dignità nel contesto della preferenza per una vita umana inappagata rispetto a una vita animale appagata. Egli afferma che è meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto, sottolineando che la preferenza per la vita umana deriva dal senso di dignità che gli esseri umani possiedono. Questo senso di dignità è descritto come una parte essenziale della felicità umana, che porta gli individui a rifiutare una vita inferiore anche se questa offre più piacere. Mill attribuisce questo rifiuto alla dignità umana, che è proporzionale alle facoltà più elevate degli esseri umani.


Guida alla Comprensione


1) Che cosa è che genera avversione verso l'utilitarismo?
L'avversione verso l'utilitarismo sembra essere generata dalla concezione che la vita umana possieda un fine più alto del semplice piacere. Questa avversione viene descritta nel testo come una reazione comune, soprattutto da parte di coloro che ritengono che l'idea di considerare il piacere come il fine ultimo della vita sia meschina e abietta. In particolare, si menziona che alcune persone, nonostante abbiano sentimenti e propositi degni di stima, trovano questa dottrina degna solo di individui considerati inferiori, come i porci, secondo un'antica comparazione dispregiativa con i seguaci di Epicuro. La resistenza verso l'utilitarismo sembra derivare dall'idea che gli esseri umani abbiano facoltà più elevate rispetto agli appetiti animali e che, pertanto, la felicità debba essere trovata in qualcosa che includa la gratificazione di tali facoltà superiori, piuttosto che nei piaceri più semplici e materiali.

2) Come conduce, Mill, la difesa degli Epicurei?
Mill difende gli Epicurei sostenendo che non è corretto paragonare la loro visione della vita all'esistenza delle bestie. Egli argomenta che gli esseri umani hanno facoltà molto più elevate rispetto agli appetiti animali e che, una volta consapevoli di tali facoltà, cercano la felicità solo in qualcosa che includa la gratificazione di queste facoltà superiori. Mill ritiene che gli Epicurei non abbiano necessariamente delineato in modo impeccabile le conseguenze del principio utilitarista ma che comunque attribuiscano un valore più elevato ai piaceri dell'intelletto, dei sentimenti e dell'immaginazione rispetto ai piaceri della semplice sensazione.

3) Su quale questione Mill prende le distanze da Bentham?
Mill prende le distanze da Bentham riguardo alla definizione della gerarchia dei piaceri. Mentre Bentham sostiene che i piaceri e i dolori possono essere misurati soltanto con criteri quantitativi, Mill afferma che ogni uomo, potendo scegliere, si indirizzerebbe verso i piaceri più elevati, suggerendo così una valutazione qualitativa dei piaceri.

4) Come è possibile determinare che un piacere è qualitativamente migliore di un altro?
Secondo il testo, si determina che un piacere è qualitativamente migliore di un altro basandosi sul giudizio di coloro che hanno esperienza di entrambi i piaceri. Mill afferma che se la maggioranza di coloro che hanno una conoscenza qualificata di entrambi i piaceri pone uno al di sopra dell'altro e lo preferisce nonostante possa comportare una maggiore dose di insoddisfazione, allora è giustificato attribuire al piacere preferito una superiorità qualitativa. Questo giudizio si basa sulla preferenza marcata di coloro che hanno esperienza diretta dei piaceri e che sono qualificati a valutarli.

5) Che cosa significa che è meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto?
Questa frase del testo si riferisce al concetto che è preferibile essere un individuo insoddisfatto ma dotato di facoltà cognitive elevate e di aspirazioni nobili, come Socrate, piuttosto che essere soddisfatti ma privi di saggezza e intelligenza, come uno sciocco.

Nel testo si spiega che la preferenza per essere un Socrate insoddisfatto piuttosto che uno sciocco soddisfatto si basa sulla considerazione delle facoltà umane più elevate. Anche se un individuo insoddisfatto può soffrire per la mancanza di appagamento, il suo essere superiore, capace di aspirare a ideali nobili e di apprezzare la conoscenza, lo distingue e lo eleva rispetto a uno sciocco soddisfatto, il quale, nonostante possa godere di piaceri immediati, è privo della capacità di comprendere e perseguire la vera saggezza e virtù.

In sostanza, questa affermazione suggerisce che è preferibile perseguire la conoscenza e la virtù, anche se ciò comporta insoddisfazione, piuttosto che accontentarsi di una vita superficiale e priva di significato.

6) Cosa significa che la sensibilità umana è una pianta delicata sempre a rischio?
Il testo sottolinea che la sensibilità umana è una "pianta molto tenera", il che implica che è facilmente danneggiabile o distruttibile. Questo concetto si riferisce alla fragilità degli ideali e dei sentimenti nobili presenti nell'uomo. L'autore suggerisce che la sensibilità umana è a rischio non solo a causa di influenze esterne ostili ma anche a causa della mancanza di sostentamento, ovvero di un ambiente sociale e occupazioni che non favoriscono lo sviluppo e il mantenimento delle capacità più elevate dell'essere umano.

Quindi, la sensibilità umana è considerata delicata e a rischio perché può essere facilmente compromessa dalla mancanza di un contesto sociale e occupazionale che sostenga e incoraggi il pieno sviluppo delle capacità umane più nobili e elevate.

Fonti: Zanichetti, libri scolastici superiori

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